Apparecchiu amiricanu

 

L’invito, la supplica e quindi il monito del Papa Giovanni Paolo II è rimasta inascoltata, e così inglesi ed americani, contro ogni parere del resto del mondo (tranne qualche Ponzio Pilato, che se n’è lavato le mani), hanno attaccato l’Iraq di Saddam apportando anarchia, lutti e distruzioni a non finire, incendi e devastazioni al mitico museo ed alla preziosa biblioteca di Baghdad. Apparentemente per spodestare ed uccidere il crudele despota iracheno, responsabile di atroci delitti, ma in pratica per motivi meno nobili che solo chi non vuole vedere non vede: petrolio e potere economico.

Per capire quel che sta succedendo in questi giorni bisogna essere coscienti di due processi, profondamente interrelati, che hanno caratterizzato il secolo che è appena finito: la globalizzazione della violenza e la violenza della globalizzazione. Il processo di globalizzazione della violenza, che vediamo iniziare in modo terribile con la prima guerra mondiale, è proseguito con la corsa agli armamenti durata per il resto del secolo, per cui l’umanità è giunta a poter distruggere sé stessa: pensate alla distanza tra i mezzi utilizzati per combattere la prima guerra mondiale e le armi nucleari, chimiche e biologiche oggi disponibili. Dopo la prima guerra mondiale sono nate due delle più sanguinose dittature di cui abbiamo conoscenza nella storia, che a loro svolta sono sboccate nella seconda guerra mondiale; tutte le guerre che si sono verificate nel resto del secolo sono state in parte anche mondiali (pensate alla guerra di Corea o alla guerra del Vietnam), perché vi erano direttamente o indirettamente coinvolte grandi potenze militari e politiche. Ciò che abbiamo visto in questi giorni non è che un episodio terribile di questo processo, che è profondamente legato all’altro processo, che caratterizza pure l’intero secolo appena concluso: la globalizzazione che ha diviso l’umanità tra vincitori e vinti. Per questo parlo di violenza della globalizzazione; è quella che a volte viene chiamata violenza strutturale. Se sfogliate i rapporti sullo Sviluppo umano pubblicati da dieci anni a questa parte dall’Agenzia per lo Sviluppo dell’ONU (UNDP), vedrete che di anno in anno, nell’ambito di questo processo di globalizzazione dell’economia, le disuguaglianze sia a livello locale che a livello mondiale non fanno che aumentare: i gruppi più ricchi diventano più ricchi e i gruppi più poveri diventano più poveri. Qui stanno anche le radici di quelle forme di violenza che normalmente vengono chiamate terrorismo. Forme di violenza che fanno parte esse stesse di una logica di globalizzazione della violenza; al di là delle cause economiche e sociali, ciò avviene perché ci sono, da una parte e dall’altra, menti e gruppi che credono nella logica della violenza, che credono che la risposta debba essere violenta. Non è una cosa nuova: ciò è avvenuto nei tempi in cui gli uomini si combattevano con bastoni e pietre e avviene nei giorni nostri, in cui siamo in grado di distruggere totalmente la civiltà. Ci sono menti che credono nella violenza, da una parte e dall’altra, e quando scoppiano i conflitti violenti essi vengono alla ribalta del potere e portano questa logica alle estreme conseguenze. Questo è il rischio insito, oggi sempre di più, in questa nuova impennata di violenza, in questo secolo che è appena cominciato.

Gli Stati Uniti d’America portano in sé stessi e nel mondo una contraddizione profonda e mai risolta. Da una parte sono un paese costruito su un genocidio: non hanno lasciato in vita quasi nessun indiano; hanno arso nei roghi di napaln, in Vietnam, decine di migliaia di persone innocenti, donne, bambini, vecchi; hanno seminato la morte, direttamente o indirettamente, in tante parti del mondo; hanno appoggiato alcune delle dittature più spietate dell’America latina (il rovesciamento del governo socialdemocratico di Allende e la dittatura fascista di Pinochet ebbero il pieno appoggio degli USA). D’altra parte, gli USA sono un paese con una lunga e profonda tradizione di democrazia, una grande cultura di diritti. Un paese estremamente contraddittorio porta le sue contraddizioni nel sistema internazionale. Tra quelle più recenti c’è il fatto che gli USA, che hanno una grande tradizione democratica e di diritti, non hanno mai ratificato la convenzione suoi diritti dell’infanzia (mancano solo loro e la Somalia); non hanno ancora ratificato il patto sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, entrato in vigore nel 1977 (l’articolo 11 stabilisce il diritto a non morire di fame; oggi si dovrebbe aggiungere anche il diritto a non morire di sete, perché il problema dell’acqua sta diventando sempre più grave, e per l’acqua si può andare in guerra come si va in guerra per il petrolio); non hanno ratificato il trattato sul bando alle mine antiuomo, stabilito alla conferenza di Oslo; hanno appena rifiutato gli accordi di Kyoto. Portano quindi nel sistema internazionale una profonda contraddizione, perché non si può essere credibili in una politica mondiale ispirata alla cultura dei diritti se allo stesso tempo si fanno azioni politiche di questo tipo. E questo renderà i prossimi sviluppi molto difficili. Dentro gli USA si combatte una lotta, per il momento democratica, proprio intorno a queste due tendenze, insite in questo paese così contraddittorio. Esiste ancora una profonda fede democratica e una grande tradizione di lotta per i diritti, che dobbiamo appoggiare il più possibile; ma questa non è oggi rappresentata dalla classe dirigente politico-militare americana.

A questo punto vorrei fare un passo indietro di un po’ di anni. Ne avevo pochissimi, nel ’45, quando la guerra era ormai alla fine. Lutti e distruzioni, non solo in Italia, ne aveva portati a non finire, e ci sarebbe voluto parecchio tempo prima che si rimarginassero le gravi ferite inferte dai bombardamenti e dai cannoneggiamenti americani. Gli americani evidentemente sparavano sui tedeschi in fuga, ma spesso chi ne subiva le conseguenze più gravi erano i civili inermi per non parlare delle strutture distrutte e bruciate dalle micidiali bombe spesso buttate a casaccio dagli aerei, e che cadevano dove non dovevano cadere. Roma, Milano e tante altre città subirono danni incalcolabili, (basti pensare al "Teatro alla Scala") e morti a migliaia a causa del fuoco che, in tempi moderni, viene classificato come "amico". Com’è ridicolo parlare di "fuoco amico"!

Gli americani si erano attestati a Canicattì, e spararono ben diciannove cannonate contro il paese di Montedoro, nel caso ci fossero stati ancora dei tedeschi da far fuori: "all’urbina", come di dice dalle nostre parti. Le conseguenze furono tragiche perché vi fu un morto, alcune case distrutte e tanta paura per la piccola comunità. Ci volle un’ambasciata ed una ferma protesta perché desistessero dagli spari inutili contro i nemici che si erano già dileguati. Non posso ricordare quelle scene disastrose, ma a volte le immagino e le vivo come reali quando le stesse cose, se non peggiori, le vedo in televisione, dal vivo, comodamente seduto in poltrona. Dopo l’ultima guerra gli americani ci hanno abituati a scene da film reale, prima con la Corea, poi col Vietnam, coi bombardamenti a tappeto e le bombe al napaln, adesso con l’Iraq e le bombe "intelligenti" che evidentemente quando deflagrano non conoscono amici o nemici: distruggono e basta. Una cosa però ricordo ben distintamente o immagino di ricordare: il rumore di quegli aerei che passando a bassa quota sganciavano carichi micidiali ed il rumore assordante che ne conseguiva. Il rumore di quelle eliche deve essere rimasto impresso nelle orecchie di noi bambini se, per parecchio tempo dopo la fine della guerra, quando sentivamo distintamente il rumore di un aereo di passaggio sul paese, americano o no, a frotte lo inseguivamo con lo sguardo correndo per la piazza e gridando a squarciagola: "Apparecchiu amiricanu jetta bummi e si ni và! Apparecchiu amiricanu jetta bummi e si ni và!".

Mi è capitato di ripetere con rabbia quella frase in questi giorni, come cinquant’anni fa, vedendo in televisione le scene della guerra irachena: e, manco a dirlo, sono stato preso per matto!