Ciccio e Turiddu a Milano
        
        Che fine avevano fatto i nostri due eroi, Ciccio e
        Turiddu? Si trovavano a Cremona, nel 1237, al seguito dell’Imperatore,
        quando questi fu costretto a correre in Germania per sedare la rivolta
        inscenata dal duca Federico d’Austria. Federico era partito col suo
        piccolo ma gagliardo gruppo di Saraceni, lasciando il grosso dell’esercito
        sotto il comando di Ezzelino da Romano che, in assenza dell’Imperatore,
        aveva sottomesso Padova e Mantova. I cremonesi stavano festeggiando S.
        Michele, quando Federico faceva ritorno in città, dopo avere reso alla
        ragione il riottoso duca tedesco. In tutti i quartieri di Cremona si
        respirava aria di guerra, ed i discorsi euforici che Ciccio e Turiddu
        sentivano nelle piazze e nelle taverne inneggiavano ad una imminente
        batosta da assestare ai Milanesi ed ai loro cugini, vicini prepotenti e
        da sempre nemici giurati.
        Come ogni sera, se ne stavano seduti al solito tavolo
        della taverna del vicolo dei mugnai, a mangiare quel santo piatto caldo
        di polenta innaffiato naturalmente da qualche bicchiere di buon vino
        rosso.
        "Minchia, Ciccio! Lo senti come sono agitati i
        soldati in questi giorni? Corrono come matti e si addestrano, come se
        domani dovessero partire per il fronte. Da quando è tornato l’Imperatore
        si sente puzza di guerra in ogni angolo di questo paese", disse
        Turiddu all’amico.
        "Non vorrei essere nei loro panni, quando
        arriverà il momento. Dicono che i soldati Milanesi siano tanti, forti e
        ben addestrati a combattere. Qualunque cosa accada, cerchiamo di
        starcene alla larga, e non come successe a Lucera che poco mancò ci
        lasciassimo le penne per difendere quella donna. Tu sei troppo
        impetuoso, caro Turiddu! Non siamo più in Sicilia, almeno per ora;
        quando torneremo all’ombra del grande vulcano, solo allora potrai
        scagliarti contro chi ti da del "cornuto", oppure offende la
        tua donna. Non vedi che adesso passiamo la vita tra bettole, taverne e
        bordelli? E puttane, naturalmente!", gli rispose accoratamente
        Ciccio.
        "Il fatto è che quando vedo certe cose mi
        ribolle il sangue nelle vene. Quella povera donna appesa ad un palo
        perché accusata d’avere fatto una fattura! Accusata d’essere una
        strega per avere dato da bere un miscuglio di porcherie, credendo così
        di scacciare il demonio dal corpo di una persona? Altro che strega! Le
        conosco io, le vere streghe!", brontolava Turiddu.
        "Minchia! Allora continui a non volere capire!
        Da quelle storie è meglio starsene alla larga, perché ci sono di mezzo
        la Chiesa, i preti, e pure l’Imperatore. Quella strega era accusata di
        eresia, non so cosa voglia dire esattamente; ma un giorno diceva d’essere
        una santa, un altro giorno la madonna, e che poteva fare miracoli e
        compiere guarigioni. In poche parole, voleva rubare il mestiere ai
        preti, ai santi ed al Papa. Se anche le streghe si mettono a fare
        miracoli, allora i santi che ci stanno a fare?".
        "Tu, Ciccio, che ti senti così allittratu da
        quando frequenti quella specie di chierico, che serve messa quando l’Imperatore
        è in vena di sentirsene una, e si comunica pure nonostante tutti i
        peccati che ha sulla coscienza, e se ne sta in prima fila con a destra
        madama Bianca ed a sinistra il Capitano, e scortato in seconda fila da
        Pier delle Vigne e maestro Teodoro, tu mi devi allora spiegare una cosa:
        d’accordo per i preti che si credono depredati dei miracoli, ma l’Imperatore?
        Che c’entra l’Imperatore in questa storia d’eresia, come tu la
        chiami?".
        "C’entra, c’entra! Me l’ha spiegato il
        chierico che c’entra. Perché l’Imperatore, anche se non è capace
        di fare miracoli, anche lui si sente come un Papa. Insomma, se il Papa
        si sente un dio, anche l’Imperatore dice che comanda perché glie l’ha
        ordinato Dio; e quei cialtroni, come spiega il chierico, che predicano
        "pace e bene" per le strade, quei fanatici "populares"
        che cantano l’amore e la povertà, scalzi e coperti solo d’un saio,
        dicono che non è vero, che bisogna ubbidire solo a Dio, che i peccati
        vanno confessati direttamente a Dio, eccetera. Insomma vorrebbero fare
        le scarpe sia all’Uno che all’Altro. Non farmi imbrogliare più di
        quanto non lo sia; domani mattina te lo faccio spiegare dal chierico. E
        faresti bene anche tu a sentirlo ogni tanto. Mi ha raccontato tutta la
        storia di S. Omobono, quel sant’uomo di questo paese che faceva parte
        degli Umiliati, e che da quasi scomunicato, appena morto, s’è
        ritrovato fatto santo da Papa Innocenzo III, che tanto a cuore ebbe la
        crescita del nostro Imperatore".
        "Lo sai bene, Ciccio, che io coi chierici e coi
        santi non ho nulla da spartire. Se io non debbo più impicciarmi di
        donne, tu faresti bene a non immischiarti in storie che non ti
        riguardano. Tu parli del Papa Innocenzo che tanto bene ha fatto all’Imperatore:
        buono quello! Il tuo chierico ti racconta le storie che vuole perché
        parteggia per li suo Papa, ma a me Abdul, col quale ormai sono in
        confidenza, me ne racconta altre. Il Papa, prima l’ha fatto eleggere
        re di Sicilia, e poi l’ha combattuto perché voleva essere lui a
        comandare ed a pretendere tasse e prebende. E chi credi che abbia
        istituito i Tribunali dell’Inquisizione e ad inventare tutte queste
        storie sull’eresia? E’ stato lui ad iniziare, e poi l’Imperatore,
        per non essere da meno, ha fatto il resto. Certo che è stato
        sfortunato, poverino, coi Papi che credono di dirgli quello che deve o
        non deve fare. Il nostro Papa Gregorio gli ha ordinato di fare la
        Crociata; lui l’ha fatta, gli ha conquistato Gerusalemme col Santo
        Sepolcro, e per tutta risposta s’è ritrovato scomunicato. Ma chi è l’Imperatore?
        Federico o il Papa? Io al posto suo a quest’ora…. Bevo un altro
        sorso di vino, e poi vado a dormire. Prevedo che domani sarà un brutto
        giorno", finì col dire Turiddu, un po’ confuso, un po’
        adirato.
        "Bevi, bevi, così il vino ti fa sparlare
        meglio!".
        E scolato l’ultimo bicchiere, s’avviò verso la
        tenda del serraglio, seguito da Ciccio che brontolava per la sua
        cocciutaggine e che, prima o poi, di questo passo, sarebbe incorso in un
        brutto guaio.
        Per i due compari le giornate, per lo più nebbiose e
        piovigginose, passavano lente e monotone, alle prese con gli animali,
        falchi, gru, leoni, ed il mastodontico elefante. Non tralasciavano
        naturalmente la cura alle due pernici, che dimostravano di trovarsi a
        loro agio in quella voliera fatta costruire appositamente per loro. Non
        restava che attendere il ritorno di Federico vittorioso per riprendere
        la loro attività venatoria, momentaneamente sospesa. E dalle notizie
        che quotidianamente giungevano, per tutto il mese di ottobre ed i primi
        giorni di novembre, infatti, l’Imperatore era impegnato a distruggere
        castelli e roccaforti nella zona tra Mantova e Brescia. Quando giunse la
        notizia che Federico aveva posto gli accampamenti a Pontevico, poco a
        nord di Cremona, per fronteggiare l’esercito della Lega che non voleva
        accettare battaglia e che s’era stabilito a poche miglia più a nord.
        Prevedendo tempi lunghi per una soluzione definitiva, Federico mandò a
        chiamare il suo serraglio, con falconieri, falchi e quanto necessario
        alle battute di caccia, elefante compreso, per impiegare al meglio il
        tempo dell’attesa. Era fatto così: se c’era da combattere,
        distruggere, bruciare, correre da una parte all’altra, non era il tipo
        da tirarsi indietro. Ma riteneva noioso sostare e temporeggiare in
        appostamenti o in assedi, perciò nei momenti di calma, lasciato il
        comando nelle mani del suo vice, non trovava niente di meglio che
        dedicarsi alla caccia ed all’addestramento dei suoi magnifici falconi.
        "Turiddu!", disse Ciccio un po’
        allarmato. "Questa storia non mi piace. I Milanesi si trovano
        accampati a due passi dal nostro esercito, e ci manda a chiamare per
        andare a caccia".
        "Sei forse diventato fifone, all’improvviso,
        Ciccio? Se l’Imperatore ci chiama nel suo accampamento è perché sa
        quello che fa. Finora siamo stati alla larga da ogni combattimento, e
        non credo che ci sarà bisogno del nostro aiuto, con tutti quei soldati
        di cui dispone. Ma se sarà necessario menare le mani, non vorrai
        tirarti indietro!", gli rispose Turiddu con tono sicuro, ma che in
        cuor suo cominciava ad avere qualche timore.
        "Sarà sicuramente come dici tu, ma sento che c’è
        qualcosa di strano nell’aria", disse Ciccio pensieroso.
        "Preparate il necessario, fra poco si
        parte", gridò Abdul a Ciccio e Turiddu.
        Alle prime luci dell’alba, un’alba nebbiosa e
        umidiccia, come capitava sovente in quella stagione, la carovana si
        mosse per andare incontro all’Imperatore, in base agli ordini
        ricevuti. La strada era pianeggiante e tranquilla, anche se un po’
        melmosa a causa delle piogge insistenti di quei giorni; oltrepassarono
        une serie di cascine, osannati dai contadini che alzavano le loro falci
        in segno di giubilo, ma quasi impauriti alla vista dell’enorme
        pachiderma, costeggiarono una sequela di risaie e di canali,
        transitarono attraverso un piccolo bosco, e quindi nel giro di poche ore
        furono in vista del fiume Oglio e dell’accampamento imperiale.
        Al loro arrivo fu l’Imperatore in persona a
        complimentarsi per la celerità del loro spostamento, e, dopo essersi
        sincerato che tutto fosse in ordine, dette precise disposizioni su dove
        piantare le tende.
        Turiddu e Ciccio rimasero estasiati sull’imponente
        spiegamento di forza. I loro occhi, fino all’orizzonte, non vedevano
        altro che soldati in tenuta da combattimento e cavalli pronti per
        prendere in sella i loro cavalieri e correre incontro al nemico;
        sentivano i vari comandanti impartire gli ordini più disparati,
        vedevano innumerevoli fuochi innalzare verso il cielo pennacchi di fumo,
        un andirivieni di soldati portare armi da una parte all’altra del
        campo. E tutto perché quel fetente del nemico non voleva accettare la
        sfida in una battaglia a campo aperto. Se ne stava rintanato in un posto
        sicuro ed inespugnabile tra due fiumi, in attesa che il morale dei
        soldati avversari finisse col fiaccarsi. Si controllavano a distanza,
        quasi si guardavano in cagnesco, senza che nulla succedesse. E dal
        momento che l’Imperatore reputava che tutto fosse sotto il suo
        controllo, ogni mattina ne approfittava per una battuta di caccia nei
        boschi della zona, molto ricchi di selvaggina. Mentre Abdul preferiva
        restare nel serraglio a controllare gli animali, Ciccio e Turiddu erano
        sempre i primi ad aggregarsi al gruppo dei falconieri, servendo l’Imperatore
        in tutte le piccole necessità che la caccia richiedeva.
        Passati circa quindici giorni e perdurando lo stato
        di assoluta inattività bellica, l’Imperatore, stanco dell’attesa, d’accordo
        con gli alleati, decise di mutare tattica. Fece spargere la voce che l’esercito
        rientrava a Cremona per passarvi l’inverno, e dette ordine che
        iniziasse subito la marcia, dopo avere posto parecchie sentinelle nei
        posti strategici, a controllare le mosse e le reazioni del nemico, e
        pronti a segnalare ogni loro spostamento. Tutto procedeva secondo i suoi
        piani. L’esercito bresciano, capito che l’Imperatore si ritirava a
        Cremona, levò le tende verso nord est, in direzione di Brescia, mentre
        il grosso dell’esercito della Lega cominciò a muoversi verso nord
        ovest, in direzione di Chiari - Pontoglio, dove avrebbe dovuto
        attraversare il fiume, prima di piegare ad ovest verso Cortenova e
        quindi verso Milano, la via più breve e più sicura. Federico, allora,
        certo che l’esercito nemico stava per cadere nel tranello, invertì la
        marcia, ed anziché puntare verso Cremona, si diresse anche lui verso
        ovest, marciando nottetempo, in silenzio e senza farsi scorgere, verso
        Soncino e Cortenova, quasi parallelamente all’esercito milanese, a
        poche miglia di distanza. Giunto a Cortenova, nascose i suoi soldati all’interno
        del folto bosco di Covello: e lì rimase in paziente attesa. Era l’alba,
        radiosa per l’Imperatore, del 27 novembre.
        Ciccio e Turiddu, se ne stavano in spasmodica attesa.
        Era la prima volta che assistevano da vicino alle grandi manovre che
        precedono una battaglia, e le previsioni erano di una lotta senza
        esclusioni di colpi e dalle dimensioni spaventose: da venti a trentamila
        contendenti sul campo! Il serraglio era stato sistemato ai margini di
        una radura, al sicuro e ben protetto dall’armata imperiale. Al di là
        del bosco si sentivano le voci dei soldati milanesi e collegati che
        cantavano, contenti di tornare alle loro case e certi di passare l’ultimo
        giorno in quell’accampamento, sicuri che l’Imperatore, impaurito
        dalle loro forze, aveva desistito da ogni tentativo di dare battaglia e
        si ritirava nei quartieri invernali. Montavano le tende ed accendevano
        fuochi per ripararsi dal freddo e preparare qualcosa di caldo per lo
        stomaco. Ne erano già arrivati migliaia, e tanti altri continuavano a
        giungere da Pontoglio, per lo più fanti e sporadici gruppi di
        cavalieri. In mezzo al campo avevano sistemato il pesante Carroccio,
        imbandierato con le insegne di Milano e con tutti i vessilli delle
        città che aderivano alla Lega Lombarda. Le ore passavano lente, per i
        soldati di Federico in trepida attesa di sferrare l’attacco
        proditorio, quando l’orologio del paesetto vicino, di cui s’intravedeva
        il piccolo campanile, suonava i rintocchi di mezzogiorno.
        "Calma, calma! Tenetevi pronti, ma non muovetevi
        prima del segnale!", andava ripetendo un cavaliere che,
        attraversando il bosco in lungo ed in largo, infondeva coraggio agli
        arcieri Saraceni, che di certo non ne avevano bisogno, ai fanti con
        tutta la ferraglia addosso e le spade sguainate, ai cavalieri che
        avrebbero dovuto per primi portare lo scompiglio tra i soldati intenti
        alle loro faccende personali.
        La presenza dell’Imperatore, che si aggirava tra la
        truppa in sella al suo cavallo saraceno, galvanizzava oltre misura i
        soldati che non credevano ai loro occhi nel vedersi incoraggiati e
        spronati a dare il meglio di sé nell’attacco che si prospettava
        imminente. A colmare la misura dell’euforia in campo, contribuì l’arrivo
        del comandante delle truppe veronesi Ezzelino da Romano, il terrificante
        personaggio che era sempre meglio avere dalla propria parte.
        Terrificante all’aspetto, impetuoso in battaglia, crudele e violento
        coi nemici.
        Dalle loro postazioni in retrovia, Ciccio e Turiddu
        avevano una posizione privilegiata, in quanto potevano assistere a tutto
        ciò che avveniva nei paraggi della tenda imperiale, dov’era allocato
        il comando generale.
        "Ciccio!", disse Turiddu all’amico,
        "Quando sarà il momento, non potrò perdere l’occasione d’assistere,
        da lontano s’intende, allo spettacolo. Rosalia resterà a bocca aperta
        alla sola idea che siamo stati alle dipendenze dell’Imperatore;
        immagina a doverle raccontare quanto sta succedendo e potrà succedere
        fra poche ore, una vera battaglia con migliaia di soldati pronti a dare
        la vita per i loro comandanti!".
        "Non fate altro che pensare a Rosalia; pensate a
        portare la pelle fino in Sicilia, caro compare. Non sarà facile
        ripercorrere all’indietro tutta la strada che abbiamo fatto per
        giungere sin qui", gli rispose Ciccio, alquanto preoccupato per la
        piega che avrebbero potuto prendere gli eventi da lì a pochi minuti.
        Alle tre in punto del pomeriggio, quando la maggior
        parte dell’esercito guelfo s’era attendato nello spiazzo antistante
        al fitto bosco, fu dato l’ordine dell’attacco. In pochi minuti
        successe il finimondo. Un urlo sovrumano si levò dalla foresta,
        ricoprendo l’accampamento avversario. Gli arcieri Saraceni, sbucati da
        sotto gli alberi che avevano celato la loro presenza, cominciarono a
        lanciare le loro frecce sui milanesi, ignari e poco accorti, mentre il
        grosso delle truppe di Federico e di Ezzelino piombarono sull’accampamento
        nemico compiendo una strage inimmaginabile. La maggior parte dei fanti
        fu sorpresa inerme a consumare il pasto o intenta ad un meritato riposo.
        Furono trafitti ed uccisi prima dalle frecce saracene, poi dall’assalto
        dei soldati, in un corpo a corpo senza scampo, poi dall’arrivo della
        cavalleria. Dopo circa tre ore di lotta, la partita poteva considerarsi
        chiusa sia per il calare dell’oscurità e di una fitta nebbia, sia per
        la mancanza di nemici, ormai morti, prigionieri o fuggiti in cerca di
        scampo. Il campo di battaglia risuonava per lo stridio delle armi e per
        le urla e le imprecazioni dei contendenti. Feriti sanguinanti, teste e
        braccia mozzate, corpi infilzati da frecce e lance micidiali, soldati
        prigionieri incatenati e trascinati a forza nei posti di raccolta, fra
        tende squarciate e date alle fiamme. Lamenti di dolore ed imprecazioni d’aiuto
        salivano verso un cielo reso opaco da una densa fuliggine. Un disastro
        inimmaginabile per i milanesi, un trionfo senza precedenti per l’Imperatore.
        "Al Carroccio! Al Carroccio! Bisogna prendere il
        Carroccio!", urlava l’Imperatore Federico che, spada in mano, s’era
        calato nella mischia al pari di Ezzelino.
        Ma il Carroccio, ben camuffato e ben difeso dagli
        ultimi ardimentosi votati alla morte, era introvabile nella densa nebbia
        che improvvisamente aveva invaso il campo di battaglia.
        "Andiamo anche noi!", urlò Turiddu a
        Ciccio, saltando sul suo cavallo e seguito per istinto dal suo compare.
        Spronarono i cavalli verso il campo, attraversarono
        il fitto bosco e si trovarono presto su uno spiazzo colmo di corpi senza
        vita, quasi accatastati gli uni agli altri, tanto erano numerosi e
        disordinati: uno spettacolo raccapricciante e vomitevole! La mischia,
        fortunatamente per i due compari, ormai volgeva al termine.
        Rimasero impietriti ad osservare quanto nefasto era
        stato l’attacco dei loro compagni, quanta animosità e ferocia avevano
        impresso alle loro spade ed alle lance. Quindi, mancando un minimo di
        visibilità per andare alla ricerca del Carroccio, brancolando in un’atmosfera
        da incubo, decisero di tornare mestamente indietro nella loro tenda, al
        pari di tutti gli altri. In quel momento sentirono gli zoccoli di
        cavalli arrivare al galoppo alle loro spalle e che s’avvicinavano
        sempre più; spronati con forza dai loro cavalieri, amici o nemici che
        fossero, ormai erano a ridosso. I cavalli di Ciccio e Turiddu s’imbizzarrirono,
        istintivamente cominciarono a correre inseguiti dai cavalieri, quasi
        sicuramente nemici, vista la fretta che avevano di allontanarsi dal
        campo di battaglia, e presto, amici e nemici, si trovarono in un unico
        gruppo che disordinatamente galoppava tra la nebbia verso il lato
        opposto della radura, coperta di corpi esanimi, verso le retrovie dell’esercito
        dei milanesi.
        "Turiddu, siamo persi!", urlava Ciccio che
        ormai si sentiva quasi afferrato alle spalle dai nemici.
        "Corri Ciccio", gli rispondeva Turiddu,
        "Corri e fai finta di nulla; forse ci stanno scambiando per loro
        amici!".
        "Te lo dicevo che sarebbe finita male; adesso o
        ci infilzano, o ci fanno prigionieri!", continuava ad imprecare
        Ciccio, spaventato a morte da come s’erano messe le cose.
        "Di qua, di qua!", urlava uno del gruppo,
        "’ndemm a S. Pietro".
        "A Carpeneto, a S. Michele!", urlava un
        altro, "Andiamo verso il ponte sul fiume!", gli rispondeva un
        terzo agitatissimo.
        Confusi nella nebbia ai cavalieri milanesi, ormai non
        potevano tornare sui loro passi, verso il sicuro accampamento dell’Imperatore.
        Non restava loro che fingersi soldati dell’esercito guelfo, e sperare
        di non essere smascherati per quelli che erano effettivamente.
        "Da dove venite?", chiese quello che
        sembrava il capo del gruppetto, e che tutti chiamavano Tonino.
        Turiddu, preso alla sprovvista da quella domanda,
        andò in confusione e farfugliò qualcosa di incomprensibile; ma poco
        dopo ripresosi dallo smarrimento gli urlò con sicurezza:
        "Veniamo da Lodi, speriamo di trovare la strada
        per tornare verso casa, con tutta questa nebbia".
        "Molto pericoloso, amico, con questa nebbia e
        con le strade infestate dai soldati del tedesco maledetto. Andiamo
        insieme verso Milano, e poi ognuno prenderà la strada che vuole".
        "Hai sentito, Ciccio!", disse Turiddu
        accostandosi a Ciccio che cavalcava un po’ in disparte. "Mi hanno
        chiamato amico! Ci hanno proprio scambiati per loro compagni di
        sventura. Non ci resta che seguirli verso Milano, sperando che non
        scoprano la vera nostra identità. Parliamo poco e solo quando
        indispensabile".
        "D’accordo, ma non potremmo tornare indietro?
        Con questa nebbia non si accorgerebbero di nulla se, al prossimo bivio,
        restassimo indietro", gli disse Ciccio.
        "Si potrebbe anche fare, ma non si vede proprio
        nulla e temo che non arriveremmo molto lontano da soli, mentre questi
        conoscono bene la strada; e se poi incontrassimo soldati della Lega allo
        sbando? No, Ciccio! E’ più sicuro proseguire con questi soldati
        facendo finta di nulla. Una volta giunti a Milano si vedrà",
        concluse Turiddu che, a quella parola magica, all’idea d’entrare in
        una città come Milano, diventò subito euforico.
        Continuarono a cavalcare su un terreno fangoso e
        difficile, spronando i cavalli quanto più possibile. Turiddu e Ciccio
        stavano dietro i loro compagni di sventura che, per la sicurezza con cui
        si muovevano su quei sentieri, sembrava fossero di casa, o comunque
        originari di quelle parti. Presto giunsero al guado di Carpeneto, nel
        cui greto erano ancorate due immense colonne, alle quali si agganciavano
        le corde per la sicurezza durante l’attraversamento del fiume Serio,
        ancora presidiato dai soldati della Lega, ignari dello sfacelo occorso a
        Cortenova. Segno che ben pochi avevano avuto modo di dileguarsi e
        sfuggire al massacro avvenuto poche ore prima.
        "Altolà! Altolà!", risuonò una voce nel
        silenzio della notte, non appena si avvicinarono al ponte.
        "Sono Tonino di Porta Orientale, il comandante
        della cavalleria di Milano", urlò il capo, arrestando il cavallo e
        saltando a terra.
        Anche gli altri si fermarono e scesero da cavallo,
        andando incontro ai soldati che stavano a presidio del ponte.
        Due soldati, con in mano una lanterna, sbucarono
        dalla oscurità, fermandosi alla vista dei loro compagni. Bastarono
        poche parole a Tonino per informarli di quanto era appena successo a
        Cortenova, e che avrebbero fatto bene a darsi in fretta alla fuga, se
        non volevano incappare in qualche pattuglia del tedesco o di Ezzelino.
        Convennero, alla fine della discussione, che sarebbe stato meglio
        attraversare subito il fiume e passare la notte in un rifugio alquanto
        sicuro, per riprendere il cammino l’indomani, alla luce dell’alba.
        Così fecero, infatti. Attraversato a guado il fiume, tenendo in briglia
        i cavalli, si ritrovarono, dopo un breve viottolo in salita, all’interno
        di un fienile dove avrebbero potuto riposarsi in santa pace. Il soldato
        che li aveva accompagnati tornò verso il casolare, a fare compagnia
        agli altri che erano rimasti di guardia. Mangiarono un po’ di pane e
        formaggio, che aveva consegnato loro il guardiano del guado, bevvero un
        sorso di vino, quindi si buttarono sui pagliericci improvvisati con
        paglia e fieno. La rabbia e la tristezza era tanta che nessuno aveva
        voglia di parlare. Solo Tonino, il comandante, prese a lamentarsi.
        "Che disastro, amici! Hanno ferito e catturato
        persino il Podestà! Povero Pietro! Vederlo lì per terra, incatenato
        come un cane, mi ha fatto una rabbia! Ci siamo buttati nella mischia, ma
        erano tanti, troppi, per riuscire a liberarlo e trarlo in salvo. Siamo
        dovuti scappare per non restare anche noi in trappola. Peccato che il
        grosso della cavalleria era ancora nelle retrovie e non è potuta
        intervenire in tempo, ma almeno loro sono sani e salvi. I fanti invece!
        Che macello, amici! Non una sentinella che potesse dare l’allarme,
        cosicché il siciliano ci ha giocati per bene, maledetto!".
        Finché, più afflitto e disperato che stanco, chiuse
        gli occhi farfugliando le sue ultime imprecazioni contro Federico, i
        tedeschi, i siciliani.
        A quelle parole piene di odio, Ciccio e Turiddu,
        sdraiati su un pagliericcio in un angolo del fienile, diventavano sempre
        più piccoli, avrebbero volentieri cambiato identità nel timore che
        quei cavalieri potessero scoprire la loro vera provenienza. Avevano tra
        loro, senza saperlo, due falconieri di sua maestà, incaricati
        nientemeno di sollazzare con pernici e falconi l’Imperatore tedesco,
        durante le battute di caccia. Quale migliore soddisfazione che torcere
        il collo a quei due furfanti simulatori, immaginando d’avere tra le
        mani l’Imperatore in persona?
        Nel volgere di pochi minuti, in tutto il fienile
        risuonavano soltanto i pesanti respiri dei soldati, accompagnati dal
        roco e monotono russare di alcuni di loro, ed il ticchettio della
        pioggia che a tratti cadeva sul tetto.
        Solo Ciccio e Turiddu non riuscivano a prendere
        sonno; pensavano alla loro situazione, alla fuga precipitosa alla quale
        erano stati costretti per caso, alla rabbia contro il siciliano che
        covava nel cuore dei soldati, e a ragione, che stavano lì accanto, a
        cosa avrebbe pensato Abdul nel non vederli rientrare nella tenda, alle
        pernici. E se li avessero considerati come disertori? Morti non potevano
        essere, dal momento che i loro corpi, fortunatamente, non giacevano sul
        campo di Cortenova, ma nientemeno che in un fienile in mezzo a dei
        soldati nemici, coi quali stavano dividendo pane e letto! Una situazione
        strana e paradossale la loro! Fossero scappati e rientrati al serraglio,
        avrebbero anche ricevuto un applauso, avrebbero potuto raccontare d’essere
        stati fatti prigionieri e quindi fuggiti dalle grinfie del nemico; ma
        così erano dei disertori e basta. Meno male che la presenza di spirito
        aveva fatto dire a Turiddu di essere originari di Lodi; avesse detto di
        Milano, quelli avrebbero chiesto se abitavano a Porta Orientale o a
        Porta Comasina, che mestiere facevano, chi erano i parenti, se
        conoscevano il Tizio o il Caio. Finché, un po’ stanchi, un po’
        confusi, lambiccati e quasi ossessionati da questi pensieri, anche loro
        si arresero al sonno ristoratore, senza avere profferito una sola parola
        per non destare sospetti nei vicini di letto.
        Il chiarore dell’alba, che penetrava nel fienile
        dalle fessure di una porta posticcia, sorprese il gruppo di cavalieri
        ancora sdraiati sulla paglia. Fu la voce del comandante Tonino a
        destarli.
        "Sveglia, amici, è ora di muoversi verso
        Milano, per dare notizia dell’accaduto, in modo che si possa
        approntare la difesa della città. Fra poco l’Imperatore tedesco ci
        sarà addosso con tutto l’esercito. Se quel maledetto di suo nonno l’ha
        già distrutta una volta, non permetteremo che la cosa si ripeta una
        seconda, a costo della vita!", esclamò recuperando le armi deposte
        in un angolo ed uscendo dal fienile. Tutti quanti, in un baleno, s’immersero
        nella triste realtà di fuggitivi sconfitti. Raccolsero le armi e
        corsero all’esterno del fienile, dove i cavalli, ristorati dopo una
        giornata faticosa, erano pronti a riprendere la via verso la salvezza.
        Anche Ciccio e Turiddu si dovettero adattare all’atmosfera di mestizia
        che regnava nel gruppo, e si calarono nei panni di due combattenti per
        la causa dei milanesi che, anche se non le avevano prese di santa
        ragione come gli altri, si trovavano allo sbando, costretti ad errare in
        terre per loro sconosciute.
        La nebbia, che copriva la pianura al di qua e al di
        là del fiume, si era quasi diradata al punto da rendere appena visibile
        il sentiero che portava verso Cassano d’Adda, per collegarsi alla
        strada maestra che, normalmente attraversata dai carri carichi di
        mercanzie d’ogni genere, collegava speditamente Brescia con Milano,
        passando appunto per Treviglio e Cassano d’Adda. In silenzio ed in
        fila indiana, il corteo di cavalieri s’incamminò lungo i sentieri che
        costeggiavano le numerose rogge, al piccolo trotto per non affaticare i
        cavalli, visto che Milano distava non meno di venticinque miglia.
        Attraversato il territorio di Treviglio, furono presto in vista di
        Cassano. Erano circa le dieci, quando intravidero l’insegna dell’osteria
        del gallinaccio, segno che ormai erano quasi giunti sulle rive del fiume
        Adda. Tonino decise che era opportuno, prima di attraversare il fiume,
        fermarsi per mangiare qualcosa di caldo e per fare riposare i cavalli,
        in vista dell’ultima galoppata verso Milano. Giunti davanti l’osteria,
        vi girarono intorno per sistemare i cavalli nell’apposito cortile; ma,
        dal trambusto che vi regnava intorno e dalla presenza di numerosi
        cavalli e carri, si resero subito conto di essere stati preceduti.
        Infatti parecchi soldati, sicuramente reduci dalla battaglia del giorno
        precedente, giacevano a terra, orrendamente mutilati o gravemente
        feriti. Per tutto il locale si levavano lamenti e grida d’imprecazione
        d’ogni genere, mentre quello che sembrava l’oste e gli amici si
        prodigavano alla meglio nell’eseguire fasciature, nel tentativo di
        bloccare le abbondanti emorragie e lenire, per quanto possibile, il
        dolore dei poveri disgraziati. Uno in particolare, che sembrava avere
        perso una gamba, benché stremato dall’abbondante perdita di sangue,
        strillava e bestemmiava contro la malasorte che gli era toccata. La
        moglie dell’oste, una donna alta e grassona, distribuiva boccali di
        vino che riempiva da una piccola botte situata in un angolo del locale.
        Dappertutto regnava un disordine ed una sporcizia indescrivibile, tra il
        sangue sparso dappertutto, il pavimento sporco del fango portato dall’esterno
        e le coperte che fungevano da letto per i feriti. Il tepore del locale
        ed il buon odore di stufato che proveniva dal retro dell’osteria,
        facevano da contrasto con l’improvvisato ospedale da campo che era
        stato approntato tra i tavoli, che normalmente ospitavano avventori di
        passaggio.
        All’arrivo del nuovo gruppo di soldati, ci fu un
        attimo di silenziosa trepidazione; poi, riconosciuti Tonino e gli altri
        amici, alla tensione seguì uno scambio di abbracci e di saluti, e gli
        animi quasi si placarono; ma non i lamenti che continuavano anche se in
        sordina. Per quanto fu loro possibile, si prodigarono a portare soccorso
        ai feriti, ma si resero subito conto che per alcuni non c’era nulla da
        fare. Il comandante cercò di mettere un po’ d’ordine, spiegò che
        sicuramente altri feriti sarebbero arrivati da Cortenova, e dette
        disposizioni che, fasciati alla meglio, fossero portati a Milano per
        essere curati a dovere. Il tempo di mettere sotto i denti qualcosa di
        sodo e di bere un boccale di vino, che già Tonino e compagni erano sui
        loro cavalli sulla strada per Milano. In lontananza, alle loro spalle,
        scorsero che altra gente arrivava dal luogo della battaglia. Ma non c’era
        tempo da perdere: per cui spronarono i cavalli, senza prestare soverchia
        attenzione.
        Turiddu e Ciccio, dopo le scene raccapriccianti visti
        sul campo, rimasero sconvolti alla vista di quali effetti deleteri aveva
        prodotto su quei poveri diavoli lo scontro coi soldati dell’Imperatore,
        soprattutto le frecce micidiali dei Saraceni. Ma, non essendo né
        medici, né infermieri, si limitarono, come gli altri, a dare una mano a
        fasciare i feriti.
        "Io mi chiamo Ambrogio e sono di Milano. Da dove
        avete detto che venite?", chiese uno dei soldati col quale avevano
        familiarizzato più degli altri, durante il soccorso ai feriti.
        "Veniamo da Lodi", confermò Turiddu.
        "A dire il vero, e non si può nascondere, siamo di origine
        siciliana. Siamo venuti da queste parti in cerca di fortuna, ma a quanto
        pare ci siamo cacciati in un mare di guai e poco è mancato che ci
        lasciassimo la pelle, a Cortenova".
        "Non preoccupatevi, vedrete che l’Imperatore
        avrà ciò che si merita! Non crederà di farla franca, solo perché ci
        ha teso una vergognosa imboscata nella quale siamo incappati da fessi.
        Devo riconoscere che è stato molto abile a farci credere il contrario
        di quello che poi ha fatto. Ma se tenterà d’avvicinarsi a Milano
        troverà una bella sorpresa", sbottò Ambrogio, rosso di rabbia.
        Ambrogio era un giovanotto di media statura, ma di
        corporatura molto robusta; era uno di quelli che quando s’infervorano
        in una discussione diventano paonazzi in viso e non c’è modo né di
        fermarli, né di farli recedere dalla loro convinzione. E da come
        parlava, sembrava sì un po’ spavaldo, ma molto sicuro si sé. Dalla
        confidenza che mostrava col capo Tonino e dai discorsi che Ciccio e
        Turiddu erano riusciti a captare dal loro dialetto, non doveva essere la
        prima volta che partecipava a dei combattimenti. Non era un soldato di
        mestiere, ma aveva risposto, come tanti altri, alla chiamata del
        Podestà per tentare di contrastare le ambizioni del tedesco, che
        pensava di fare un boccone dei comuni e della libertà dei cittadini
        milanesi. Parlava a rotta di collo; raccontava che di mestiere faceva il
        garzone nella bottega del padre, che aveva un forno nel vicolo S.
        Damiano, nei pressi del Naviglio. E meno male che era uscito illeso da
        quella brutta avventura, perché aveva una ragazza che lo aspettava e
        che fra poco avrebbe voluto mettere su casa. Tra una fasciatura ed un
        bicchiere di vino, Ambrogio raccontava le sue storie, mentre Ciccio e
        Turiddu stavano ad ascoltarlo con attenzione, e fare tesoro di tutte le
        notizie che potevano essere utili in una città a loro sconosciuta.
        Fatto quanto era nelle loro possibilità per aiutare
        quei poveretti, bevvero insieme un buon boccale di vino, si
        rifocillarono alla meglio con quanto l’oste aveva messo a
        disposizione, e partirono assieme agli altri alla volta di Milano.
        Attraversato il ponte sull’Adda, i cavalieri presto
        si trovarono nell’abitato del paese, salutati ed incoraggiati da
        quanti, vedendoli galoppare verso la grande città, riconoscevano in
        loro gli eroi che s’erano fermamente opposti alle forze del tedesco
        prevaricatore. Corsero per tutto il pomeriggio, fermandosi un paio di
        volte per abbeverare e foraggiare i cavalli; il tempo s’era mantenuto
        abbastanza clemente, anzi ogni tanto il sole riusciva a squarciare il
        cielo plumbeo, coperto dalla solita cappa di nebbia che però non
        impediva la visione della pianura piatta e monotona che stavano
        attraversando. Nei prati, ai bordi della mulattiera che attraversavano,
        i contadini aravano i campi o erano intenti ai lavori della semina,
        coadiuvati dalle donne che s’industriavano a porgere gli attrezzi o a
        spargere i semi nei solchi. Il loro veloce incedere non permetteva né
        invogliava al dialogo i cavalieri, intenti a guidare i cavalli su una
        strada fangosa ed a tratti difficile, anche se pianeggiante.
        Al calare della sera, stanchi e sporchi di fango,
        erano ormai alle porte di Milano.
        "A Porta Orientale!", disse Tonino al suo
        seguito, giungendo alla biforcazione della strada che, verso nord
        dirigeva alla Porta Nuova e Comasina, mentre diritto immetteva verso
        Porta Orientale.
        Dovettero aspettare qualche minuto, prima che i
        battenti della pesante porta si aprissero e le sentinelle lasciassero
        entrare i cavalieri stravolti dalla fatica della lunga cavalcata. Le
        guardie li aiutarono a scendere da cavallo, mentre il comandante della
        porta ordinava che fossero immediatamente rifocillati ed assistiti. La
        notizia della disfatta subita il giorno precedente e della cattura del
        Podestà li colse di sorpresa. Non potevano immaginare una sconfitta
        così pesante e tante perdite umane. Il famoso esercito della Lega si
        era dissolto nel volgere di poche ore, e adesso bisognava ricostituirlo
        immediatamente se non si voleva correre il rischio di trovarsi l’Imperatore
        dentro le mura della città. Non sarebbe stato facile a nessuno
        penetrarvi com’era successo ai tempi del Barbarossa. Dopo quella
        triste esperienza la città era stata fornita di robuste mura e
        circondata da profondi canali sempre pieni d’acqua. Ma, senza un’adeguata
        protezione di soldati, anche un baluardo come le mura ed i fossati colmi
        d’acqua sarebbero stati una facile preda di qualsiasi malintenzionato.
        La notizia della sconfitta si propagò in un baleno
        per tutta la città, e rattristò coloro che su quel campo maledetto
        avevano dei parenti, che probabilmente non sarebbero più tornati a
        casa. Si sa che le notizie buone corrono, ma che quelle brutte hanno le
        ali per volare: e volarono, infatti, di casa in casa, dalla bettola al
        fornaio, da Porta Orientale alle stradine più anguste di Porta Cicca e
        Porta Romana, da un barcone all’altro, dai bordelli del Bottonuto alle
        casbe di S. Carpofen e Viarenna. Dappertutto urla, pianti, imprecazioni
        di disperazione. Il ricordo del Barbarossa, ancora vivo nei più
        anziani, che aveva messo a ferro e a fuoco interi quartieri, faceva
        balenare nella mente dei milanesi il fantasma del nipote, l’Imperatore
        Federico II, ormai alle porte di Milano, percorrere a cavallo le vie
        della città, impartendo ordini di morte e distruzioni. Così avrebbe
        vendicato l’onta della sconfitta subita a Legnano dal nonno, nel 1176,
        da parte della Lega.
        In mancanza del Podestà, rimasto prigioniero sul
        campo di battaglia, al Broletto si riunì immediatamente il Consiglio
        dei Novecento, che provvide ad arruolare forzatamente quanti erano in
        condizione di maneggiare un’arma, per rinforzare le cinte murarie e le
        sei Porte principali della città.
        I cavalieri si salutarono per fare ritorno alle
        proprie case, mentre Tonino dava loro appuntamento per l’indomani.
        "Suppongo non abbiate dove andare a dormire
        stanotte", disse Ambrogio a Turiddu. "Rivolgetevi a nome mio
        all’Osteria delle Quaglie, dove potrete mangiare un boccone e dormire
        in santa pace. Il proprietario é Don Pietro, un mio vecchio amico che
        rifornisco tutte le mattine di pane appena sfornato. Sul retro troverete
        un piccolo cortile dove sistemare i cavalli. Siete miei ospiti,
        naturalmente", disse Ambrogio mentre saltando in groppa al suo
        cavallo dava le ultime spiegazioni per raggiungere in fretta l’osteria,
        di fare molta attenzione a non perdersi tra i vicoli bui o scivolare
        nelle acque gelide dei canali.
        Ai ringraziamenti di Ciccio e Turiddu, rispose di non
        preoccuparsi, tanto avrebbero avuto tempo e modo di sdebitarsi.
        Così i due amici siciliani, intrufolatisi per caso
        nel cuore della grande città, acerrima nemica del loro Imperatore, si
        avviarono coi loro cavalli alla ricerca di questa benedetta Osteria
        delle Quaglie, nome che nelle loro menti rievocava uno strano sapore
        venatorio, per una notte di meritato riposo.
        Lasciata Porta Orientale, tenendo in briglia i
        cavalli, si inoltrarono nella città che ai loro occhi parve subito
        sterminata. Ormai il buio della sera aveva preso il sopravvento sulla
        timida luce che li aveva accompagnati per tutta la giornata. Alzarono
        istintivamente gli occhi al cielo, alla ricerca di qualche stella, ma si
        resero conto che una densa cappa di nebbia aleggiava sulle loro teste.
        In lontananza però, essi potevano ancora scorgere la luce soffusa di
        una sequela di piccoli lampioni che riflettevano i loro raggi nelle
        acque di un lungo canale, dal quale s’alzavano timidamente verso il
        cielo vapori grigiastri simili a fumi.
        "E’ quello il canale che ci ha indicato
        Ambrogio", disse Ciccio non appena si rese conto d’essere sulla
        giusta via.
        Cominciarono a costeggiarlo, facendo bene attenzione
        a tenersi lontano dal parapetto, in più punti mancante o rovinato. Man
        mano che avanzavano, sul selciato udivano il rimbombo dello scalpitio
        degli zoccoli dei loro cavalli, dalla porta che improvvisamente s’apriva
        arrivavano le voci di bimbi, uomini e donne indaffarati s’apprestavano
        a rincasare dopo una giornata di lavoro. Avevano camminato per una buona
        mezzora, quando giunsero nei pressi d’un ponticello sul quale spiccava
        una statua situata nel lato destro della ringhiera, e che sembrava
        essere stata posta lì a sua protezione. In un angolo un signore
        manovrava una specie di forno, tutto intento a girare e rigirare
        qualcosa all’interno d’una grande padella.
        "Volete le castagne?", domandò ai due che
        s’erano fermati ad osservare incuriositi, ma che forse era lui il vero
        curioso di sapere dove andassero quei due cavalieri.
        "No! Potreste indicarci l’Osteria delle
        Quaglie?", gli rispose Turiddu senza esitare un attimo.
        "Ah! L’osteria di Don Pietro! Dovete superare
        il secondo ponte, quindi girare a sinistra e proseguire per un centinaio
        di passi. Siete quindi arrivati", rispose gentilmente il venditore
        di caldarroste.
        Così fecero, allontanandosi nella direzione indicata
        e portandosi appresso un delizioso odore di castagne arrostite. Dopo
        pochi minuti si trovarono sotto il naso una strana insegna dove
        campeggiavano due uccelli coloratissimi che volevano rappresentare le
        quaglie, e che inequivocabilmente indicavano l’osteria che stavano
        cercando. Legarono i cavalli all’anello di ferro, che pendeva dal muro
        sul lato destro della casa, e superarono la piccola porta da cui
        proveniva un chiasso infernale. La scena era quella di un’osteria di
        basso livello: un piccolo locale illuminato da qualche candela, alcune
        panche occupate da avventori che discutevano ad alta voce e bevevano
        vino da ciotole di terracotta, un signore sulla cinquantina, grasso e
        con lunghi baffi, seduto a scaldarsi vicino ad un braciere.
        "Don Pietro sono io, a servirvi!", rispose
        l’oste alla domanda di Ciccio.
        "Ci manda il vostro amico Ambrogio, e vorremmo
        restare a dormire qui stanotte", intervenne Turiddu.
        "Ambrogio! Povero Ambrogio! E’ rimasto a
        Cortenova, povero figlio! Che Dio l’accechi, quel diavolo d’un
        tedesco!", borbottò l’oste.
        Alla notizia che invece Ambrogio era tornato sano e
        salvo, e che anche loro venivano da Cortenova, stanchi ed affamati, fu
        un coro d’applausi e di abbracci, subito portarono vino da bere,
        furono fatti accomodare ad una panca, ed in pochi minuti sul tavolo
        giunsero due piatti che la moglie di Don Pietro s’era affrettata a
        riempire con salsicce e polenta. Sistemati i cavalli nel retro, bevvero
        e mangiarono con appetito, mentre raccontavano con dovizia di
        particolari della battaglia, dell’imboscata tesa ai Milanesi, della
        fuga e della carneficina di soldati; seguiti attentamente dagli
        avventori che, colmi di vino, mimavano a voce e coi gesti quanto Ciccio
        e Turiddu andavano rappresentando. Intanto continuavano a parlare a
        ruota libera, raccontavano di caccia, di pernici, di falconi, e di
        chissà cos’altro.
        "Ci mancano solo i cartelli per rassomigliare a
        Cicciu Busacca!", gli disse Ciccio ridendo, per come se l’erano
        cavata egregiamente a descrivere la battaglia.
        "Spero soltanto di ritornare a sentirlo cantare,
        il nostro Busacca, se usciamo vivi da questa storia!", gli rispose
        Turiddu preoccupato.
        Il rumore degli zoccoli dei cavalli che transitavano
        davanti l’osteria ed il vocio degli avventori, svegliarono Ciccio e
        Turiddu da un lungo sonno ristoratore. La stanchezza e l’abbondante
        vino tracannato la sera prima, non era chiaro se per festeggiare la
        sconfitta dei milanesi o la loro fuga da Cortenova, aveva tirato un
        brutto scherzo ai due compari. Il fatto è che si stavano sollevando a
        fatica da quei due giacigli dov’erano stati deposti dalle mani pietose
        dell’oste. Uscirono in strada, da quell’angusto tugurio dove avevano
        passato la notte, e con grande meraviglia constatarono che la nebbia
        della sera precedente era quasi sparita e che il chiarore dell’alba
        cominciava ad illuminare le vie e le case della città; segno che fra
        poco anche il sole avrebbe fatto capolino dalla foschia che s’intravedeva
        guardando verso sud. A pochi passi le acque del naviglio, quasi per
        magia, emettevano strani vapori biancastri, e da come si muoveva ogni
        sorta di mercanzia che galleggiava in superficie, la loro marcia doveva
        essere lenta e monotona. Si guardarono intorno e rimasero estasiati
        dallo spettacolo che potevano osservare, con tutti quei campanili che
        svettavano sulle case basse, i cui tetti rossastri brillavano per l’umidità
        che la notte aveva depositato e che andava sciogliendosi con l’aumentare
        della temperatura. Il lungo naviglio che avevano di fronte si perdeva in
        lontananza a destra e a manca, e fin dove l’occhio era in grado di
        scrutare, potevano osservare una serie di ponti che l’attraversavano
        da una parte all’altra, protetti da eleganti ringhiere e sormontati da
        piccole statue. L’osteria dove avevano passato la notte, era quasi
        addossata alle mura della città, ed alla loro sinistra faceva bella
        mostra l’imponente Porta Romana, una delle porte principali,
        presidiata notte e giorno da un folto gruppo di soldati che, da come si
        muovevano, già a quell’ora del mattino, sembravano alquanto agitati.
        Salutarono l’oste che s’era fatto loro incontro,
        e raccomandandogli di fare attendere il loro amico Ambrogio, se fosse
        giunto nel frattempo a portare il pane come di consueto, decisero di
        fare due passi lungo il naviglio. Controllarono e dettero un po’ di
        biada ai cavalli, in modo che restassero tranquilli nel cortile dell’osteria,
        quindi si avviarono verso la Porta Romana, uscendo direttamente dal
        retro, percorrendo una serie di vicoli.
        "Che mi venga un colpo: guarda!", disse
        Turiddu a Ciccio, indicando un’insegna. "Osteria delle due
        pernici! Tra quaglie e pernici, devono trattarsi bene in questo
        paese!".
        "Quell’insegna mi riempie di tristezza; hai
        scordato che abbiamo abbandonato le nostre pernici nel carro di Abdul?
        Chissà se sono ancora vive o se sono state date in pasto a qualche
        falchetto dell’Imperatore, per festeggiare la vittoria dell’altro
        giorno?", gli rispose Ciccio preoccupato.
        "Dobbiamo rassegnarci, oramai, caro compare!
        Sicuramente non le vedremo più le nostre pernici. E pensare che siamo
        stati appesi ad un palo, e poco è mancato che ci lasciassimo la pelle
        per difenderle dagli artigli di quel maledetto falcone. Adesso pensiamo
        soltanto a dare una veloce occhiata a questa città, e quando torneremo
        sui nostri passi andremo alla loro ricerca", tagliò corto Turiddu.
        Questi non perdeva un minimo particolare di quanto
        gli stava di fronte, osservava le ringhiere in ferro battuto che,
        artisticamente lavorate, stavano a protezione dei ponti sul naviglio, le
        statue che sicuramente rappresentavano figure di Santi poste a
        protezione dei passanti o dei barcaioli, i barconi pieni di merce che
        solcavano le tranquille acque del canale mentre il barcaiolo con un remo
        si destreggiava a tenere al centro del canale la sua barca, evitando che
        andasse a sbattere contro le rive o contro i frequenti pontili. Tutto
        era nuovo per loro, e mai si erano avventurati in una città così
        grande. Giunsero sul ponte, sormontato da una statua di santo che teneva
        le braccia incrociate, e sostarono incantati ad osservare l’imponente
        costruzione che si erigeva intorno alla Porta, colma di bassorilievi, di
        effigi, di scritte in latino, a loro incomprensibili.
        S’inoltrarono verso il centro della città,
        lasciandosi la Porta alle loro spalle. Fatti pochi passi s’imbatterono
        in una bella chiesa sulla cui facciata spiccava un gran rosone ed un bel
        campanile, statue dappertutto, eleganti palazzi, belle piazze, e sempre
        quel naviglio sinuoso che sembrava onnipresente. Finché, nel loro
        girovagare, si trovarono di fronte ad uno strano ed imponente palazzo.
        Era evidente che si stavano avventurando nel centro della città, nel
        cuore di quella metropoli che contava non meno di centomila abitanti.
        "Da dove venite, voi due! E’ il Broletto, la
        casa del Podestà", disse loro un passante che trainava uno strano
        attrezzo simile ad una carriola, e al quale Ciccio aveva timidamente
        chiesto spiegazione.
        "Povero Podestà! Chissà che fine farà nelle
        mani del nostro Imperatore. E pensare che avrebbe potuto starsene qui
        tranquillo ed al sicuro! Questo, caro Ciccio, è il cuore di Milano, qui
        si trova il comando della Lega, dove fra poco potrebbe insediarsi il
        nostro Imperatore".
        Intorno al Broletto era un brulicare di gente, il
        porticato che si apriva sotto l’imponente costruzione era pieno di
        mercanti che esponevano ogni sorta di mercanzia, di gente che
        contrattava affari, di persone che andavano avanti e indietro con sacchi
        sulle spalle, cavalli che scalpitavano sul lastricato, carri colmi di
        prodotti, un gruppo di soldati armati che si muovevano in gran fretta.
        Ciccio e Turiddu rimasero a guardare sbalorditi, girarono intorno alla
        piazza, vagarono nei porticati, sotto gli archi, nei vicoli e nelle
        piccole porte che circondavano la costruzione. Erano le prime ore del
        pomeriggio quando, presi dall’euforia, si ricordarono delle parole
        dell’Imperatore; allora chiesero indicazioni per la famosa Chiesa di
        S. Ambrogio. Non fu loro difficile arrivarci, dopo avere percorso una
        lunga via che sembrava non finire mai, a causa delle pozzanghere e della
        melma che sollevavano carri e cavalli al galoppo. Si fermarono ad
        osservare non appena intravidero la rossa costruzione in mattoni, resa
        ancora più viva dai timidi raggi del sole, ormai basso all’orizzonte,
        che illuminavano l’ingresso, la bassa facciata ed i campanili.
        "Ne valeva la pena!", disse Turiddu
        estasiato quando si trovò nell’atrio a portici dell’elegante
        costruzione.
        Da quel punto d’osservazione, con un colpo d’occhio
        potevano cogliere uno spettacolo superbo; ai lati i portici con tante
        lapidi, di fronte la bella facciata della Basilica a logge sovrapposte,
        due piccoli campanili ai lati.
        Entrarono compunti nella Basilica: osservarono le tre
        navate sorrette da tanti pilastri, l’elegante pulpito, lo stupendo
        altare rivestito d’oro e d’argento, e ornato da pietre e smalti, il
        tempietto costruito sopra l’altare, il bel mosaico dell’abside con
        la figura di Cristo tra due santi. S’inginocchiarono e pregarono.
        Forse pregarono Dio che li facesse tornare a casa, forse,
        sacrilegamente, supplicarono S. Ambrogio di farli ricongiungere al loro
        Imperatore. Essi almeno avevano ottenuto ciò che Federico un giorno
        aveva confessato: "Potere mettere piede nella Basilica, dove il
        Barbarossa era quasi di casa e che aveva visto unire in matrimonio i
        suoi genitori". Commossi, se ne uscirono in punta di piedi, per
        fare ritorno all’osteria, visto che ormai cominciavano a calare le
        prime ombre della sera. Appena fuori della Basilica si trovarono su uno
        spiazzo con in mezzo una colonna, intorno alla quale stavano giocando
        alcuni bambini. Di fronte a loro si apriva la Pusterla di S. Ambrogio,
        la piccola porta a due arcate, provvista di ponte levatoio. Incuriositi,
        l’attraversarono e si trovarono fuori le mura della città da dove
        poterono ammirare le due torrette poste ai lati della porta ed il
        bassorilievo con la figura di S. Ambrogio attorniato da altri due santi,
        posti a guardia di quell’ingresso. Poco distante, un’insegna che
        segnalava una locanda dove si poteva mangiare un boccone e bere un sorso
        di vino, li invogliò ad entrare, visto che erano a digiuno sin dal
        mattino.
        Tornarono sui loro passi, per fare a ritroso il
        percorso che li aveva portati alla Basilica, attraversarono alcuni
        vicoli deserti, s’imbrogliarono nella ricerca della lunga via percorsa
        in precedenza. Nel silenzio di quei vicoli, in cui risuonavano soltanto
        i loro passi pesanti sul selciato, cominciarono a sentire in lontananza
        un’eco di voci concitate, come un comizio quando, alle parole
        appassionate dell’oratore, gli astanti, numerosi, rispondono con
        applausi di approvazione e di compiacimento. I due amici, curiosi come
        sempre, non sapendo dove andare, decisero di dirigersi nella direzione
        dalla quale provenivano quelle voci. Percorso il vicolo per un centinaio
        di passi, girarono alla loro destra e dopo una stradina maleodorante e
        piena di rifiuti d’ogni genere, sbucarono all’angolo d’una grande
        piazza. Non si erano sbagliati quando avevano pensato ad un comizio; la
        piazza, brulicante di persone sistemate alla rinfusa in ogni dove, era
        sovrastata dalla facciata rossa di una chiesa con una piccola loggia a
        due piani, alla cui sinistra risaltava un minuscolo ma elegante balcone
        in legno, una specie di pulpito esterno alla chiesa. E da quel pulpito
        un prete o un monaco, con un’evidente croce rossa disegnata sul petto,
        arringava la folla con parole di fuoco ed espressioni da fare
        accapponare la pelle. Parlava di eresie, di peccatori che sarebbero
        precipitati nella brace dell’inferno in braccio a satana, d’infedeli
        alla santa chiesa ed al Papa. Chiamava quei peccatori, che predicavano
        povertà e fratellanza, come poveri di spirito, che si trinceravano
        dentro al loro saio e dietro al digiuno forzato per fare un dispetto
        alla santa chiesa ed ai suoi comandamenti, che contestavano i precetti
        divini facendo azioni di sedizione e creando disordini. Quei peccatori,
        ormai fuori dalle righe della chiesa andavano puniti, catturati e
        consegnati alla Santa Inquisizione per essere processati e condannati,
        se non si fossero pentiti dei loro gravi peccati. E la gente osannava,
        quella massa di disperati applaudiva ed approvava, ignari che, prima o
        poi, anche loro sarebbero potuti cadere nelle maglie di quella giustizia
        sommaria.
        A Fra Pietro si alternò Fra Leone che, come il
        collega, parlò di collera e giustizia divina.
        "Ben detto, Fra Pietro, vanno incarcerati e
        processati", urlava uno scalmanato, al quale rispondeva un coro di
        facinorosi tumultuanti.
        "Fra’ Leone! Mandali tutti al rogo!",
        rispondeva un altro, più agitato del primo.
        "Andiamoli a prendere! A morte, a morte!",
        urlava un terzo che teneva al guinzaglio una capra, e che, fermatosi lì
        di ritorno dalla campagna oltre il ticinese, forse avrebbe fatto meglio
        a correre a casa dove l’aspettavano una moglie e dei figli.
        "Calma! Calma!" cercava di quietarli Fra’
        Pietro. "Adesso tutti in ginocchio e preghiamo il Signore Iddio
        nostro che ci dia la forza necessaria per portare a compimento i suoi
        santi comandamenti".
        Ciccio e Turiddu se ne stavano in disparte, in un
        angolo semibuio, ed osservavano, cogli occhi sgranati, quanto stava
        accadendo pochi passi più avanti. E mentre ammiravano la bella facciata
        della chiesa, nel frattempo consideravano quanta fede e quanta
        credulità albergava negli animi di tutti quei fedeli, alla mercé di
        quel monaco convinto di estirpare il cancro dell’eresia ramificato tra
        la sua gente. Ad un tratto, nel silenzio del raccoglimento generale, che
        era seguito alla supplica del monaco, giunse trafelato un uomo che
        portava una grande notizia:
        "Alla Vedra! Alla Vedra! Fra poco un eretico
        sarà giustiziato col fuoco!", urlava con quanta forza aveva in
        corpo, e che sembrava giunto a puntino, nel momento di esaltazione
        generale, per convincere senza tanti sforzi quella massa di disperati a
        recarsi ad assistere ad uno squallido spettacolo. Che poi era quello che
        lo stesso Fra’ Pietro in fondo desiderava e che avrebbe dato più
        forza alle sue parole ammonitrici. Con le sue prediche e le sue azioni,
        infatti, aveva contribuito notevolmente a mandare al rogo tanti poveri
        cristiani, perlopiù ignoranti e creduloni, accusati d’eresia.
        Alla notizia così allettante, d’assistere ad una
        esecuzione col fuoco, seguì un fuggi fuggi generale in direzione della
        Vedra, località non molto distante dalla chiesa. Ed a nulla valsero le
        imprecazioni di Fra’ Pietro, per trattenere alla sua predica quella
        gente. Nel lasso di qualche minuto, la piazza divenne quasi deserta, e
        soltanto in pochi rimasero ad ascoltare i sermoni del monaco.
        Ciccio e Turiddu, rimasti fino allora in disparte,
        non potevano resistere al richiamo di un macabro rituale, del quale
        avevano sentito tanto parlare ma mai avevano avuto l’avventura di
        assistervi. Istintivamente, usciti dall’ombra del loro nascondiglio,
        si unirono a quel corteo che, come mandria di pecore belanti, si
        dirigeva al piazzale delle esecuzioni capitali.
        
        Piazza della Vedra
        
        Il corteo di scalmanati avanzò lesto, tra canti e
        schiamazzi, verso la piazza, dove giunse in pochi minuti. Poco distante
        dalla cinta muraria si apriva uno slargo abbastanza ampio, alle spalle
        di una grande chiesa che lasciava intravedere le sue caratteristiche
        absidi in mattoni rossi.La piazza si presentava coperta di pozzanghere
        ed erbacce, delimitata da un lato da un piccolo corso d’acqua, quasi
        un rigagnolo, mentre tutt’intorno sorgevano delle casupole abitate da
        povera gente. Sul lato destro si notava un grande palco in legno, alto
        quanto un uomo di media statura, con una scaletta laterale dai gradini
        larghi e robusti, per un comodo accesso anche a persone impedite da
        catene e costrizioni varie. Sul palco facevano mostra un piccolo tavolo
        con una sedia e tanti oggetti strani, come ruote in legno, catene,
        martelli, tenaglie, attrezzi di tremendo supplizio. Al centro della
        piazza una piccola struttura di legno era sormontata da un alto palo con
        delle catene che pendevano verso il basso. Il palco era ancora deserto,
        ma dappertutto si notava un certo andirivieni, mentre alcuni piccoli
        fuochi, che ardevano ai bordi della piazza, oltre che illuminare lo
        spiazzo, già calavano le prime ombre della sera, servivano a scaldare
        alcune persone che vi sostavano intorno. Tramontato il tiepido sole
        novembrino, che durante il giorno ogni tanto aveva fatto capolino tra le
        nuvole, cominciava a farsi sentire il freddo, e l’umidità, apportata
        dalla nebbiolina che come fuliggine saliva dai navigli e dai tanti
        canali, lentamente ma inesorabilmente penetrava nelle ossa.
        Il rumoroso corteo, giunto ai bordi dello spiazzo, si
        arrestò e smise di rumoreggiare, rimanendo pazientemente in attesa dell’arrivo
        degli attori, perché lo spettacolo potesse avere inizio. Ciccio e
        Turiddu sedettero su un muretto di cinta, ed increduli, per quanto fra
        poco sarebbe veramente successo, si guardavano in faccia scambiandosi
        espressioni di meraviglia.
        "Ti pare giusto che un prete, col permesso e l’autorizzazione
        e la benedizione del Papa, deve condannare a morire col fuoco una
        persona solo perché professa un’altra religione o non riconosce la
        sua autorità?", sbottò Turiddu che, stranamente fino allora, era
        rimasto muto come un pesce.
        "Brutta storia questa Santa Inquisizione, caro
        compare!", gli rispose Ciccio. "A che serve bruciare dieci,
        cento o mille persone, per dare l’esempio? Fanno solo dei martiri, e
        subito dopo spuntano altri mille proseliti".
        Nel frattempo s’avvertì un certo movimento tra gli
        spettatori, si udirono alcune voci che dicevano: "Arrivano,
        arrivano!", altre: "A morte l’eretico!", alle quali
        rispondevano cori di: "A fuoco, a fuoco!".
        Tra due ali di folla esagitata avanzava, infatti, un
        carro che, trainato da un mulo e preceduto da due energumeni con in mano
        una torcia accesa, era seguito da una decina di tonache nere, che
        recitavano con monotona cadenza salmi in latino. Il primo monaco
        ostentava una grande croce, quello a fianco un messale sul quale era
        poggiato un crocefisso, mentre gli altri procedevano col cappuccio sulla
        testa e le mani nelle tasche del loro capiente saio, intenti e compunti
        nella recita dei salmi. Il condannato, accusato d’eresia per avere
        tentato d’organizzare un movimento di fede in contrapposizione al
        clero locale, evidentemente esausto per le torture subite, se ne stava
        sdraiato sul carro, le mani legate ad una pesante sbarra e protetto dal
        suo carceriere. In prossimità della Vedra era stato costretto a
        starsene in piedi, per essere visto da tutti e mostrare la fine che
        avrebbero fatto eventuali suoi emuli. Il corteo proveniva dal Palazzo
        della Ragione, sotto la cui loggia, dopo un rapido processo farsa e
        farneticante, era stata letta la sentenza di condanna: a morte,
        naturalmente!
        Il corteo s’inoltrò nello spiazzo, fermandosi ai
        lati del palco dove salirono i monaci che si sistemarono ai bordi,
        mentre, quello che sosteneva il messale e che sembrava il capo, deposto
        sul tavolo messale e crocefisso, s’accomodò sulla sedia. Infine salì
        sul palco il condannato, incatenato per le mani alla trave che era
        costretto a tirarsi dietro. A quella vista, la gente, che se ne stava
        assiepata ai bordi dello spiazzo, esplose in un urlo: "Al fuoco!
        Fuoco all’eretico!", calmandosi solo quando il monaco inquisitore
        s’alzò dalla sedia, facendo segno con le mani di fare silenzio. Il
        poveraccio respirava a fatica, aveva gli occhi tumefatti e perdeva
        sangue dalle braccia e dalla bocca. Chissà quante tenaglie l’avevano
        martoriato e quanti bastoni s’erano posati sulle sue carni per
        estorcere una confessione o un atto d’abiura. Adesso se ne stava lì,
        come un cristo davanti al suo Ponzio Pilato, in attesa che fosse posta
        la parola fine al suo lungo e tremendo calvario.
        La scena, quasi apocalittica, non aveva nulla da
        invidiare al clima ed alla tensione di una tragedia greca, di cui
        possedeva tutti gli ingredienti ed i connotati; anzi, qui la realtà
        superava di gran lunga la fantasia della messinscena orientale, dove in
        extremis sarebbe comparso un dio a sbrogliare una complicata matassa.
        Quegli dei, animati da passioni, amori, risentimenti, amicizia e
        giovialità, potevano intervenire nelle cose umane, dire la loro,
        consolare, rincuorare i loro assistiti. Il dio di quell’eretico,
        invece, era un dio muto, invisibile, imperscrutabile, severo, che stava
        dalla parte dei più forti, e mai sarebbe accorso in difesa di quel suo
        figlio in procinto d’essere sacrificato per un ideale inesistente,
        anzi ignobile e fuorviante; mai si sarebbe preso la briga d’acciuffare
        per i capelli quel disgraziato per salvarlo dalle fiamme e dalle grinfie
        di quei mestieranti infami e tracotanti.
        "Pentiti dei gravi peccati, rinuncia alla tua
        eresia e confessati a nostro Signore Gesù Cristo, salvatore del
        mondo!", intimò al condannato, che a stento si reggeva in piedi,
        alzando il crocefisso in segno di sfida e di minaccia.
        Questi, sgranò gli occhi, fissò l’inquisitore con
        disprezzo, poi, quasi ignorandolo, si girò dall’altra parte.
        "Pentiti dei gravi peccati, se vuoi salvarti dal
        fuoco eterno!", urlò ancora l’inquisitore, portando
        minacciosamente il crocefisso ad un palmo dal suo naso.
        Il condannato mosse lentamente la testa, e baciò il
        pesante crocefisso, che in segno di minaccia quasi pendeva sulla sua
        testa; poi, con quanta forza gli restava in corpo, lanciò uno sputo in
        faccia all’inquisitore.
        "Al rogo! Al rogo!", urlò l’inquisitore
        che, dopo averlo colpito violentemente in testa col crocefisso, s’asciugò
        il volto e sedette per godersi lo spettacolo.
        Il poveretto stramazzò sul palco tramortito, e ci
        vollero alcuni minuti per farlo rinvenire, dopo che alcuni inservienti
        gli ebbero versato addosso due secchi d’acqua gelata. Quindi, fu
        trascinato al centro dello spiazzo, e dopo essere stato liberato della
        trave legata alle sue mani, fu legato alla catena che pendeva dal palo,
        e sollevato a due altezze d’uomo. E lì fu lasciato a penzolare,
        sospeso tra cielo e terra, dopo avere fissato la corda alla base dello
        stesso palo, esposto allo scherno ed al ludibrio, prima d’essere
        investito dalle fiamme purificatrici. Tutto intorno iniziò
        immediatamente un andirivieni di persone che accatastavano ogni sorta di
        legna e abbondante paglia, per meglio dare esca al fuoco che fra poco
        avrebbe divorato l’eretico peccatore. Tutto questo lavoro era
        coordinato ed eseguito così bene, in fretta e con tanta solerzia, che
        si capiva come tale esperienza derivasse dalla frequenza delle
        esecuzioni stesse. Non un contrattempo, non una sbavatura, ma un lavoro
        di gruppo iniziato e portato a termine nel volgere di mezz’ora. Quindi
        il monaco inquisitore, umiliato ed offeso, adirato e contaminato dallo
        sputo dell’eretico, ordinò che fosse appiccato il fuoco alla legna.
        Il momento era solenne. Dal palco discesero i monaci incappucciati che,
        intonando litanie di morte, andarono a disporsi intorno al condannato,
        mentre il carceriere che aveva aperto la processione con la torcia, s’avvicinò
        alla legna e cominciò ad appiccare il fuoco tutto intorno, in vari
        punti.
        La litania dei monaci continuava con cadenza
        monotona: "Domus aurea", a cui il coro rispondeva: "Ora
        pro nobis"; "Foederis arca", "Ora pro nobis";
        "Janua coeli", "Ora pro nobis".
        Lentamente la paglia cominciò a bruciare,
        illuminando con strani e sinistri bagliori lo spiazzo e quanti, stavolta
        ammutoliti, assistevano al triste evento. Di fronte alla morte avevano
        perso l’allegria, la baldanza e la sicurezza che li avevano portati ad
        osannare uno spettacolo tanto macabro e incivile.
        "Stella matutina, salus infirmorum, rifugium
        peccatorum", intonava con più forza e vigore il monaco, per
        superare il brusio della gente ed il sinistro rumore del fuoco che
        cominciavano ad alzarsi nella piazza.
        In breve anche la legna, schioppettando, cominciò ad
        emettere nere volute di fumo, finché si levarono verso il cielo, e
        verso l’eretico appeso a mezz’aria, le prime lingue di fuoco. E con
        esse, le imprecazioni prima, i gemiti poi, infine le urla di dolore e di
        morte che coprirono le litanie dei monaci, la Vedra ed i suoi dintorni,
        le rogge, i canali, i navigli, le possenti mura della città, per alcuni
        interminabili minuti. Poi solo un tragico silenzio, rotto a tratti dagli
        striduli versi di un rapace attratto dall’odore di carne umana, mentre
        i bagliori del fuoco illuminavano le piccole case del circondario e le
        sanguigne mattonelle della chiesa; rosse come il sangue innocente che
        scorreva dietro le sue porte, in nome e per conto di un cristo che
        sicuramente non voleva che quel sangue fosse versato inutilmente.
        
        La fuga
        
        Ancora frastornati e sconvolti dal triste spettacolo,
        Ciccio e Turiddu, seguendo la riva del naviglio, giunsero nei pressi
        dell’osteria ch’era già buio, dopo avere oltrepassato nuovamente il
        ponte davanti la Porta Romana, illuminata da alcune lanterne appese ai
        fianchi della costruzione. Dalle acque del naviglio che si muovevano
        lentamente, come al solito, proveniva un debole fruscio, segno che un
        barcone stava transitando poco avanti a loro.
        "Ciccio! Guarda che strano movimento intorno
        alla nostra osteria!", disse Turiddu allarmato.
        "Fermo", disse Ciccio, invitando Turiddu ad
        acquattarsi lungo la parete di una casa.
        In quel frangente, la barca che avevano sentito
        transitare in precedenza si fermò poco avanti l’osteria delle
        quaglie, e ne discesero alcuni soldati armati che andarono ad
        aggiungersi ad altri che già sostavano lì davanti e discutevano con l’oste.
        Ciccio e Turiddu rimasero in silenzio, tendendo i
        loro orecchi nel tentativo di percepire quanto si dicevano, visto che la
        discussione era alquanto animata e si trovavano a non più di cinquanta
        di passi. Parlavano in milanese, linguaggio a loro poco familiare, ma
        qualche parola giungeva chiara alle loro orecchie.
        "Parlano di noi, Ciccio! Vuoi vedere che hanno
        scoperto la nostra vera identità? Altrimenti che ci starebbero a fare
        quei soldati armati lì davanti, a quest’ora?", disse Turiddu al
        suo amico.
        "Hai ragione, mi sembra di riconoscere Ambrogio
        ed un altro soldato col quale siamo giunti qui da Cortenova. Quel
        miserabile deve avere mangiato la foglia, ed ha fatto la spia. Altro che
        panettiere, è un miserabile ruffiano! Oppure ieri sera, pieni di vino,
        chissà quali fesserie abbiamo raccontato all’oste ed ai suoi amici.
        Qualcuno s’è insospettito ed ha chiamato le guardie. Cosa pensi di
        fare?", chiese Ciccio sottovoce.
        "Di filare, sicuramente, ed alla svelta! Non
        vorrai andare da quelli lì a giustificarti, a dire che noi con la
        battaglia non c’entriamo per nulla, e che siamo capitati qui per caso:
        finiremmo lo stesso appesi ad una corda, come quel disgraziato di piazza
        della Vedra. Però, prima dobbiamo recuperare i cavalli. Ho un’idea",
        disse Turiddu.
        "Speriamo non sia una delle tue tante idee
        strampalate. Qui non c’è l’Imperatore che ci aveva in
        simpatia!", commentò Ciccio, mentre seguiva l’amico nel vicolo
        che si apriva qualche passo avanti.
        Percorsero il vicolo tortuoso per una cinquantina di
        passi, girarono a sinistra, e si ritrovarono nel retro dell’osteria,
        dove tutto sembrava tranquillo. Anche i cavalli erano al loro posto.
        Dalla nuova postazione le voci ora giungevano forti e perfettamente
        comprensibili, attraverso la porta di servizio che dava sul retro.
        Cercavano proprio loro, i due amici giunti la sera prima da Cortenova
        insieme ad Ambrogio, sicuramente amici del maledetto tedesco!
        "Ecco perché ci hanno scoperto! Se ben ricordi,
        i nostri cavalli sotto la pancia portano il marchio del Regno di
        Sicilia. Prendiamoli e filiamo via!", sussurrò Turiddu.
        Varcarono la porta che s’apriva in mezzo al
        muretto, s’avvicinarono ai cavalli accarezzandoli per non farli
        nitrire, sciolsero con la massima attenzione le briglie che li tenevano
        legati all’anello. Poi, facendo il percorso a ritroso, quasi
        trattenendo il fiato, si ritrovarono nel vicolo che percossero fino in
        fondo, per ritrovarsi quasi all’altezza del Ponte.
        "Facciamo finta di nulla, Ciccio, ed usciamo con
        calma, tenendo in briglia i cavalli", disse Turiddu.
        Così fecero. Ma mentre attraversavano la Porta si
        fece loro incontro un soldato.
        "Altolà! Siete matti? Dove andate a quest’ora?
        Non sapete che c’è il tedesco, in giro!", disse quello quasi con
        tono minaccioso, più che meravigliato nel vederli uscire a quell’ora
        dalla città.
        Per tutta risposta Turiddu e Ciccio farfugliarono un
        saluto, proseguendo senza esitare, beccandosi un: "Andate al
        diavolo, coglioni!", da parte del soldato che, dopo una smorfia d’imprecazione,
        se ne tornò al posto di guardia.
        Proseguirono con calma per un centinaio di passi, per
        non destare sospetti, quindi, una volta immersi nel buio della notte,
        saltarono in groppa ai loro cavalli allontanandosi alla svelta verso
        sud, senza neppure voltarsi indietro.