CORTENOVA

Il matrimonio di Federico con Isabella d’Inghilterra rese più salda la sua già grande potenza, per cui si rivolse al Papa affinché convincesse i suoi alleati Milanesi a desistere dalle loro azioni di guerra e di sottomettersi alla sua volontà. Il Papa gli rispose sarcasticamente di non azzardarsi ad entrare in Italia col suo esercito, ma piuttosto, come conveniva ad un buon cristiano, di partire per la Crociata. Al che l’Imperatore gli scrisse che, quantunque fosse buon cristiano e pronto a prendere le difese della Chiesa contro i nemici della Croce, i suoi interessi, com’era noto a tutti (notum toto orbi) erano in Italia e che era disdicevole abbandonare i propri affari per occuparsi di cose estranee al suo regno (anhelare ad aliena et propria relinquere, ambitiosum esset et enorme). E presto glielo dimostrò.

Federico si era amicato i feudatari dell’Italia settentrionale, come il marchese di Monferrato, i conti di Savoia, gli Uberti, i Pallavicini. Ostile invece gli era la casa d’Este, con a capo Azzo VII. Avversaria della casa d’Este, e quindi amica di Federico, era la famiglia Da Romano, con a capo Ezzelino III, che controllava la Marca veronese, Vicenza, Padova ed il passo del Brenta. L’alleanza con Ezzelino fu molto utile a Federico, perché il possesso di quei territori strategici gli garantiva la via delle Alpi attraverso le chiuse di Verona. A rinsaldare tale amicizia contribuirà il fatto che Ezzelino sposerà Selvaggia, forse figlia di Federico o cugina di Bianca Lancia, sua amante e madre di Manfredi e di Enzo.

Unite le sue forze con quelle di Ezzelino, Cremona, Parma, Modena e Reggio, nonché le milizie saracene, Federico decise di attaccare immediatamente Milano e fiaccare ogni resistenza della Lega. Ma l’imprevedibile resistenza di Mantova gli fece cambiare piano; allora ne saccheggiò i dintorni, conquistò Vicenza, e sottomise Bergamo e Ferrara (1 novembre 1236). Intanto che Ezzelino costringeva Mantova alla resa, Federico dovette correre in Germania per domare la ribellione del duca Federico d’Austria.

Nel frattempo i milanesi con un forte esercito avanzano col carroccio verso Pavia, entrano in Lomellina e prendono Lomello e Garlasco. Quindi passano il fiume Po e si dirigono verso Orio. I pavesi si lamentano con Federico dei gravi danni subiti dai milanesi, ma questi per il momento non può fare altro che consolarli, in attesa del suo ritorno. Infatti giunge in Italia il giorno di S. Michele, forte di un esercito di centomila uomini, ed in breve conquista una serie di località che vengono incendiate e rese inoffensive, come il castello di S. Bonifacio, vicino Verona.

Seguiamo gli spostamenti come narrati da Riccardo Caproni.

Ai primi di ottobre Federico varca il Mincio tra Valeggio e Cavriana, entrando in territorio mantovano. Assale ed incendia i castelli di Goito, Guidizzolo, Marcaria, Mosio e Redondesco. Firma la pace con Mantova terrorizzata, in cambio della sua neutralità. Il 5 ottobre prende Carpenedolo e Casaloldo, il 7 assedia Montichiari, varcando il fiume Chiese a Calcinato. Montichiari resiste fino al 21 ottobre, quindi viene distrutta.

Intanto l’esercito della Lega si organizza per accorrere in aiuto di Brescia. Ai milanesi si uniscono: cremaschi, novaresi, lodigiani, vercellesi, alessandrini e piacentini. Passa l’Adda a Cassano ed il fiume Serio a Fara Olivana, attraversa il territorio di Cortenova varcando l’Oglio sui ponti di Palazzolo e Pontoglio, la strada più breve per giungere a Brescia. Qui giungono il 3 di novembre.

L’Imperatore continuò a saccheggiare la pianura bresciana: il 2 novembre incendiò i castelli di Gambara, Gottolengo, Pralboino e Pavone. Quindi pose gli accampamenti a Pontevico. Il 10 novembre anche l’esercito guelfo si diresse a Pontevico, ponendo gli accampamenti a sud di Manerbio, in una prateria protetta e sicura. Da questa postazione sbarrava la strada all’Imperatore verso Brescia e Milano. Per 14 giorni i due eserciti si fronteggiarono a meno di quattro miglia di distanza. I due contendenti si sentivano sicuri nelle loro posizioni; i guelfi evitavano lo scontro sperando nella defezione di una parte dell’esercito di Federico, formato in maggioranza da mercenari, mentre l’Imperatore intuendo la strategia dell’avversario cercava di provocare lo scontro. Ideò allora uno stratagemma; congedò parte delle truppe che glielo avevano chiesto, e la mattina del 22 novembre portò le sue truppe oltre il fiume, in territorio cremonese, facendo spargere la voce di un suo ritiro a Cremona per passarvi l’inverno, in attesa della buona stagione. Giunto ad Alfiano si diresse verso nord, fermandosi a Soncino. Il piano di Federico aveva funzionato alla perfezione; infatti, mentre l’esercito bresciano ritornava verso Brescia, gli alleati guelfi il 26 novembre si diressero verso Pontoglio e Palazzolo, con meta Cortenova, per stabilirvi l’accampamento, sicuri che l’Imperatore fosse ormai lontano. La stessa sera l’Imperatore lasciò Soncino in gran segreto e raggiunse la campagna di Cortenova, nascondendo il proprio esercito nel folto bosco di Covello.

L’avanguardia dell’esercito milanese, composta in maggioranza di fanti, costretta a trainarsi un pesante carroccio, andando a rilento, s’era mossa in anticipo, giungendo a Cortenova nella serata del 26. Il grosso dell’esercito guelfo, che si era mosso all’alba di venerdì, 27 novembre, giunse a Cortenova verso mezzogiorno a causa delle condizioni delle strade rese fangose dal maltempo, e piantarono le loro tende a sud, nei pressi della Selva di Covello, a ridosso dell’esercito di Federico, senza prestare soverchia attenzione alle proprie difese: "Turmatim cantantes domum rediebant".

Era il tardo pomeriggio del 27 novembre del 1237, quando l’esercito imperiale piomba sull’accampamento della Lega: la battaglia durata poche ore, per il calare della notte e di una densa nebbia, fu molto aspra e cruenta, e presto assunse le dimensioni di una strage. I primi ad intervenire furono la cavalleria e gli arcieri Saraceni, seguiti dagli "auxiliares". La presenza sul campo di Federico ed Ezzelino moltiplicò il coraggio e l’entusiasmo dei loro soldati. I fanti guelfi furono immediatamente travolti ed uccisi o fatti prigionieri, mentre la cavalleria accorreva in loro difesa. Le milizie di Pavia e Cremona si scagliarono contro i milanesi con particolare accanimento, dando così sfogo ad antichi rancori. I milanesi lasciarono sul campo più di 10 mila soldati tra morti e prigionieri,mentre l’esercito imperiale ne uscì senza danni, almeno a sentire quanto dice Pier delle Vigne. Durante la notte, i superstiti rifugiatisi entro le mura di Cortenova, prima di darsi alla fuga verso Milano, spogliarono il Carroccio delle insegne comunali, abbandonandolo in mezzo al fango. Nella lotta trovarono la morte due nobili milanesi, Alberto da Arcore e Riprando dei Gerli. Tra i tanti prigionieri vi fu il comandante dell’esercito milanese, il Podestà di Milano, Pietro Tiepolo, conte di Zara e Tripoli, figlio di Jacopo, doge di Venezia, che fu condotto a Cremona, legato braccia e collo al palo del carroccio trainato da un grosso elefante. Il resto dell’esercito in rotta, costretto tra i fiumi Oglio e Serio in piena, fu assalito e massacrato dai bergamaschi che scendevano da nord; tanti morirono annegati nel tentativo di attraversare i corsi d’acqua, e solo in parte sfuggì al disastro totale grazie all’aiuto di Pagano della Torre che dette ricovero ai fuggitivi nei suoi castelli della Valsassina. Pagano della Torre, nipote di un famoso Martino morto in Terrasanta, come riconoscenza, in seguito verrà eletto Podestà dai milanesi.

Tutti i prigionieri, per i quali non c’era posto in Città, dopo le solenni celebrazioni per la vittoria fatte in Cremona, furono condotti nei castelli delle Puglie, dove morirono in catene. Lo stesso Podestà Pietro Tiepolo, fu condotto a Trani dove, per ordine dell’Imperatore, fu vergognosamente impiccato sulla torre, posta lungo la via del mare, affinché la flotta veneziana che veleggiava da quelle parti lo potesse vedere penzolare. Nelle mani di Federico cadde il pesante Carroccio di Milano, affidato alla custodia della Compagnia dei Forti, cioè dei plebei, sotto il comando di Enrico da Monza, detto "il mettifuoco". Il Mettifuoco resistette attorno al Carroccio fino a notte, ma poi, vedendo che era inutile resistere più a lungo e che lo stesso era reso ancor più pesante da un terreno molto fangoso a causa della pioggia, dette ordine di distruggerlo e di ripiegare in ordine, dopo avere asportato le insegne della città.

I pavesi, incoraggiati dalla grande vittoria del loro alleato, per ripicca ai torti subiti dai milanesi, saccheggiarono l’Abbazia di Morimondo, abitata da 50 monaci e da circa 200 conversi; parte di questi si rifugiò presso le Abbazie di Chiaravalle e Viboldone (site nelle immediate periferie di Milano), dove ebbero cordiale accoglienza, parte fu accolta nelle chiese e nei conventi di Milano. Gregorio IX, adirato per un simile misfatto, ordinò che si processasse la città di Pavia, ma le cose andarono per le lunghe e non se ne fece nulla.

Il Carroccio era un grande carro a quattro ruote, trainato da buoi, ed era il simbolo dei Comuni italiani. La sua origine non è molto certa, ma pare che esistesse sin dall’ottavo secolo presso i Saraceni. Era agghindato coi colori della città, ed era il centro dello schieramento durante la battaglia. Una campana, detta martinella, era piantata su un’alta asta a forma di croce, su cui sventolava il vessillo del Comune, e dava il segnale della battaglia. Fungeva anche da altare per le funzioni religiose, ed era adibito ad ospedale da campo. La sua perdita nelle mani del nemico, oltre che un segno evidente di sconfitta, era un grave segno di sventura.

Il Carroccio dei milanesi, ricomposto, fu portato dentro la città di Cremona, come trofeo di guerra, e quindi spedito a Roma a Papa Innocenzo IV, in segno di scherno: "Ricevete il Carroccio della città di Milano, capitale della fazione lombarda, come caparra della nostra potenza e pegno della nostra gloria". Forse lo stesso Federico, o un poeta della sua corte, scrisse i versi che accompagnavano il Carroccio e che ancora oggi si possono leggere su una lapide scoperta all’interno del campanile del campidoglio:

"CESARIS AUGUSTI FRIDERICI, ROMA, SECUNDI DONA TENE, CURRUM, PERPES IN URBE DECUS. HIC MEDIOLANI CAPTUS DE STRAGE, TRIUNPHOS CESARIS UT REFERAT, INCLITA PREDA VENIT. HOSTIS IN OPPROBRIUM PENDEBIT. IN URBIS HONOREM MICTITUR HUNC URBIS MICTERE IUSSIT AMOR".

Pier delle Vigne comunicò pomposamente la vittoria ai Sovrani d’Europa: "Tandem enim Deus, justus judex, iura respexit Imperii!". E ancora: "Exsultet jam Romani Imperii culmen et pro tanti victoria principis, mundus gaudeat universus".

La vittoria sulla lega lombarda era stata enorme, e grande la potenza raggiunta da Federico, mentre l’esercito milanese era ridotto in netto sfacelo. Molte città professarono la loro sottomissione a Federico, mentre soltanto Milano, Brescia, Bologna e Piacenza resistevano ancora tenacemente. Armati giungevano da ogni parte dell’Impero, notevoli i rinforzi tedeschi condotti da re Corrado, e l’esercito diventava sempre più numeroso e potente. A Milano non restò che chiedere la pace. Federico convinto d’avere domato i milanesi, pretese d’avere la piena giurisdizione sulla città, "sicut quilibet rex in terra sua!", e che i comuni dovevano ubbidire come sudditi "quem admodum nobis et aliis terrae regibus et principibus bubditi deserviunt".

Fu questo un grosso peccato di superbia, un madornale errore di valutazione da parte di Federico, che fece scemare parte delle simpatie universali che sino allora avevano assecondato e favorito la sua luminosa ascesa. I milanesi rifiutarono le umilianti condizioni della resa, ed orgogliosamente così risposero all’Imperatore: "Timemus tuam, edocti experimento, feritatem; malumus sub clipeis, gladio vel lancea mori vel spiculis, quam laqueo, fame vel incendiis". Federico allora mosse contro Brescia, la cui conquista gli avrebbe aperto le porte verso Milano, e la cinse d’assedio. Ma dopo due mesi di vani tentativi, il 9 ottobre 1238, fu costretto a togliere l’assedio a quella città che definì "velut leaena rugiens", e si ritirò a Cremona; cominciava ad assaporare il primo dei tanti insuccessi dovuti al logorio cui lo sottoposero i Comuni, che non potendo dare aperta battaglia a causa del forte e numeroso esercito imperiale, cominciarono a logorarlo con scaramucce e piccole battaglie. La qual cosa non giovava certamente a Federico che aveva bisogno di una grande e definitiva vittoria.

C’è da chiedersi che importanza abbia avuto la schiacciante vittoria dell’esercito imperiale a Cortenova contro i milanesi ed i loro alleati. L’entità delle perdite inflitte fu notevole, ed altrettanto, almeno immediatamente, fu lo sconforto da una parte e l’euforia dall’altra. Ma alla grande vittoria ottenuta sul campo, anche se non di battaglia ma d’imboscata si trattò, non corrispose l’equivalente effetto politico che forse non avrebbe cambiato la storia, ma di certo avrebbe potuto dare una fisionomia diversa alle varie regioni del nord d’Italia.

I milanesi, annientati, avevano chiesto una giusta pace (avevano mandato come ambasciatore a Cremona il frate minore Leone dei Valvassori da Perego) che Federico clamorosamente negò, credendo di avere ormai domato ogni velleità di rivolta, e si aspettava che i vinti si prostrassero ai suoi piedi come sudditi e schiavi. Sennonché la batosta subita a Cortenova forse giovò ai milanesi più di una vittoria sul campo, dal momento che questo fatto risvegliò il loro orgoglio cittadino e la loro determinazione alla lotta. Federico sarebbe potuto entrare in Milano da vincitore, e visitare finalmente i luoghi delle scorrerie di suo nonno e la Chiesa di S. Ambrogio, che aveva visto unire in matrimonio i suoi genitori. Le sue errate valutazioni, invece, ridussero quell’importante vittoria ad una semplice battaglia, fu anzi l’inizio delle due sventure ed il declino dei suoi sogni imperiali.

Nel settembre del 1239 Federico tentò di convergere verso Milano, saccheggiò Melegnano, Landriano, Bescapé, e si accampò a Locate. Lo scontro avvenne a Cassino Scanasio, dove fu bloccato dall’esercito della Lega e respinto verso Casorate e Rosate, cosicché si convinse definitivamente a desistere da ulteriori tentativi. Parte della nobiltà milanese, capitani e valvassori, abbandonarono la città ed il suo esercito, passando dalla parte di Federico; segno che ormai alla patria si sostituiva la fazione, iniziavano gli estremismi di destra e di sinistra, e che non conciliandosi più il partito dei nobili e dei popolari si andava incontro alla fine della libertà: era l’avvento della Signoria.

Uomo di scienza, di lettere, di giurisprudenza, poeta e quant’altro, non era evidentemente uno stratega militare; non era facile comunque muoversi su un terreno minato da inimicizie tra le varie città, da continue defezioni per interessi locali, costretto a comandare un esercito raccogliticcio, a parte i suoi ben addestrati e fedeli Saraceni. Se avesse potuto, avrebbe usato come spada la sua lingua tagliente e penetrante, come aveva dimostrato in varie circostanze contro il Papa che, all’indomani della battaglia di Cortenova, dal suo pulpito romano s’affrettò a lanciare ancora una volta l’anatema della scomunica contro il vincitore.