La crociata del 1228

Il problema di appropriarsi dei luoghi santi della Palestina, in mano ai cosiddetti infedeli, era molto sentito in occidente. Cosicché dopo il mille cominciarono le spedizioni verso la Palestina, sia via terra che via mare, per liberare il Santo Sepolcro. Nel 1096 un esercito franco, guidato da Pietro l’Eremita e Goffredo di Buglione, aveva conquistato Nicea, Edessa ed Antiochia, e nel 1099 Gerusalemme, con una serie di massacri e saccheggi. Resterà memorabile il "macello" di cui si resero responsabili i Crociati al grido di "Dio lo vuole". (Mentre il "feroce" Saladino non torse un capello ai cristiani quando nel 1187 riconquistò la città di Gerusalemme!). Nel 1100, morto Goffredo di Buglione, suo fratello Baldovino si proclama re di Gerusalemme. Segue un periodo di alterne vicende, durante il quale cadono Tiro, Sidone Tripoli e Beirut. L’Imperatore di Germania Corrado ed il re dei franchi, Luigi VII, vengono sconfitti sotto Damasco, nel 1148. Nel 1183 Saladino conquista Aleppo ed unisce la Siria e l’Egitto sotto la sua egida. Nel 1187 Saladino sconfigge i franchi e riconquista Gerusalemme e la maggior parte dei territori occupati. Ma nel 1192 Saladino viene sconfitto presso Acri, e l’intervento del re d’Inghilterra Riccardo cuor di Leone permette ai franchi di riconquistare parte dei territori persi. Morto Saladino nel 1193, il potere viene assunto dal fratello al-Adil. Finché nel 1204 i franchi conquistano Costantinopoli e la saccheggiano brutalmente.

Ma chi erano veramente i Crociati?

L’iconografia cristiana ce li rappresenta come dei pellegrini invasati dal desiderio di liberare i luoghi del "Santo Sepolcro di Cristo" in mano agli infedeli musulmani e che, penitenti, si recavano in oriente per cristianizzare quei luoghi. Era evidente che non partivano armati solo della buona novella e dei vangeli per convincere il Saladino a cambiare religione, come ingenuamente farà Francesco d’Assisi. Ma partivano armati di tutto punto, con eserciti comandati da strateghi occidentali, capi di stato, imperatori e principi, con un seguito di nobili, notabili, cittadini, straccioni, mendicanti; ed uno stuolo di penitenti, indotti a tale lungo e pericoloso viaggio dai confessori per espiare le pene loro inflitte per i gravi reati commessi. Il computo della pena, da parte dei confessori, avveniva attribuendo un numero di giorni per ogni peccato più o meno grave, per cui in certi casi la somma raggiungeva anche decine d’anni. La meta era un santuario od un monastero, distanti centinaia di chilometri. Erano costretti a vagare senza conoscere la strada, spesso pericolosa e malsicura, laceri e a piedi scalzi, aiutandosi con un lungo bastone con in cima una zucca vuota come recipiente per l’acqua. Adesso la meta del Santo Sepolcro era il massimo cui potessero aspirare. Per cui era frequente incontrare, a fianco del pellegrino devoto e pieno di fervore, assassini e stupratori della peggiore specie che all’occasione, messo da parte il pentimento, tornavano a delinquere. Visto poi che la parola d’ordine per i crociati era distruggere, saccheggiare, predare, fare carneficina di nemici, questi personaggi di certo si trovavano a loro agio.

Meta frequente era la città santa di Roma, ed i pellegrini che provenivano da nord utilizzavano la "Via francigena", ch’era la più battuta delle vie romee medievali. Entrava in valpadana per la val d’Aosta, e raggiungeva Pavia; quindi per il valico della Cisa (Monte Bardone) superava gli Appennini e toccava Lucca, giungeva a Siena per la val d’Elsa, e attraverso la Tuscia arrivava a Roma.

La via francigena era una direttrice prevalentemente commerciale, dal momento che univa le due grandi aree mercantili del Medioevo, il Mediterraneo ed il Mare del Nord. In seguito fu anche utilizzata come itinerario per i pellegrinaggi. Era detta "Via Romea" perché dai territori d’oltralpe giungeva sino a Roma; in molti tratti corrispondeva alla via Cassia, tuttavia utilizzava parti di tracciato di strade diverse in modo da collegare il maggior numero di centri abitati di una determinata zona. La via Francigena nacque come "strada di Monte Bardone", da un originario "Mons Longobardorum" che nel Medioevo indicava tutta quella parte dell’appennino tosco-emiliano, presso il passo della Cisa, percorsa dai tracciati viari che collegavano le due aree del regno longobardo, la Padania e la Tuscia. Le più antiche testimonianze sulla via di Monte Bardone risalgono all’inizio del secolo VIII, ma la prima dettagliata descrizione della via Romea è contenuta nella "Memoria" di Sigeric, arcivescovo di Canterbury, dell’anno 990; l’itinerario ha ormai un ben definito tracciato con alcuni punti nodali, detti mansioni, corrispondenti a valichi montani, attraversamenti di corsi d’acqua, luoghi di accoglienza per i viaggiatori. Sotto il dominio carolingio il percorso divenne sempre più definito ed importante, ed assunse il nome di "Via Francigena", con funzioni di strada di grande comunicazione, poiché i Franchi erano molto interessati ai traffici con il nord Europa, in particolare le regioni del bacino renano. La "Via Francigena" costituì la "via peregrinalis" per eccellenza quale punto d’incontro delle direttrici per le grandi mete della Cristianità: Roma, Gerusalemme, Compostella. Per questo, lungo il percorso erano situati luoghi di ristoro e di sosta (hospitia), ed anche d’accoglienza ai fini ospedalieri (hospitales), distribuiti un po’ dovunque. Una moderna autostrada con aree di sosta, di ristoro e di pronto soccorso!

Anche Federico II si era impegnato a più riprese, col papa Onorio III, a condurre una crociata in Terra Santa per scacciare gl’infedeli dai luoghi sacri al cristianesimo. Ma preso dagli impegni di riorganizzazione del suo regno, oramai non trovava più né tempo né voglia di imbarcarsi in una simile impresa, dagli esiti per nulla scontati.

La quinta crociata (1218-1221) aveva avuto un esito del tutto negativo. I crociati avevano totalmente cinto d’assedio Damiata, ormai stremata dalla fame e dalla sete. Il califfo d’Egitto al-Kamil (che in arabo vuol dire "il perfetto"), trovandosi a mal partito, aveva presentato a Pelagio, un certo cardinale spagnolo che comandava la spedizione, una proposta di resa con la quale offriva non solo Gerusalemme, ma anche il territorio della Palestina ad ovest del fiume Giordano. Pelagio, orgoglioso e sicuro della vittoria, dichiarò di non volere trattare con i Saraceni e dette ordine di attaccare Damiata, che non oppose alcuna resistenza (1220). Alla notizia (falsa) dell’arrivo di una grande flotta comandata da Federico II, al-Kamil si preparò alla guerra, mentre i franchi imbaldanziti dalla presa di Damiata marciarono verso il Cairo, decisi a conquistare tutto l’Egitto. Sennonché la crescita del Nilo e la demolizione delle dighe da parte dell’esercito di al-Kamil, mise in trappola ed impantanò l’esercito dei franchi che furono costretti a chiedere la pace, senza alcuna concessione di terra, ed a firmare una tregua di otto anni.

Intorno a Damiata troviamo persino Francesco d’Assisi, accorso per predicare il vangelo agli infedeli; anzi alcune fonti narrano di un suo incontro col sultano al-Kamil che, respinto ogni tentativo di conversione al cattolicesimo, gli dette un lasciapassare per visitare i luoghi santi. Tra gli ingenui tentativi di Francesco, pieno di fervore e di speranza di potere portare al cristianesimo il popolo musulmano, si racconta di una sua proposta fatta ad al-Kamil, una specie di ordalia. Un dignitario di al-Kamil e Francesco stesso sarebbero passati sul fuoco: se Francesco ne fosse uscito indenne avrebbe convertito al-Kamil al cristianesimo, e viceversa. Respinta la sfida del fuoco, Francesco si offrì d’eseguire la prova da solo. Ma anche questa proposta venne rifiutata dal sultano, evidentemente più saggio di tanti santi nostrani.

Federico II e papa Onorio III s’incontrarono a Veroli nell’aprile del 1222, per stabilire un termine entro cui dare inizio all’impresa. In quella circostanza Federico II reclamò il possesso del Ducato di Spoleto, cosa che naturalmente Onorio III rifiutò categoricamente. Lo Stato della Chiesa era costituito da beni lasciati in eredità dai longobardi (ducato bizantino di Roma), dai carolingi (marca di Ancona, Romagna e Ravenna), Toscana e Canossa (lasciati in eredità da Matilde nel 1115). Il Barbarossa, Enrico VI ed Ottone IV avevano riconosciuto il potere temporale della Chiesa, pur rivendicando i loro diritti feudali. Lo stesso aveva fatto Federico II, con la Bolla d’oro di Eger (1213), prima di ricevere la corona imperiale (non sappiamo quanto in malafede e di quanto abbia anticipato il Machiavelli!). Fu evidente però che, con abile mossa, approfittando della debolezza del vecchio Onorio, cominciò a prepararsi la strada per una futura rivendicazione dei territori contesi, nominando persone a lui fedeli e mandando a Viterbo Bertoldo di Urslingen, figlio del defunto Corrado, il duca di Spoleto che lo aveva ospitato, ancora in fasce, nella rocca di Assisi.

Nel 1223, a Ferentino nel Lazio, ripresero le trattative per la Crociata in un convegno al quale parteciparono Onorio III, Giovanni di Brienne, Ermanno di Salza. Si stabilì che Federico sarebbe partito il 24 giugno del 1225. In quell’occasione fu annunziato il fidanzamento di Federico con Isabella, figlia di Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme (1210) e di Maria, figlia d’Isabella d’Angiò e di Corrado, marchese di Monferrato. Questo matrimonio fu fortemente caldeggiato dal pontefice Onorio III. Federico, per nulla entusiasta di impegnarsi veramente a fare guerra ai musulmani per una causa a lui estranea, e comunque non in linea coi suoi interessi contingenti, riuscì a procrastinare la data della partenza per l’agosto del 1227, pena, questa volta, la scomunica papale. Nel novembre del 1225 venivano celebrate le nozze tra Federico II ed Isabella di Brienne.

Il 12 marzo 1227 moriva Papa Onorio III. Gli succedeva col nome di Gregorio IX, il vescovo di Ostia, Ugolino dei Conti di Segni, parente quindi di Innocenzo III.

Al contrario di Onorio III, Gregorio IX era una persona per nulla arrendevole e molto combattivo. Ostile da sempre al partito dell’Imperatore, aveva un’alta coscienza teocratica e si mostrò subito intransigente nella difesa dei diritti della Chiesa. Amico di Francesco d’Assisi, evitò che la sua sincera religiosità potesse disperdersi in una delle tante correnti eretiche del tempo. Esperto di diritto canonico ed abile giurista, curò le Decretali che divennero il testo ufficiale delle leggi ecclesiastiche. Era evidente che, come al suo predecessore, stesse a cuore il problema delle Crociate, e quindi ingiunse a Federico II di partire per l'oriente, senza frapporre dilazioni, in base agli accordi stipulati con Onorio III.

Questa volta trovò Federico consenziente a preparare una flotta ed a reclutare uomini per l’imminente impresa, dal momento che il matrimonio con Isabella di Brienne, erede al trono di Gerusalemme, aveva stuzzicato il suo interesse e la sua ambizione ad entrare in possesso delle terre del mediterraneo orientale e della corona che adesso gli apparteneva di diritto. Adunò a Brindisi la flotta siciliana, che aveva potenziato negli anni precedenti, giunsero da tutta Europa un gran numero di soldati, tra cui Ermanno di Salza, arrivò anche il Langravio di Turingia, Ludovico, suo amico. Nonostante una pestilenza in corso a causa della forte calura di quell’agosto, l’otto settembre iniziò l’avventura. Ma dopo solo tre giorni la spedizione fu interrotta a causa della malattia sua e del langravio, anzi Ludovico trovò la morte. Federico si ritirò a curarsi nei bagni di Pozzuoli da dove comunicò al Papa che la spedizione veniva rinviata al maggio successivo, adducendo i motivi più che giustificati. Il Papa fu irremovibile, e pensando che si trattasse dell’ennesimo pretesto di Federico per non partire per la Crociata, il 29 settembre dalla cattedrale di Anagni lo scomunicava. Anzi, il 18 novembre Gregorio IX rinnovava la scomunica ed il 23 marzo del 1228 la riconfermava solennemente. La guerra tra il Papa e Federico II era scoppiata violentemente, senza esclusione di colpi. Questi passò all’attacco accusando violentemente Gregorio IX e la sua Chiesa con una circolare in cui confutava le accuse del Pontefice. La fazione imperiale di Roma insorse ed il Papa fu costretto a lasciare la capitale per trovare rifugio a Rieti e quindi a Perugia.

Federico II avviò nuovi preparativi per la Crociata, convocando a Barletta vescovi e principi di Puglia e di Sicilia, anche se effettivamente era mosso da motivi politici più che religiosi. A tutto evidentemente pensava, l’ormai scomunicato, tranne che a liberare dagli eretici i luoghi santi della Palestina. Proprio in quei giorni, e cioè nell’aprile dello stesso anno, moriva in Andria Isabella di Brienne, dopo avere dato a Federico il figlio Corrado. Il 28 giugno 1228 la spedizione partiva da Brindisi diretta a Cipro e quindi in Palestina, a S. Giovanni d’Acri. Il patriarca di Gerusalemme, le autorità religiose, i templari e gli Ospedalieri, avvisati dell’arrivo dello scomunicato, furono molto freddi ed ostili con l’Imperatore, in virtù degli ordini ricevuti dal Papa; e dal momento che sarebbe stato problematico e sconveniente l’uso delle armi in questa atmosfera di discordia, Federico ricorse all’arma dell’astuzia politica. Sfruttando la sua intraprendenza, e sapendo che l’emiro di Damasco, al-Muazzam era in lotta col fratello sultano d’Egitto, Malik al-Kamil, avviò trattative con quest’ultimo. I due s’incontrarono e, unico presente il Gran Maestro teutonico Ermanno di Salza, firmarono un trattato il 18 febbraio 1229.

In effetti, Malik al-Kamil era curioso di conoscere se tutte le mirabilia che si raccontavano su Federico, in occasione del suo presunto sbarco durante la lotta intorno a Damiata, corrispondessero a realtà. E saputo che nel 1225 aveva sposato la figlia di Giovanni di Brienne, mandò un suo emissario a Palermo. Conosciuta la realtà siciliana, e soprattutto la considerazione che l’Imperatore nutriva per i musulmani e la loro civiltà, fra i due nacque una vera amicizia e si scambiavano lettere sugli argomenti più disparati, discutendo di problemi scientifici e filosofici. Furono tradotti in latino, dalle versioni arabe, vari autori greci, tra cui Aristotele, Platone e Tolomeo, ed un trattato sulla caccia che sarà poi alla base del magnifico lavoro di Federico II, "De arte venandi con avibus". Al-Kamil, venuto a conoscenza degli interessi di Federico, gli inviò esotici animali tra cui orsi, dromedari, cammelli ed un elefante. Ed essendo Federico, per eredità re di Gerusalemme, si disse ben lieto di potere offrire la corona ad una persona così illustre ed illuminata. Sennonché, quando pochi anni dopo Federico giunse effettivamente ad Acri, le cose erano un po’ cambiate perché, essendo morto Al-Muazzam, non si trattava più per al-Kamil di creare, a discapito del fratello, una zona neutrale tra l’Egitto e la Siria, ma di consegnare in regalo a Federico la città di Gerusalemme. E manifestò questo disappunto all’Imperatore che però così scrisse ad al-Kamil: "Sono tuo amico. Sei tu che mi hai incitato a questo viaggio. Ora, il Papa e tutti i re d’occidente sono al corrente della mia missione. Se ritornassi a mani vuote, perderei ogni stima. Dammi quindi Gerusalemme in modo che possa tornare a testa alta!".

Al-Kamil gli rispose: "Anch’io devo tenere conto dell’opinione pubblica. Se ti consegnassi Gerusalemme, questo potrebbe comportare non solo la mia condanna da parte del califfo, ma anche un’insurrezione religiosa che rischierebbe di portarmi via il trono".

Presto però trovarono l’accordo che, ufficialmente, salvava la faccia all’uno ed all’altro: mentre Federico faceva finta di marciare col suo esercito verso Gerusalemme, al-Kamil prospettò ai suoi una lunga e pericolosa guerra per cui sarebbe stato meglio addivenire a patti col re franco.

Si stabiliva un armistizio di dieci anni e Federico entrava in possesso di Gerusalemme, Betlemme, Nazareth ed una striscia intorno ad Acri. Il 17 marzo 1229 Federico II entrava in Gerusalemme, e poiché nella Chiesa del Santo Sepolcro a causa dell’interdetto pontificio mancava il clero che potesse benedire e officiare la cerimonia, Federico prese dall’altare la corona regia di Gerusalemme e se la pose sul capo!

Federico II aveva ottenuto ciò che voleva.

Non mancano gli episodi piccanti raccontati dai cronisti dell’epoca. Si narra che Federico abbia chiesto alla sua guida musulmana perché durante la notte non aveva sentito i muezzin chiamare i fedeli alla preghiera, come di consueto. "Sono io che ho dato ordine di non farlo per riguardo a Vostra Maestà e per non disturbare il Vostro sonno", fu la risposta della guida. Federico lo rimproverò dicendo che la loro preghiera non lo disturbava affatto, che ognuno deve professare la propria fede in base alle proprie credenze, e che il suo maggior scopo di pernottare a Gerusalemme era di sentire l’appello alla preghiera durante la notte.

Mentre visitava il tempio di Gerusalemme scoprì in un angolo un prete con in mano il Vangelo. Furioso, l’Imperatore l’apostrofò dicendo: "Cosa ti ha condotto qui? Se uno di voi torna ad entrare in questo tempio senza permesso, gli caverò gli occhi!". Il prete si allontanò di corsa tremante di paura.

Un cronista di Damasco, che aveva seguito Federico durante la sua visita, ebbe a dire che costui non era né cristiano, né musulmano ma, senza ombra di dubbio, un ateo". A conferma di questo giudizio sulla contraddittoria fede di Federico II, i cronisti medievali lo hanno definito un "musulmano battezzato", quindi né cristiano, né musulmano, né ateo: né carne né pesce, oserei dire, ma tollerante con tutti. Quindi, cristiano o musulmano, secondo l’occasione che si presentava. Cristiano e rispettoso della Chiesa quando, ricevendo la corona imperiale, giura fedeltà alla croce e si dichiara pronto per la Crociata, violento e miscredente quando, dal pulpito del Duomo di Pisa, accusa violentemente il Papa d’essere lui il vero anticristo per avergli ingiustamente comminato la scomunica, rispettosamente musulmano nei rapporti col sultano al-Kamil e la cultura araba.

Ad arte, dai predicatori e dai frati minori, che tanta influenza avevano sul popolino, erano messe in giro voci assurde pur di screditarlo. Il Villani, oltre a definirlo epicureo, racconta che un giorno s’era sparsa la voce che Federico, avesse chiuso un uomo in una botte e ve lo lasciasse morire, per dimostrare che l’anima non sopravvive al corpo. Ed ancora, che fosse giunto ad affermare che l’Eucarestia fosse "una truffa ed una buffonata", e che nel tempio di Gerusalemme avesse fatto celebrare le lodi di Maometto. Tra i capi d’accusa della scomunica che gli lanciò Gregorio IX, lo incolpava d’essere il re di pestilenza, che aveva da sé stesso rivelata la propria scellerataggine coll’empia affermazione che il mondo era stato ingannato da tre "ciurmadori" (baratores), Mosé, Cristo e Maometto. Dei quali due erano morti gloriosamente, mentre il terzo aveva avuto la brutta ventura di morire appiccicato ad una croce. A quest’eresia, il Papa ne aggiunse un’altra non meno grave, e che cioè, secondo Federico, fossero tutti pazzi coloro che stimano Gesù nato da una Vergine, perché nessuno può essere concepito se non nel carnale congiungimento d’un uomo con una donna. Né l’uomo deve credere se non quelle cose ch’egli può provare mercé la forza e la ragione della natura.

A tali esplicite accuse d’eresia, Federico scrisse una enciclica a tutti i principi e prelati d’Europa, opponendo una violenta smentita: "Alle altre favole il falso Vicario di Cristo questa pure frammischiare volle, che Noi non veneriamo come si conviene la religione di Cristo, e che abbiamo detto essere il mondo stato sedotto da tre ciurmadori. Tolga il cielo che siffatta bestemmia sia uscita mai dalle nostre labbra! Ché noi apertamente confessiamo esistere il figliolo di Dio, coetaneo e coeguale del Padre e dello Spirito Santo, Gesù Cristo, signore nostro, generato prima che il mondo fosse e poi mandato in terra per salvezza del genere umano".

Altra storia attribuita a Federico, o a Pier delle Vigne su incarico dell’Imperatore, è la leggenda dei tre impostori, descritta in un libro intitolato "De tribus impostoribus". L’intento era quello di dimostrare l’infondatezza, anzi l’impostura, delle tre religioni ebraica, maomettana e cristiana. Storia comunque del tutto falsa, sia perché tale libro non è mai esistito, sia perché tale leggenda risulta anteriore a Federico ed attribuita a suo nonno Barbarossa o addirittura ad Averroé.

In conclusione, Federico non ebbe mai la pretesa di volere immischiarsi in questioni di fede, ma voleva essere libero di pensare in libertà, come meglio gli piacesse. Anzi l’eresia era considerata da lui più grave della "lesa maestà", e prima d’allora mai i roghi erano stati accesi nel regno. Egli volle semplicemente rivendicare il ritorno alla primitiva purezza cristiana, per snidare il maligno dalla "sinagoga degli ipocriti", come appellava la curia romana. Mai tralasciò atti di devozione formale, né le pratiche del culto, ascoltando la messa e comunicandosi. Prima di morire si fece assistere dall’arcivescovo di Palermo, Berardo, vestendo persino il saio dei cistercensi.

La spedizione di Federico II in oriente sorprese il Papa recatosi in Assisi per consacrare solennemente la cattedrale di S. Rufino. L’Imperatore si era imbarcato a Brindisi per la Terra Santa senza essersi prima riconciliato con la Chiesa. Una spedizione da pirata, con scopi eminentemente politici! Per cui il Papa pregò che quell’impresa sacrilega andasse a vuoto e confermò per l’ennesima volta la scomunica. Immediatamente partirono per la Terra Santa, come messi, due frati minori per portare la notizia ai crociati, e, per fugare ogni dubbio, il testo integrale della scomunica. Federico, al suo arrivo in Terra Santa, era stato accolto dal Patriarca gerosolimitano, dal clero e dai maestri degli ordini militari, acclamato come liberatore da tutti i cristiani. Ma adesso che i due frati minori avevano portato la notizia della conferma della scomunica da parte del Papa, gli animi traboccanti di gioia si tramutarono in odio verso l’Imperatore che, con appena seicento cavalieri, era andato a liberare i luoghi santi. Narra il Golubovich che i due messi frati minori, che predicavano contro il sacrilego imperatore e lo dipingevano come il demonio in persona, furono strappati dai pulpiti, fustigati, ed uccisi: l’uno arso vivo, l’altro scorticato vivo!

Conquistando Gerusalemme senza spargere una sola goccia di sangue, quando i crociati avevano perpetrato violenze e carneficine inenarrabili, Federico si accattivò la simpatia dei musulmani. Ciò non soltanto per il fascino personale verso il sultano Malik al-Kamil, ma soprattutto per il suo tatto diplomatico e le relazioni culturali verso il mondo arabo che curava e nutriva sin da bambino, nei vicoli di Palermo. Impressionò in modo particolare la sua tolleranza religiosa, sconosciuta presso i cristiani che da secoli occupavano le terre orientali.

In Italia il Papa continuava nella sua ostilità a non volere riconoscere il titolo conquistato con tatto e politica; anzi, oltre a provocare disordini in Palestina, cominciava a sobillare i comuni italiani contro il nuovo insorgere della politica imperialista di Federico. Prima di partire per la crociata, Federico aveva nominato suo erede il figlio Enrico, ed in caso di morte di costui, l’altro figlio Corrado, violando così i suoi impegni assunti di separare la corona siciliana da quella imperiale. E, "lingua tagliente" come era, aveva inviato lettere circolari ai principi cristiani, accusando il Pontefice di sperperare i soldi della Chiesa per preparare un esercito contro di lui. Gregorio IX rispose rinnovando la scomunica contro l’Imperatore. Allora Rinaldo d’Urslingen entrò nella marca di Ancona ed in Umbria. Gregorio IX, vedendosi in pericolo, bandì una crociata ed organizzò un esercito che fu detto dei "clavisegnati", perché sulla bandiera portavano l’insegna di S. Pietro, cioè le due chiavi incrociate. Subito vi aderirono i comuni, il cardinale Giovanni Colonna, Giovanni di Brienne ed altri. Questi sconfissero Rinaldo di Urslingen che non solo perse i territori occupati, ma parte della Campania e degli Abruzzi.

A questo punto, visto che le notizie che gli giungevano dall’Italia non erano per nulla tranquillizzanti, Federico, quando già pensava di poter gustare i frutti dei suoi successi in Oriente, il 1^ maggio del 1229 dovette lasciare in fretta e furia la Palestina, portando con sé il figlio, chiamato Federico d’Antiochia, avuto nel frattempo da una nobildonna di Siria (pare sorella di Al-Kamil). Sbarcò a Brindisi il 10 giugno, e raccolto un esercito, in pochi mesi riconquistò i territori perduti. E, se da vincitore dettò al Pontefice gli estremi della pace di S Germano (23 luglio 1230), in cui si ristabiliva lo "statu quo ante", tuttavia, mirando ad ottenere la revoca della scomunica, fu alquanto accondiscendente verso il Papa. La scomunica gli fu tolta il 28 agosto 1230, e Papa ed Imperatore poterono incontrarsi ad Anagni cordialmente, come due vecchi amici di sempre! Era evidente che Federico cercava un po’ di pace per mettere ordine legislativo ed amministrativo nel regno di Sicilia, percorso da fremiti di disordini e d’anarchia.