La marcia

Nel volgere di pochi minuti si presentò ai loro occhi uno spettacolo inusitato per quei luoghi. La tranquilla e silenziosa vallata, attraversata al massimo da un cavallo da soma o da qualche contadino fischiettante di ritorno dalle campagne circostanti, sembrava popolata da migliaia di cavallette impazzite, simili a quelle che l’anno precedente avevano invaso il feudo, avevano devastato i campi e mangiato ogni tipo di coltura si parasse dinanzi ai loro occhietti acuti ed ai loro denti aguzzi. Il ronzio di quelle bestioline impazzite, improvvisamente tornò nelle orecchie di Turiddu e Ciccio, increduli nel vedere quello spettacolo di straordinaria imponenza. Simili a nuvole di cavallette che oscurano il sole, i soldati, provenienti dalla valle dei platani curvavano verso nord, seguendo la larga vallata sulla quale scorreva indolente il piccolo fiume Ued Dur, come divisi in tre tronconi: la parte di testa ordinata e composta, con la cavalleria in prima fila, quasi a proteggere un enorme pachiderma dalle sembianze d’una torre saracena che avanzava ondeggiando tra cammelli, cani da caccia al guinzaglio di cacciatori e battitori, e carri con gabbie che racchiudevano leopardi e falconi; quindi un gran numero di soldati ben armati con archi, frecce e lance; infine la parte più dimessa dell’esercito, che, si vedeva ad occhio nudo, avanzava a fatica tra carri trainati da muli, e ricolmi di soldati visibilmente feriti e malandati. Ai lati estremi si notava un andirivieni di cavalieri che portavano ordini, facevano da collegamento tra la testa e la coda dell’armata, aiutavano quanti si trovavano per qualsiasi motivo in difficoltà. Alcuni carretti trainati da muli se ne stavano ai bordi di quel torrente umano, e su questi venivano caricati in continuazione i cadaveri dei soldati che, morti a causa delle ferite o perché sfiniti, venivano accatastati senza tanti riguardi. Quando un carretto era pieno, e si vedeva perché i cadaveri sopravanzavano le sponde di carico, questo si allontanava una decina di passi e quindi scaricava i cadaveri in una piccola buca scavata per l’occasione e che alla svelta veniva ricoperta alla meglio con del terriccio. Solo una piccola croce ad indicare che lì giacevano gli eroici combattenti, morti per la gloria del loro Imperatore. Quindi i carretti e gli uomini riguadagnavano la loro postazione per ricominciare il triste rito.

Un esercito, insomma, che pur reduce da una serie di vittorie, doveva leccarsi non poche e dolorose ferite. E quel che faceva più male, soprattutto al morale di tanti poveri soldati arruolati a forza e quindi non di mestiere, sicuramente erano gli scontri fratricidi avvenuti tra paesani e quasi consanguinei, che forse solo i feroci Saraceni, nerbo e potenza dell’esercito di Federico, non potevano capire fino in fondo. Questi ultimi si contavano a migliaia, forse due, tre o cinquemila, dal contrasto che il colore scuro della pelle ed i loro turbanti variopinti facevano col giallo vivo delle ristoppie e degli arbusti circostanti. Avanzavano fieri e ordinati, sicuramente consci del loro dovere e del debito di riconoscimento che dovevano al loro capo supremo, per averli risparmiati da crudele persecuzione ed averli assoggettati ai suoi regali e divini voleri. E di loro Federico poteva fidarsi ciecamente, poiché senza il loro sostegno il suo esercito sarebbe stato un’accozzaglia di soldati allo sbando. Da buon conoscitore dell’Islam, avendo avuto un arabo come precettore sin dall’infanzia, aveva capito che sarebbe stato meglio averli come amici che come avversari. In un primo momento li aveva combattuti aspramente, ma non riuscendo né a domarli né a distruggerli, com’era sua abitudine quando intraprendeva una guerra, aveva capito che sarebbe stato meglio agire con tatto. Li aveva fatti deportare in Puglia, soprattutto a Lucera, dove, in una comunità creata tutta per loro, potevano vivere in pace, liberi di professare la propria religione e di mantenere gli usi e i costumi dei loro antenati. Lì avevano trovato una seconda patria, ed essendo per natura dei buoni combattenti, prestavano di buon grado tutti i servigi richiesti dal loro Imperatore. I Saraceni erano diventati il corpo più fedele ed agguerrito di Federico II, la colonna portante del suo tanto temuto esercito; e per riconoscenza al loro Imperatore avrebbero dato e davano volentieri la cosa più cara: la propria vita.

Turiddu e Ciccio, sempre scortati dai tre Saraceni, si accostarono all’ala sinistra del lungo corteo armato, e si inserirono tra i cavalieri Saraceni, quasi a ridosso del grosso pachiderma. Subito notarono un enorme carro trainato da parecchi cavalli dai pennacchi colorati, e circondato da una fitta schiera di cavalieri che non avrebbero permesso neppure ad una freccia di giungere su quel bersaglio. Era evidente che quel grande carro era adibito a residenza ambulante dell’Imperatore, e solo l’idea di trovarsi a pochi passi dal grande personaggio, amato e odiato allo stesso tempo da mezzo mondo, li mandava in visibilio.

"Se hai coraggio, vai dentro quel carro e porta il tuo omaggio al grande Imperatore!", disse Ciccio a Turiddu, evidentemente per prenderlo in giro. Aveva dovuto urlare per farsi sentire, tanto era il vocio che si levava verso il cielo, il rumore degli zoccoli ed i nitriti dei cavalli, lo stridio delle armature, il suono delle trombe, le cui varie tonalità e motivi indicavano ordini e messaggi diversi.

"Pensa a stare in sella, Ciccio, se non vuoi finire sotto gli zoccoli di queste bestie. A quest’ora l’Imperatore starà riposando, o facendo l’amore con qualche puttana di turno, dondolato dal lento incedere dei cavalli orientali. Lo sai cosa dicono di lui? Che sia un grande amatore e donnaiolo. E’ appena rimasto vedovo per la seconda volta, e già pensa a sposarsi con una bellissima principessa inglese; nella sua vita ha avuto tanti figli e tante amanti che nessuno riesce più a contare".

Per Ciccio restava un mistero su come facesse Turiddu ad avere tante e dettagliate notizie sull’Imperatore.

"Guarda che strani animali ci sono in quelle gabbie! In vita mia non avevo mai visto simili bestie, forse sono leoni o leopardi. E quelle voliere piene di uccelli, saranno i famosi falconi che usa per la caccia!", continuava ad esclamare Ciccio, preso da una strana euforia.

"Che pittoresco personaggio! Sembra il gestore di uno zoo ambulante, in trasferimento da una città all’altra, piuttosto che un re di ritorno da una cruenta battaglia! Elefanti e leopardi, in questa vallata, non si erano mai visti dalla creazione della terra. Vallo a capire questo siculo-tedesco! Sempre che quel beccaio di Iesi non ci abbia messo veramente lo zampino, come si sussurrava al momento della sua nascita! Ne abbiamo avuti di personaggi strani da queste parti, Francischella il tolemaico, Filidda il bizzarro, Paramintaru il matto, Biggiacciu l’avvocato, e gli ingegnosi fratelli Federicu e Caliddu: ne mancava soltanto uno che raggruppasse tutte le peculiarità di questi filosofi e inventori, ed eccolo qui, dentro quel carro! Non vedo l’ora di vederlo in faccia per capire a chi dei nostri personaggi assomiglia", mormorava Turiddu all’amico, o forse a sé stesso, dal momento che il frastuono che li circondava rendeva impossibile qualsiasi colloquio.

I due amici non finivano di stupirsi. Adesso che si erano inseriti nella truppa erano più tranquilli rispetto a poco prima, al momento dell’incontro coi tre Saraceni. E, ormai che viaggiavano da circa due ore ai loro fianchi, non provavano più la forte emozione avuta nel primo impatto. Anzi si sentivano più sicuri e protetti da eventuali nemici. I Saraceni cavalcavano fieri e alteri nei loro costumi orientali, mostrando simpatia e benevolenza nei confronti dei due siciliani. In più d’una occasione avevano offerto loro da bere ma, a dire il vero, Ciccio e Turiddu avevano rifiutato con cortesia; non per disprezzo o perché schifati all’idea di poggiare il proprio muso su una borraccia stropicciata poco prima dai mustacchi di un saraceno, ma perché, essendo iniziata solo da poche ore la loro avventura, avevano ancora acqua e vettovaglie a sufficienza.

La cavalcata continuava ormai da parecchie ore, e Turiddu e Ciccio, abituati al massimo a qualche sporadica galoppata, cominciavano a sentire la fatica di stare in sella senza la possibilità di fare una sosta. Turiddu di tanto in tanto apriva un sacco appeso lateralmente al proprio cavallo, tastava delicatamente qualcosa che si trovava all’interno, richiudeva con cura il sacco con un pezzo di spago. Ciccio osservava con discrezione, incuriosito di quale tesoro Turiddu vi custodisse all’interno, ma dal momento che il compare non gliene aveva fatto cenno, si guardava bene dal chiedere di che si trattasse, anche se i suoi sospetti erano diventati quasi certezza. Conoscendo bene Turiddu, sapeva di quali risorse e inventive era dotato, perciò fece finta di non avere carpito il suo segreto. Del resto anche Ciccio custodiva molto bene il suo.

"Compare, questi sono capaci di marciare fino a Palermo senza fermarsi un istante! Credo di avere il culo arrossato come quello d’una scimmia", disse Ciccio a Turiddu.

"Di questo passo arriviamo fino a Milano, altro che Palermo!", sentenziò Turiddu, "Ed io, sono conciato peggio di te! Ricordi quando, scivolando da un albero, atterrai su un ballone di fico d’India? Allora ci vollero tre giorni per estrarre le spine una ad una, e rimettere in sesto il mio malandato sedere!".

Stavolta, però, furono smentiti dai fatti, perché dopo pochi minuti si udì il suono d’una tromba ed i cavalieri di scorta che facevano segno di rallentare e di fermarsi per una sosta. Ci volle del tempo, ma alla fine l’esercito pose fine alla sua avanzata. I cavalieri saltarono a terra e si dettero da fare per procurare acqua ed erba fresca ai cavalli, mentre i soldati, esausti per la lunga marcia, si lasciarono cadere a terra, per un meritato riposo. I carri carichi di vettovaglie cominciarono a fare la spola da una parte all’altra del lungo accampamento, per sfamare quanti avevano bisogno di cibo ed acqua. In breve tempo, ad opera dei Saraceni, venne innalzata una grande tenda bianca, segno che anche l’Imperatore intendeva abbandonare provvisoriamente il suo carro per sgranchire le proprie gambe e per tenere consiglio coi suoi subalterni. Tutta la vallata risuonò dei canti dei rumorosi e bellicosi occupanti, mentre furono accesi un’infinità di piccoli fuochi che mandavano al cielo bianchi pennacchi di fumo.

Era metà pomeriggio. Ciccio e Turiddu si trovavano ancora in un territorio a loro familiare, dal momento che in lontananza potevano appena scorgere l’imponente rocca di Sutera arrossata dal sole, sicuro punto di riferimento nei loro spostamenti. Liberati i cavalli della sella e di quanto si erano portato appresso, li legarono ad un cespuglio e sedettero per terra assieme ai Saraceni, nuovi compagni di ventura, per consumare il primo pasto da soldati di sua maestà l’Imperatore: pane ancora fresco, formaggio e olive, ed una borraccia di buon vino rosso delle loro contrade. I Saraceni parlavano una lingua molto strana alle orecchie dei due compari, un misto d’arabo e qualche parola siciliana; ma non fu difficile intendersi, dal momento che, quando non bastava la parola, i gesti e le espressioni del viso completavano il discorso fino ai minimi particolari. Ed in quest’arte, non si capiva se erano gli arabi a fare da maestri o i siciliani a dare lezione agli arabi. Non dovevano del resto intavolare discorsi filosofici né disquisire di politica o di arte militare, ma intendersi alla meglio sulle necessità contingenti del momento. E tanto bastava per familiarizzare ed accomunarli alla nuova pericolosa avventura intrapresa.

Avevano finito di bere l’ultimo sorso di vino, quando in quella gran confusione mastro Ciccio e mastro Turiddu udirono gridare ad alta voce il proprio nome. Si girarono meravigliati, e riconobbero il saraceno capo scorta col quale avevano discusso sul greto del piccolo fiume.

"Siamo noi!", risposero insieme, facendo cenno con la mano all’indirizzo del saraceno, quasi turbati d’essere già conosciuti in mezzo a migliaia di altri soldati.

"Manco fossimo Don Tatà Lima!", esclamò Turiddu verso Ciccio, che esplose in una sonora risata.

"Alzatevi e venite con me!", disse perentorio il cavaliere, indicando il punto dove dovevano dirigersi. Non c’era ombra di dubbio che la direzione era quella della grande tenda bianca!

Si alzarono di scatto, si rassettarono alla meglio i vestiti, e facendosi il segno della croce, come per dire: "Che Dio ce la mandi buona!", seguirono il capo saraceno verso la tenda imperiale.

"Non fare scherzi com’è tuo solito!", disse Ciccio a Turiddu. "Stavolta ne va di mezzo la nostra pelle".

"Non temere, Ciccio, anch’io tengo alla mia testa", gli rispose Turiddu, sicuro del fatto suo.

Avvicinandosi alla tenda, la folta schiera di Saraceni si aprì per dare modo al cavaliere e ai due compari di avanzare. Due soldati, armati fino ai denti, si frapposero al loro passaggio, ma una voce perentoria ordinò di lasciarli entrare. Il cavaliere che li aveva scortati si fermò all’esterno, e i due furono liberi di varcare la soglia del tendone.

"Maestà!", esclamarono i due, piegando la testa fino quasi a toccare la terra, restando immobili come salami al cospetto di quello che ai loro occhi sembrò l’Imperatore in persona. E non c’era ombra di dubbio che quella figura altera fosse l’Imperatore.

Se ne stava assiso su una grande poltrona al centro della tenda piena di luce, con ai lati, come a formare un semicerchio, una decina di persone variamente vestite, e sedute anche loro su piccoli scranni. L’Imperatore era un bell’uomo di circa trentacinque anni, ben formato, di media statura e rossiccio di capelli. Indossava una leggera tunica bianca e se ne stava con le braccia poggiate sui braccioli della poltrona, quasi con aria interrogativa e curiosa: e non ne fece mistero.

"Comodi, alzatevi! Sentiamo cos’hanno da dirci questi due mastri siciliani!", esclamò con aria tra il serio ed il canzonatorio, in perfetto siciliano.

Ciccio e Turiddu lasciarono la scomoda posizione assunta al loro ingresso e, guardandosi per un attimo, lessero nei loro occhi tutto lo sgomento che può provare un bambino sgridato dal maestro il primo giorno di scuola. E, come se un nodo ostruisse la loro gola, non furono capaci di profferire parola.

"Parlate, mastro Turiddu, non abbiate timore!", lo rincuorò l’Imperatore. "Siamo tutti curiosi di sentire cosa avete da raccontarci".

"Abbiamo sentito l’eco delle Vostre imprese persino nel nostro piccolo feudo, maestà, ed abbiamo deciso di seguirvi", balbettò Turiddu col cuore che batteva a mille.

"Bene! Bene!", gli rispose l’Imperatore, "Siamo contenti della vostra decisione. Abbiamo bisogno di gente come voi per mettere ordine nel nostro regno. Ma abbiamo anche saputo che siete degli abili cacciatori, e ciò ci riempie d’orgoglio, perché, come sapete, anche noi ci dilettiamo di caccia. Diteci: che tipo di caccia si pratica da queste parti?".

Messisi a loro agio, dopo che un inserviente aveva offerto loro una cannata ricolma di vino, cominciarono a raccontare di lunghe battute di caccia, di pernici e conigli, delle trappole che erano capaci di preparare, dell’uso del furetto e dei richiami per gli uccelli, delle abitudini e dei trucchi tramandati di padre in figlio. L’Imperatore ascoltava con attenzione ed interesse quanto Ciccio e Turiddu andavano raccontando con foga e cognizione, e sembrava che mentalmente prendesse nota di quanto udiva dalle loro labbra. Chi meglio di lui poteva capire ed infervorarsi per quegli argomenti? Lui, l’autore del "De arte venandi cum avibus", quel manuale sull’arte della caccia, riccamente illustrato di tutte le specie di volatili, delle loro abitudini e del modo di catturarli per mezzo di un falcone debitamente ammaestrato? Ne nacque una discussione animata, l’Imperatore faceva osservazioni e domande, e i due rispondevano in base alle loro conoscenze; mentre le persone del seguito annuivano con sorrisi, e si complimentavano con l’Imperatore per le sue acute deduzioni.

"Maestà!", disse ad un certo punto Turiddu, rincuorato e soddisfatto per avere avuto l’onore e l’ardire di parlare con la persona più potente del mondo. "Avremmo un piccolo omaggio che spero vorrete gradire".

Turiddu e Ciccio ebbero il permesso d’uscire dalla tenda, e, scortati dal solito saraceno, corsero al loro accampamento, tornando come fulmini dall’Imperatore. Riammessi al suo cospetto, ebbero l’autorizzazione ad aprire il sacco ed a mostrare l’omaggio in questione.

A quella vista, l’Imperatore, incredulo ed emozionato, sgranò gli occhi e corse incontro a Turiddu che, inchinandosi al suo cospetto, teneva tra le mani due stupendi esemplari svolazzanti di pernice.

"Sono due pernici capisbardi, maestà! Le abbiamo catturate alcuni giorni prima della partenza, ed abbiamo subito pensato che sarebbe stato un dono gradito a Voi che siete un grande intenditore di volatili", commentò Turiddu con enfasi, non appena capì d’avere fatto colpo.

"Stupende, superbe! Voi volgarmente le chiamate pernici, ma fanno parte della famiglia dei "caccabis saxatilis" o "alectoris graeca", una varietà di coturnice che vive in Sicilia. Mai visti due esemplari così giovani, forti e belli! Sarebbero capaci di campare vent’anni!", continuava a commentare l’Imperatore, estasiato a quella vista, scrutandoli con occhi indagatori mentre li accarezzava, e controllava la parte intorno all’occhio priva di peli, che danno a quegli animali un aspetto particolare. Ne esaminava il collare nero, il petto senza macchie, il becco e le gambe, il sesso, le dimensioni delle ali, il colore delle penne.

"Le abbiamo battezzate Ciccu e Nina, maestà. Nel nostro villaggio, Ciccu e Ninu sono le due campane dell’orologio della chiesa madre che battono le ore ed i minuti; le due bestiole cominciavano a cantare non appena sentivano i rintocchi di Ciccu e Ninu. Abbiamo dovuto cambiare nome alla seconda dal momento che è una femmina", spiegò accoratamente Turiddu, con un sorriso.

"Abili cacciatori e pure fantasiosi! Siete stati molto bravi a catturarle, perché é necessario avere un’abilità tutta particolare e doti non comuni. Mi saranno molto utili per aggiornare il mio libro sull’arte della caccia. Questi capisbardi, come li chiamate voi, anzi Ciccu e Nina, sono i più sensibili del gruppo ed i primi, al minimo pericolo, a dare l’ordine di volo ai compagni dello stormo. Le pernici amano camminare e correre sul terreno accidentato più che volare, perché sono molto indolenti. Hanno un volo disordinato, fanno un gran chiasso alla partenza perché sbattono fortemente le ali per alzarsi e poi planare dolcemente, con molta eleganza", finì col commentare l’Imperatore, mentre continuava ad ammirare quei due superbi animali.

"Proprio così, maestà! Se il gruppo è numeroso, dieci o quindici, il loro rumore sembra un terremoto. Quando andiamo a caccia di pernici, un nostro amico si lascia sempre prendere dal panico e si tappa le orecchie dalla paura", rispose Turiddu, suscitando l’ilarità dell’Imperatore.

"Anch’io avrei un piccolo omaggio per Voi, maestà!", disse Ciccio, che non voleva essere da meno del compare. E così dicendo, estrasse un furetto da un paniere di vimini, e lo mostrò all’Imperatore.

"Delizioso! Che denti aguzzi! Sembra una donnola", commentò. "Se avessi avuto tempo a disposizione avrei gradito partecipare ad una battuta di caccia alla lepre ed al coniglio, che da queste parti sono molto abbondanti. Ma adesso abbiamo altro a cui pensare".

L’Imperatore ordinò che portassero subito una voliera per le due coturnici, e fece rinchiudere il furetto nel paniere di vimini, in attesa di una sistemazione adeguata. "Siete due mastri intelligenti ed intraprendenti! Se volete restare al mio seguito, farete parte degli uomini di custodia del mio serraglio. Anzi, che siano nominati falconieri imperiali! Sia data loro una buona ricompensa ed una paga congrua alla loro bravura!", sentenziò rivolto allo scrivano del seguito.

Dopo la chiacchierata coi due mastri di Balatazza, l’Imperatore era diventato molto euforico, e nei suoi occhi si poteva leggere un certo senso di contentezza e di soddisfazione. Parlare di caccia, di falchi e pernici con persone competenti, per lui era più interessante che discutere dei piani di una battaglia. Insieme al Papa ed alle donne, la caccia era per l’Imperatore il problema dominante della sua esistenza, che anzi richiedeva più passione ed attenzione di tutto il resto. Del Papa conosceva la pericolosità per l’attaccamento al potere temporale, delle donne la furbizia, ma la caccia era una continua appassionante avventura, piena d’insidie d’ogni genere, traboccante di emozioni, per cui era necessario inventare sempre nuovi stratagemmi e far fronte a nuove situazioni.

"Ai vostri ordini, maestà!", esclamarono increduli Turiddu e Ciccio, che, lasciata la tenda imperiale, dopo profondi inchini, si trasferirono sul carro adibito a serraglio del grande Imperatore, per diventare domatori di belve feroci e custodi dei segreti delle attività venatorie del loro sovrano.

All’ordine di nominarli falconieri imperiali, un saraceno del seguito, un certo Abdul, sistemato all’estrema destra del semicerchio e che teneva al guinzaglio un focoso mastino, aggrottò le ciglia e fece una piccola smorfia di disappunto. Quei due, appena giunti al seguito del loro sovrano, ricevevano una nomina sul campo, senza avere una minima cognizione di cosa significasse la parola falconiere, mentre lui aveva dovuto sudare mesi e mesi di addestramento per meritare lo stesso titolo. E la benda che portava sull’occhio destro, che gli conferiva un’aria sinistra, era una riprova di quanto fosse pericolosa l’arte di addestrare i falchi per la caccia. Per quei due contadini, invece, erano bastate due misere pernici per entrare nelle grazie e nelle simpatie dell’Imperatore. Gli furono subito antipatici, e già meditava su come sbarazzarsi della loro ingombrante e fastidiosa presenza. Sarebbe stato sufficiente sguinzagliare il suo mastino, inscenando un incidente, per liberarsi di quei due goffi contadinotti siciliani e delle due pernici, per eliminare ogni concorrenza. Non restava che attendere il momento propizio.