DUE PERNICI
                      per

    SUA MAESTA’

FEDERICO II

UN DOTTO IMPERATORE MEDIEVALE

   Puer Apuliae e Martello del mondo
   Vir inquisitor et sapentiae amator

 

PRESENTAZIONE

Federico II di Svevia, uomo eclettico e versatile in ogni scienza della sua epoca, non ha certo bisogno di presentazione. Per lunghi anni però, addirittura per secoli, la sua memoria e le sue gesta sono rimaste sepolte sotto uno strato di polvere impenetrabile, e solo da pochi anni, in occasione dell’ottavo centenario della sua nascita, si è tornato a parlare e a favoleggiare delle sue imprese e della sua pesante eredità lasciata agli italiani. Abbandonato con "le pezze al culo", dal suo tutore Papa Innocenzo III, e lasciato languire nei bassifondi di una Palermo piena di intrighi, di avventurieri e di pretendenti al trono, seppe con la sola forza della sua volontà, della sua intelligenza e di una spiccata perspicacia, emergere dal torpore orientale della bella capitale dell’Isola, e sfidare l’arroganza dei principi, gli anatemi papali, la lega dei Comuni del nord, i potenti feudatari tedeschi. Nessuno è in grado di stabilire, se non con interessate illazioni, quali fossero i suoi propositi circa l’unificazione in un solo Stato delle regioni d’Italia, di formare cioè una vera Nazione come la intendiamo adesso. Di certo avrebbe voluto costruire un grande impero, dalla Sicilia alla Germania, se i Comuni ed in particolare lo Stato Pontificio, che si rivolse ai D’Angiò per annientare l’eredità di Federico, non avessero ostacolato i suoi piani. Ed in questo suo lottare contro i coriacei Comuni, che volevano mantenere la propria indipendenza, e contro il potere temporale dei Papi, la politica clericale e la storia risorgimentale hanno ravvisato nel comportamento di Federico II, che potremmo definire "italo-tedesco-normanno", un nemico, un antagonista che andava oscurato, mentre contemporaneamente lo Stato tedesco, per gli opposti motivi, ne faceva a ragione un mito.

Ho dinanzi agli occhi la scena, quando scolari, il mio maestro Alfano organizzava in classe la recita della poesia sulla battaglia di Pontida: "L’han giurato! Li ho visti in Pontida, …". La nostra fantasia andava indietro nei secoli lasciando impressa nella mente la feroce figura del Barbarossa, che turbava i sonni di noi bambini, e neppure una parola sul nipote Federico, artefice di tante imprese in quel memorabile tredicesimo secolo che s’avvia a chiudere un esaltante Medioevo, per tanto tempo considerato oscurantista. Veniva esaltato e consacrato ai posteri il "mostro", artefice soltanto della distruzione di Milano, ed invece oscurato "il genio", l’iniziatore della scuola poetica siciliana, il creatore delle "Costituzioni melfitane" e dell’Università di Napoli, il "musulmano battezzato" che mandò in bestia i Papi di mezzo secolo per la sua tolleranza in fatto di professione religiosa.

E con orgoglio il grande imperatore ebbe a dire: "Si regnum meun Siciliae vidisset Deus Palestinam non elegisset!", "Se Dio avesse visto il mio regno di Sicilia, non avrebbe scelto la Palestina!".

Ma, al contrario del sanguinario padre Enrico VI e del feroce nonno Barbarossa, Federico II va ricordato come uomo politico e statista, uomo di scienza indagatore della natura, letterato, poeta e mecenate, come uomo rispettoso della fede e del pensiero altrui (perciò bollato come ateo dai Papi), legislatore, condottiero e combattente, capace di sguainare la spada e scendere in campo a fianco dei suoi soldati. Certo anche violento ed irascibile (si racconta l’episodio in cui un suddito, pentito di una malefatta e prostrato ai suoi piedi a chiedere perdono, sia stato investito da una violenta pedata al basso ventre), di "lingua tagliente" (capace di salire su un pulpito e rinfacciare le malefatte al Papa che lo scomunica senza alcun plausibile motivo), minaccioso e vendicativo contro il suo migliore amico Pier delle Vigne, per motivi che ancora oggi restano misteriosi. Ma sicuramente i suoi meriti sopravanzano le sue debolezze, anche se il Sommo Poeta lo precipita nell’Inferno tra gli epicurei.

Federico fu soprattutto orgoglioso! Convocato a Lione da Innocenzo IV per discolparsi da "colpe" inesistenti, avrebbe potuto benissimo ubbidire e liberarsi della scomunica che pendeva sul suo capo, salvando così il regno. Ma l’idea di ritrovarsi sul collo il piede del Papa, come era successo a suo nonno Barbarossa, lo distolse da un simile proposito.

La seguente storia, forse un po’ fantastica e colorita, è infatti affrescata sulla parete della sala grande del consiglio di Venezia. Nel 1177 Federico Barbarossa fu condotto a Venezia dal Doge Ziani per incontrare il Papa. Secondo quello che raccontano i cronisti dell’epoca (evidentemente di fede clericale), Federico Barbarossa, come da consuetudine, toltasi dalle spalle la porpora imperiale, la stese per terra e quindi prostrandosi si curvò nell’atteggiamento di baciare il piede a Papa Alessandro III. Ma questi ponendoglielo sul collo, come fosse una serpe, esclamò: "Super aspidem et basiliscum ambulavi, etc..". A quelle parole il Barbarossa rispose: "Non tibi, sed Petro". E di risposta il Papa: "Ego sum vicarius Petri".

Nel narrare la favolosa storia di Federico II, ho messo alle calcagna dell’Imperatore due contadinotti siciliani, Ciccio e Turiddu che, amanti della caccia come il loro signore, in una fantasiosa galoppata mista di presente e passato, lo seguono nelle sue imprese per l’Italia e discutono amabilmente, ed alla pari, di falconi, pernici e coturnici. L’amore viscerale per la scoperta e lo studio della natura e la pratica della caccia col falcone, saranno per l’Imperatore la sua rovina; a Victoria, infatti, gli faranno perdere tutto: scettro, corona, ogni avere, e (peccato per noi!) il favoloso trattato di falconeria, "De arte venandi cum avibus", rischiando perfino la sua stessa vita.

La lunga odissea dei due compari si concluderà nella Cattedrale di Palermo, dove le due benedette pernici (o coturnici, come spiega l’Imperatore) che si sono portate appresso nel lungo girovagare per l’Italia, a modo loro, renderanno omaggio al "batacchio del mondo", uno dei tanti epiteti attribuiti al "carusu della vuccirìa", divenuto, a dispetto di tanti, signore del mondo.