Ritorno a Palermo

Passarono ancora alcuni giorni, quindi si accodarono ad un piccolo drappello che si dirigeva verso sud, per fare finalmente ritorno alle loro case di Balatazza.

Ciccio e Turiddu vagabondarono per l’Italia meridionale prima di mettere piede in Sicilia. Il piccolo esercito di Saraceni giunse a Lucera a primavera inoltrata, e lì rimasero a lungo i due compari, su insistenza di Abdul che, ripresosi in un primo momento dai malanni causati dalla brutta ferita, adesso versava in fin di vita. L’antipatia che, a prima vista, s’era scatenata tra il saraceno e i due compari, lentamente s’era trasformata in sincera amicizia, al punto da diventare inseparabili in tanti anni di avventure e di pericoli. Ciccio e Turiddu piansero la fine di Abdul, amorevolmente assistito da tutta la comunità saracena di Lucera. Nessun impedimento ormai tratteneva i due dal proseguire il lungo viaggio di ritorno. Decisero quindi di dirigersi direttamente a Balatazza. Salirono mestamente sui loro cavalli, con quelle benedette pernici dentro il solito sacco, e iniziarono un viaggio, sicuro perché in terra amica, ma pieno di ostacoli e difficoltà per il tortuoso percorso. Dopo alcuni mesi, presentandosi davanti lo stretto, si sentivano ormai quasi a casa. E dal momento che s’apprestavano le feste del S. Natale, erano doppiamente felici di fare ritorno nelle loro famiglie, per festeggiare coi propri cari la nascita del bambino con novene e canti. Ma chi avrebbero trovato dopo tanti anni di lontananza? Non certamente i loro genitori, già vecchi e malandati al momento della loro partenza per la lunga avventura. Turiddu, pazzo di Rosalia, l’aveva pensata e ricordata a lungo, i primi tempi. Poi lentamente il suo ricordo era andato scemando, fino a dimenticarla quasi completamente. Adesso, la percezione dell’aria di casa, la vista del grande vulcano, l’odore delle zagare che già percepivano al di là dello stretto, riportavano alla sua mente antichi ricordi sopiti col passare degli anni.

Avevano appena messo piede sul suolo siciliano, traghettati da un malsicuro barcone, quando una triste notizia, che ormai correva di bocca in bocca da alcuni giorni, giunse alle loro orecchie. Furono assaliti da una tristezza mortale e, prostrati da uno sconforto profondo e viscerale, piansero a lungo il loro Imperatore, andato a morire in mezzo a quei saraceni che per decenni lo avevano seguito ed avevano combattuto per la sua causa con fedeltà e dedizione totale. Avessero sostato ancora qualche mese nel paese di Abdul, avrebbero almeno potuto salutare il mito che per cinquant’anni, fidando soltanto nelle proprie forze, aveva osato lottare contro ogni avversità per dare all’Italia, dalla Sicilia alle Alpi, una fisionomia di nazione. E lì rimasero, in attesa che giungessero i suoi resti mortali diretti nella sua amata Palermo.

L’attesa dell’arrivo delle spoglie dell’Imperatore durò parecchi giorni. Il corteo partì per la Sicilia il 28 dello stesso mese, si fermò per l’estremo saluto nella sala del trono del castello di Gioia del Colle, quindi proseguì per Taranto, da dove salpò una nave diretta a Patti. Qui approdò il 13 gennaio 1251(?), e si ricompose per l’ultimo breve tratto che lo separava dalla capitale dell’Isola. Un lungo corteo, quasi una processione, in cui spiccavano i più intimi amici di Federico, il giovane Manfredi, l'eterno e fedele amico arcivescovo Berardo, i cavalieri teutonici, i dignitari di corte. I saraceni, scalzi e salmodianti che spiegavano le nere aquile imperiali, portavano a spalla il feretro reale, a piedi, gli occhi velati di sincere lacrime. Ciccio e Turiddu si accodarono commossi, e scortarono fino a destinazione il loro capo, il loro eroe di tante battaglie, il grande esperto di caccia e falconeria.

Finalmente il corteo s’arrestò nella Cattedrale di Palermo: era il 25 febbraio 1251. Per l’Imperatore era giunto il tanto agognato momento della vera e definitiva pace, negatagli fino allora dalla chiesa e dalla lega. Mani pietose depositarono il corpo imbalsamato dell’Imperatore nel maestoso e sontuoso sarcofago di porfido rosso, tra la madre Costanza, il padre Enrico VI, il nonno Ruggero II.

Ciccio e Turiddu s’avvicinarono per l’ultimo saluto. Sulla testa, che poggiava sopra un cuscino di cuoio, videro una corona ornata di perle e pietre preziose, mentre una tunica riccamente lavorata, che lasciava intravedere una croce di seta ricamata, copriva il suo corpo. Sul lato sinistro poggiava il globo imperiale e la spada col manico di legno avvolto da sottili fili d’argento. Le mani, incrociate, poggiavano sul ventre, e in un dito della mano destra risaltava un anello d’oro con smeraldo. Infine calze e stivaletti di seta, ornati da un ricamo che richiamava un cerbiatto.

Furono attimi di sincera commozione. I due compari si ricordarono dell’ultimo desiderio che l’Imperatore aveva loro manifestato prima del congedo da Cremona. Turiddu depose a terra il sacco con le due pernici e lo aprì lasciandole finalmente libere di volare; queste, stanche di tanti anni di cattività, si librarono festanti nell’aria con violenti battiti di ali, volteggiarono tra le colonne della maestosa cattedrale, infine planarono andandosi ad accoccolare sul bordo dell’urna dove giaceva, maestoso, l’Imperatore Federico II. A modo loro salutavano e ringraziavano colui che, avendole salvate dai potenti artigli dei suoi falconi, aveva decretato che fossero lasciate libere di vivere il più a lungo possibile, nella sua e nella loro terra di Sicilia.

F I N E