Verso Palermo

L’indomani, di buon’ora, levata la tenda imperiale, l’esercito riprese la marcia verso la capitale dell’Isola. La sosta era servita per rifocillare i soldati, stanchi per la battaglia del giorno precedente contro la rocca di Centorbi, e per rimettere in sesto quanti, feriti e malandati, non avrebbero retto lo stress di un lungo viaggio di trasferimento. I feriti più gravi, e quindi non in grado di proseguire la marcia, sistemati sui carri, erano stati trasportati nei paesi vicini, per essere affidati alle cure della popolazione. I carri erano tornati all’accampamento carichi di vettovaglie, depredate alla miseria dei contadini, e di fresche forze che, volenti o nolenti, erano state reclutate dai soldati Saraceni di Federico. Erano le leggi della guerra, e dal momento che l’esercito non poteva fermarsi, né i feriti, né la mancanza di cibo, potevano essere d’intralcio al suo cammino.

L’Imperatore, sul suo cavallo arabo, avanzava maestoso in testa all’esercito, seguito dal solito imponente elefante e dal suo serraglio, che costituivano l’esotico corteo. Seguivano i suoi luogotenenti ed i consiglieri, quindi i cavalieri Saraceni con alle loro spalle il resto dell’esercito. In testa a tutti, una schiera di cavalieri apriva la strada all’armata, e controllava che non si frapponessero ostacoli all’avanzata. Ancora poche ore di marcia, e sarebbe apparsa in lontananza la caratteristica sagoma del monte Pellegrino.

Ciccio e Turiddu avevano avuto difficoltà a prendere sonno, dopo le fatiche della giornata e soprattutto dopo l’emozionante incontro con l’Imperatore. La fresca nomina a falconieri imperiali li riempiva d’orgoglio, e li poneva sopra un piedistallo particolare, in grado di osservare più da vicino cosa significava vivere a corte. Sistemati alla meglio su uno dei carri del serraglio, erano stati svegliati dai rumorosi preparativi della partenza alle prime luci dell’alba. Si erano subito dati da fare per onorare il nuovo titolo di falconieri imperiali, pulendo le gabbie degli animali e dando loro da mangiare. Manco a dirlo, riservarono coccole particolari a Ciccu e Nina, le loro due pernici, o coturnici come aveva detto l’Imperatore, alle quali andava tutto il merito del loro successo del giorno precedente. Guardandosi negli occhi, come fanno due cacciatori in difficoltà durante un’azione di caccia, si trasmisero in silenzio ciò che pensavano, e cioè che la loro vita era appesa ad un filo, rappresentato nientemeno che dalla vita di Ciccu e Nina. Agli occhi dell’Imperatore esistevano ed erano tenuti in considerazione solo perché proprietari dei due magnifici uccelli, ed a loro erano dirette le scintille degli occhi infuocati di Abdul. La morte delle due pernici avrebbe decretato la loro fine, avrebbero perso ogni ascendente ed ogni considerazione a corte.

Quello di falconiere era un titolo ambito presso la corte di Federico II, dal momento che i falconieri dovevano occuparsi e tenere in ottimo stato gli animali del serraglio, ed in particolare curare ed addestrare i falchi per la caccia, svago preferito oltre ogni misura dall’Imperatore. Perciò il falconiere era libero di muoversi negli ambienti del palazzo e di chiedere udienza a sua maestà, sicuro di ottenerla senza particolari difficoltà, dal momento che, tra questi e l’Imperatore, i contatti erano abbastanza frequenti e s’instaurava una particolare simpatia e familiarità, come spesso avviene tra cacciatori. Durante una battuta, i cacciatori partecipano emotivamente ad ogni fase della cattura della preda e condividono le ansie ed i pericoli insiti in ogni azione. E l’importanza che Federico dava alla caccia ed ai suoi uccelli rapaci ben addestrati allo scopo, lo dimostrava il fatto che poteva privarsi persino del suo esercito, come successo in tante occasioni, ma non dei suoi strumenti di caccia.

Oramai la sagoma allungata ed irregolare del monte Pellegrino appariva in tutta la sua imponenza, e sovrastava la città di Palermo e tutta l’immensa piana. Illuminato dai raggi solari del tardo pomeriggio, per chi proveniva da sud, sembrava un grande mostro posto lì a protezione delle case della città, sparse ai suoi piedi. L’esercito si fermò nei pressi delle mura, dove pose l’accampamento, mentre Federico, col suo seguito di guardie e serraglio, si preparò ad avanzare verso la porta principale della capitale del regno. Solo una breve discesa lo separava dal castello di suo nonno Ruggero, e da quella piccola altura poteva scorgere ogni particolare della città che era stata la culla della sua infanzia, e che l’aveva visto crescere tra mille difficoltà e peripezie, orfano del padre Enrico VI e della madre Costanza. Si fermò un attimo, attonito e pensieroso a quella vista, quasi a volere meditare e riepilogare i suoi quarant’anni di vita, passati tra pericolose avventure militari dalla Sicilia alla Germania, costellati da lotte ed infinite diatribe coi Papi che avevano segnato e condizionato la sua azione politica, ma esaltanti per gli ordinamenti che aveva saputo dare al suo regno e per la cultura, l’arte, le scienze, di cui era impregnato ogni angolo della sua terra. Ma soprattutto preoccupato per quanto ancora restava da fare per rendere stabile, incisiva e duratura la sua opera. E la sua azione di violenta rappresaglia, da cui era reduce, contro le città della Sicilia orientale, che avevano osato ribellarsi alla sua autorità, ne era la prova più evidente! Quanta strada aveva ancora da percorrere, quanta fatica e quanti pericoli per coronare il suo sogno (se questo era il suo sogno), di ricongiungere il nord al sud, dalla Germania, terra di suo nonno il Barbarossa, alla Sicilia, regno di suo nonno Ruggero il normanno, passando attraverso lo Stato Pontificio! Questo era il grande e vero problema di difficile soluzione: calpestare lo Stato Pontificio significava passare sul corpo del Papa, coriaceo ed insensibile ad una soluzione politica che lo vedesse estromesso dal potere temporale, da sempre prerogativa al potere spirituale. Potere temporale, anche oltre lo stesso Stato pontificio, come Sicilia e Sardegna, significava abbondanti introiti monetari, diritto di nomina dei rappresentanti e dei legati, e perché no?, comando "sic et simpliciter!". E ogni volta che Federico aveva osato scavalcare la sua autorità, era stato colpito da diffide e scomuniche spesso arbitrarie, che non l’avevano scalfito più di tanto, anche se avevano lasciato qualche segno nel suo animo di buon cristiano, come andava dichiarando ma non dimostrando, in verità. Da quella piccola altura guardava assorto la sua città, e meditava sul suo passato e su ciò che gli avrebbero riservato gli astri, alla cui influenza dava molto credito.

Fermò dunque il suo sguardo verso l’orizzonte, e …..