IL VICOLO DELLE ROSE

Il vicolo delle rose era situato quasi al centro del piccolo paese; prendeva il nome dalla serie di vasi che da sempre, a memoria dei più anziani del luogo, inondavano di rose i due muretti che facevano da ingresso al caratteristico cortile. Anche il piccolo astraco, posto al centro del cortile e sostenuto da due colonne squadrate, era colmo di vasi seminati a fiori, una grande giarra di terracotta alzava al cielo una piccola palma africana, mentre due cactus che spuntavano da altrettanti muzzuna, una specie di quartara dalla bocca larga, facevano da contorno alla ringhiera in ferro battuto, messi lì quasi a protezione della casa. Persino la piccola scala esterna, composta da una decina di scalini, era costellata di vasetti dalle fogge strane, piccoli tegami caduti in disuso o pentole che non valeva più la pena riparare. Da un’occhiata attenta, infatti, si capiva, dalle numerose toppe e dalle evidenti saldature, che quei tegami erano stati martoriati, e non poco, dal mastro ferraio nel tentativo di farle durare il più a lungo possibile per l’uso originario. Adesso, degradate ad essere riempite di terra piuttosto che di pasta e verdura, stavano lì a ricordare come il tempo passasse inesorabile e come anche le stoviglie potessero raccontare della loro gioventù, del loro matrimonio, della nascita dei loro figli, ormai adulti.

"Ricordi quella pentola posta sul primo gradino? Ce l’ha regalata zia Peppina in occasione delle nozze; e quanto latte abbiamo scaldato ai nostri bambini in quel tegamino posto più in basso, dove adesso spunta quella piccola margherita!", ricordava Carmela con commozione.

Michele annuiva mostrando indifferenza, ma in cuor suo quei ricordi lo toccavano forse più di Carmela.

Da ogni vaso spuntavano fiori e foglie verdi. Una piccola oasi, in quel deserto di case scarne e disadorne, curata da una padrona assidua e meticolosa: comare Carmela, detta la fioraia.

Oltre alle rose ed ai fiori dai colori delicati, di una pianta andava orgogliosa Carmela; una bellissima agave che, andava dicendo alle amiche, stava lì a protezione della casa. Era stata piantata in un bel vaso di terracotta, una saimera di colore azzurro, e posta nella parte alta del terrazzo per essere vista ed ammirata da chi passasse. Le sue belle foglie verdi e carnose, lunghe e spinose, si aprivano a raggiera in vari strati incrociati, mentre uno stelo centrale, coperto da bei fiori viola, si elevava su tutte. Il suo nome greco, meraviglioso, era veramente appropriato per quella pianta che cresce spontaneamente in Sicilia. Quel fiore delicato, a dispetto della forma austera e violenta degli aculei delle foglie, la commuoveva; al pensiero che, fra qualche tempo, inesorabilmente, quella pianta sarebbe morta per sempre, le dava gioia e tristezza, allo stesso tempo. Carmela in cuor suo sperava che potesse sopravvivere alla vecchiaia ed agli acciacchi che sempre più frequentemente la infastidivano.

Persino le piante estranee e non cercate si davano appuntamento in quel cortile. Nell’angolo tra il muretto e l’inizio della scalinata che portava all’astraco era spuntato un fico che, anche se ignorato e non tenuto in considerazione da comare Carmela, era cresciuto ed era diventato una pianta con tanto di tronco, quasi volesse inserirsi nel contesto di quel meraviglioso cortile. Michele aveva persino dovuto scavare una piccola nicchia nel muretto per evitare che il tronco, ingrossandosi, potesse arrecare danni irreparabili alla costruzione. Alla fine comare Carmela s’era arresa a dedicare qualche minuto del suo tempo a quella bella pianta, dalle foglie larghe e dall’odore pungente, che la mandava in visibilio nelle fresche mattinate estive. Presto arrivarono i primi frutti bianchi, per diventare abbondanti l’anno successivo, ed attirare tanti passerotti alla ricerca di cibo.

Il marito di comare Carmela era soprannominato Michele tre dita perché rovistando tra i rottami di un carro tedesco, residuato dell’ultima guerra, aveva perso il mignolo e l’anulare della mano destra in seguito all’esplosione di un proiettile d’artiglieria. Michele faceva di mestiere il contadino, ed oltre che coltivare i campi a grano e fave, secondo le usanze paesane, curava un piccolo orto nei pressi di fontana grande, giù verso il fiume. Ai margini dell’orto oltre al girasole seminava fiori dai colori sgargianti, perpetuando così la sua passione di giardiniere che aveva appreso in quei lunghi mesi di permanenza a Catania durante il servizio militare. La passione di Michele tre dita s’era impadronita di comare Carmela fino a diventare maniacale: il che non dispiaceva né al marito, che vedendola sempre impegnata era libero di muoversi come voleva, né ai vicini di casa che indirettamente ne godevano i benefici.

I passanti, amici o semplicemente conoscenti, che si recavano dall’ortolano di fronte o che si dirigevano verso la piazza per il passeggio serale, non disdegnavano di curiosare nel cortile fiorito alla ricerca di qualche nuova pianta, o per vedere se la rosa che si abbarbicava alla colonna dell’astraco avesse emesso qualche nuovo bocciolo. Curiose per natura le donne di quel paese, ma forse punte da un pizzico d’invidia si chiedevano coma mai le loro piantine, accudite e coccolate come e più d’un bambino, non durassero il volgere di qualche settimana per poi inaridire miseramente. Non facevano mancare loro l’acqua ogni sera, curavano che al volgere del sole i raggi non colpissero direttamente le foglie, spostandole all’ombra. Era tutto inutile.

"Io con le piante parlo, cara comare", diceva Carmela a chi le chiedeva spiegazioni. "Vedete quella rosa gialla sul davanzale dell’astraco? Stava per morire quest’inverno; ma poi con un po’ di concime e tanta cura sono riuscita a salvarla ed a farla fiorire".

Per comare Carmela ogni vaso aveva la sua storia e d’ogni pianta raccontava come tenerla, se metterla al riparo durante l’inverno, come e quando travasarla, lasciando stupefatte ed incredule le sue amiche.

Quel tardo pomeriggio di luglio, però, la gente che passava davanti al vicolo dei fiori, si faceva tre volte il segno della croce volgendo lo sguardo a quel bianco lenzuolo che faceva da sipario all’ingresso del cortile. Persino le rose, che allietavano la strada coi loro bei petali colorati, arse dal calore estivo e prive d’acqua da alcuni giorni, s’erano piegate in avanti, quasi a mostrare la loro tristezza per quanto stava accadendo alla loro padrona.

"Come va comare Carmela?", chiese una passante ad una vicina di casa che, spostando il lenzuolo, era spuntata in strada con un fazzoletto in mano, come un attore sul proscenio di un teatro per prendere gli applausi dagli spettatori, dopo una rappresentazione ben riuscita.

"Stamattina aveva avuto un curpicìaddu, e sembrava riprendersi; ma ormai assacca, comare Carmela, assacca dda mischina. Chi mala sorti!", rispose la donna singhiozzando e coprendosi gli occhi col fazzoletto bianco, per poi infilarsi di corsa nella porta accanto.

Poco prima da quel triste proscenio era spuntato il medico, per l’ultima visita prima di decretarne ufficialmente la morte, era apparsa l’onnipresente Marasanta, come sempre intabarrata nel suo scialle di seta nera, dalle lunghe frange pendule, pronta e servizievole per i suoi consigli e la sua esperienza in queste pratiche dolorose. Tra poco si sarebbero uditi i rauchi e lenti rintocchi della campana a morto, ed al centro di una piccola processione salmodiante de profundis e miserere, il parroco Don Vito, nella sinistra una lunga croce e nella destra l’aspersorio, avvolto nei suoi paramenti viola avrebbe bucato quella tenda bianca per portare l’estrema unzione a comare Carmela ed alle sue belle rose.