La freccia del sud


Un lunghissimo treno, con un fischio assordante, faceva il suo ingresso nella stazione centrale di Milano avvolta dalla solita fitta nebbia che in quegli anni copriva frequentemente, come un'oscura cappa, la città e il suo hinterland: la freccia del sud! Un'infinita sequela di scambi e di binari incrociati faceva sobbalzare il famoso convoglio che lentamente avanzava verso l’enorme e imponente pensilina centrale. Finalmente il locomotore imboccò con sicurezza un binario dirigendosi verso la corsia contrassegnata dal numero 11, e, dopo avere percorso gli ultimi metri quasi a passo d’uomo, si fermò con un leggero stridio di freni e un piccolo rinculo. Sotto quel monumento d’epoca fascista, lugubre e imponente, finiva la sua lunga corsa durata trentasei ore, dopo avere attraversato, da un'estremità all’altra, la lunga penisola.

Salutati gli occasionali compagni di viaggio, Diego si diresse verso la nave, quel grande modello in scala posto al centro del lungo corridoio della stazione centrale, punto d’incontro e di appuntamento con parenti e amici per tanti viaggiatori.

Ad un osservatore posto al di sopra dello stivale sarebbe sembrato strano e anacronistico che quel lungo treno avesse dovuto correre con tanta lena e per tante ore, per poi tuffarsi nel buio cosmico della nebbia padana, scappando a tutta velocità dal sole dorato della Sicilia e dagli splendidi templi di Girgenti; che avesse abbandonato lo stretto, dopo svariate, complicate e laboriose manovre, una, due, dieci volte avanti e indietro per entrare su quella nave ed altrettante per uscirne dalla parte opposta, e poi correre a perdifiato, senza neppure uno sguardo su ciò che lasciava alle sue spalle, attraverso oscure gallerie e squarci panoramici di spettacolare bellezza. Nulla, neppure un rimorso che potesse fargli cambiare decisione; solo qualche piccola sosta per dissetare i suoi passeggeri che, sballottati e costretti su quei duri sedili di legno, cominciavano a manifestare evidenti segni di stanchezza. Quel treno doveva soltanto correre e correre, e allontanarsi dal Sud nel più breve tempo possibile, come inseguito da un mostro informe e temibile!

Non era come gli altri treni dell’Isola, pigri e sonnolenti, che ad ogni passo avevano bisogno di fermarsi, vuoi per fare il pieno di carbone, vuoi per rifornirsi d’acqua alle enormi cisterne di ogni piccola rossa stazione; quando poi non si fermavano per un guasto e dovevano attendere di essere rimorchiati verso l’officina più vicina! E il caldo? Quelle povere ruote sentivano e soffrivano il caldo delle lamiere infuocate; e come se già non bastasse il fuoco che ardeva notte e giorno nella loro pancia d’acciaio, ci si metteva pure il sole ad infastidire la loro carcassa e i loro meccanismi, costretti ad un continuo movimento. Quelli siciliani erano treni più umani, più a misura d’uomo, annoiati e sonnolenti, come i passeggeri, costantemente oppressi dal caldo vento africano; parevano creati a loro immagine e somiglianza, come la costola di Adamo aveva creato Eva. Erano treni che sembravano quasi parlassero col ritmico rumore degli stantuffi, coi brontolii della caldaia che sembrava dovesse scoppiare da un momento all’altro, col fischio assordante con cui invitavano i passanti a tenersi a debita distanza dalla loro arrugginita ferraglia. Quando salivi su quei treni isolani facevi sempre in tempo a tornare indietro dalla tua decisione: con tutte quelle soste fuori programma, potevi sempre scendere e tornare sui tuoi passi. Ma sulla freccia, no! Niente soste impreviste, niente rifornimenti d’acqua e carbone, niente fumi puzzolenti, niente nuvole di vapore. Ti ritrovavi sotto una ragnatela di fili ad alta tensione, e davanti ai tuoi occhi due binari lunghi lunghi che sembravano non finire mai. E, incastrato su quei duri sedili di legno della terza classe, volavi lontano verso l’ignoto, verso la nebbia, senza possibilità di ripensamenti dell’ultimo momento.

La corsa verso il nord cominciava a Catania, nelle prime ore del pomeriggio, quando il lungo e possente treno era quasi sempre puntuale per iniziare la sua traversata. Ma chi dai paesetti dell’agrigentino o del nisseno voleva giungere in orario per potersi conquistare un duro sedile di legno, doveva mettersi in viaggio di buon’ora. Tra baci, abbracci e concitate frasi di saluto finalmente salivi su quel pullman spesso sgangherato, che, sempre affollato e colmo di borse e valigie d’ogni foggia, percorrendo strade tortuose e dissestate, dopo una o due ore di strazio ti depositava nel piazzale principale del capoluogo. Messi i piedi a terra che sembrava una liberazione, borse a tracolla, e scatole e valigie in mano, cominciava una veloce corsa verso la stazione per salire sul treno in partenza per la città etnea. Finalmente un lungo respiro di sollievo, prima di iniziare la tappa finale! Sistemati i bagagli, si poteva procedere con calma alla colazione e a tutti i riti del primo mattino, tanto avevi tre o quattro ore di viaggio prima di presentarti al cospetto del grande treno, molto aulicamente chiamato la "freccia del sud".

Subito dopo la partenza dal capoluogo nisseno, il treno imboccava una lunga galleria, e per quindici lunghi minuti restavi sequestrato dal buio assoluto, mentre le carrozze si riempivano dei rantoli dei passeggeri, quasi soffocati dai puzzolenti fumi che saturavano l’aria, fuori e dentro. Intanto, un ritmico e assordante rumore di lamiere a tanti passeggeri dava l’impressione di ripercorrere una lunga galleria di una miniera di zolfo, come aggrappati ad un vagone colmo del giallo minerale. Finalmente la luce, e, con una generale ovazione di sollievo, tutti si precipitavano ad aprire i finestrini, precedentemente sigillati, alla frenetica ricerca di una boccata d’aria, calda sì, ma sicuramente meno inquinata e più respirabile di quella stagnante in galleria.

Ed era subito Xirbi! Tutti i treni fermavano a Xirbi, importante crocevia sulla linea che dalla Conca d’oro portava alle falde dell’Etna, con diritto di precedenza assoluta. Se il treno in transito era in ritardo, bisognava aspettare il suo arrivo, prima di avere via libera, perché spettava al treno proveniente dal capoluogo siculo imboccare l’unico binario disponibile fino a Catania. E quasi sempre era una sosta obbligata, vuoi appunto per il ritardo del treno in transito, vuoi perché il treno proveniente da Girgenti, dopo circa quaranta chilometri, era tanto stanco e bisognoso di rifornimenti vari. Macchinisti e controllori si precipitavano sui binari per asciugarsi gli abbondanti sudori con enormi fazzoletti, bianchi e lindi all’origine, ma già neri di carbone. Ed i passeggeri? Anche loro si affrettavano all’aperto con borraccia e bottiglia in mano, all’improbabile ricerca d’acqua alla fontanella di ferro massiccio, inevitabilmente a secco. Allora scoppiavano salaci battibecchi col capostazione che, cavandosi di testa il classico berretto rosso e allargando le braccia, inveiva contro gli impiegati dell’acquedotto delle Madonie che fregavano l’acqua per innaffiare i giardini dei mafiosi palermitani, piuttosto che immetterla nella rete idrica per dissetare tanti poveri cristiani. I più coraggiosi, non convinti né vinti, brontolando, tornavano ai loro posti sperando nella prossima fermata, mentre gli altri si recavano al bar della stazione a comprare una bottiglia d’acqua minerale e, per l’occasione, gli arancini di riso ancora fumanti, farciti di sugo di carne e piselli.

Il fischio della littorina proveniente da Palermo faceva correre tutti in carrozza, e poco dopo il treno si rimetteva in marcia nel tentativo di recuperare il tempo perduto, in un panorama di verdi eucalipti, di fichi d’India incoronati da fiori variopinti, e geometriche porzioni di campi, alternati da gialle luccicanti ristoppie e da cereali dalle sfumature grigiastre. Per fermarsi subito dopo a Imera e in tante piccole stazioni per coincidenze, precedenze, rifornimenti. E ad ogni fermata si ripetevano le scene di Xirbi; e quel treno, anziché recuperare il tempo perduto, aumentava il suo ritardo rispetto alla tabella di marcia, col rischio di perdere la coincidenza con la grande freccia.

Diego, si era alzato di buon’ora e aveva seguito la prevista trafila mattutina prima di presentarsi al cospetto del grande convoglio; era salito su una carrozza di coda e, sistemati i suoi poveri bagagli, aveva atteso con impazienza che l’altoparlante annunziasse la partenza dal binario numero uno della freccia del sud con destinazione Milano. Col cuore ancora gonfio dalle emozioni degli ultimi avvenimenti che avevano turbato la sua giovane esistenza, la morte del padre e la sua famiglia ridotta alla fame, fino a quel momento aveva badato solo alle raccomandazioni della sua mamma Annina, di non distrarsi e di non perdere di vista i suoi bagagli. E non aveva visto intorno a sé che confusione, gente che correva e urlava raccomandazioni ai propri bambini, una calca indistinta di persone che si affrettavano verso le porte d’ingresso e che porgevano frettolosamente borse e valigie attraverso i finestrini per guadagnare tempo ed essere sicure di venire in possesso del tanto ambito sedile di legno. Diego riuscì con una certa fortuna a sistemarsi vicino ad un finestrino e vi rimase affacciato, quasi assorto, a contemplare quanto succedeva all’interno della grande stazione; con impazienza attendeva il fischio che, come d’incanto, avrebbe schiodato quel mostro di ferro dall’immobilità e l’avrebbe fatto scivolare dolcemente su quelle rotaie luccicanti sotto il sole. Adesso, rilassato e tranquillo, si sentiva pronto per il lungo viaggio. Osservava il via vai di gente alle prese coi propri bagagli, il correre affannoso dei facchini con le valigie sulle spalle seguiti da quanti, giunti in ritardo, consultavano lo scontrino della prenotazione alla ricerca del vagone loro assegnato. E mentre la sua mente vagava immersa nei pensieri più strani, trasalì nel vedere un'anziana signora in affanno, accompagnata da una ragazza, all’evidente ricerca di un posto. Erano le due donne che gli avevano fatto compagnia fino a Catania e che andavano al nord per ricongiungersi ai propri familiari. Gesticolò per farsi riconoscere, le chiamò per nome, e infine le invitò ad entrare in quella carrozza dove ancora c’erano dei posti disponibili. Si premurò di occuparli, ponendo una borsa sui sedili, e corse verso la porta per aiutarle a salire. Si erano appena sistemate quando udirono distintamente il fischio del capostazione, e il treno lentamente cominciò a muoversi. A quel punto il brusio aumentò notevolmente fino a diventare un distinto vocio, i saluti si sovrapposero ai consigli e alle raccomandazioni, mentre i viaggiatori che si sporgevano dai finestrini stringevano le mani di quanti, parenti o amici, alcuni sorridenti, altri cogli occhi arrossati dalla commozione, erano andati a salutarli. Man mano che il treno si allontanava, echeggiavano gli auguri di buon viaggio e gli arrivederci urlati a voce alta, accompagnati da un frenetico gesticolare di mani e di fazzoletti: finché i viaggiatori, persi di vista parenti e amici, rientravano nei loro scompartimenti e le persone rimaste a terra cominciavano a sciamare verso l’esterno della stazione.

"Grazie!", disse l’anziana signora rivolta a Diego, "Non fosse stato per te, avremmo rischiato di perdere il treno e non avremmo trovato un posto dove sederci".

"Mi fa piacere rivedervi dopo esserci persi di vista alla discesa dall’altro treno. C’era una gran confusione e ho attraversato i binari di corsa per paura di fare tardi", rispose Diego.

"Almeno sei riuscito a procurarci i posti!", rispose la ragazza con tono sarcastico, quasi volesse rimproverare qualcosa al suo poco galante comportamento tenuto in precedenza.

Ma oramai potevano stare tutti tranquilli, visto che non c’erano più orari da rispettare o coincidenze da non perdere: ci avrebbe pensato quel mostro enorme a portarli a destinazione dopo un lungo e non tanto comodo viaggio. Certo, la terza classe non offriva grandi comodità, ma avevano uno spazio per muoversi e un corridoio per fare due passi; e ciò rendeva quel mezzo più confortevole di un bus di linea sempre affollato e ondeggiante per quelle tortuose strade di collina. Su quei sedili avrebbero potuto stendere qualcosa per renderli meno duri e magari sdraiarsi nel tentativo di recuperare qualche ora di sonno e rifarsi della stanchezza accumulata nelle ore precedenti.

"Chissà come sarai stanca povera Aldina", disse la nonna rivolta alla nipotina che le sedeva accanto. E rivolto a Diego:

"Non ha chiuso occhio per tutta la notte, per l’emozione del viaggio".

"Sarà impaziente di rivedere la sua mamma", commentò Diego, riprendendo il discorso interrotto sull’altro treno.

La vecchietta era molto loquace e, nel volgere di cinque minuti, aveva raccontato a Diego che accompagnava la nipote dal padre, a Torino, dopo una breve permanenza in Sicilia, e lei ne approfittava per andare a godersi il figlio che lavorava alla Fiat. Non avrebbe potuto lasciare da sola la sua povera bambina per un viaggio così lungo e con tutti i pericoli che esso comportava. E cominciò a raccontare del figlio, della dura vita che conduceva in quel grande stabilimento, della sua famiglia e di tutti i loro problemi connessi al trasferimento nella grande città del nord.

Aldina sorrideva ai discorsi della nonna, ma dai versi che faceva e dalle sue espressioni lasciava capire che la nonna avrebbe fatto meglio a starsene zitta, anziché spifferare notizie riservate a persone appena conosciute. Diego rispondeva con altri versi, che volevano significare che tutto sommato era d’accordo con lei, ma bisognava capirla, povera donna!

"Noi siciliani siamo fatti così", rifletteva Diego, "In paese, coi conoscenti, stiamo sempre abbottonati e mai raccontiamo le nostre storie personali, le nostre ansie, i nostri problemi; ma in altre circostanze, appena fatta amicizia con una persona mai vista prima e con la quale dobbiamo condividere qualcosa, come in questo caso un viaggio, allora ci apriamo l’animo, e non vediamo l’ora di raccontare quanto ci sta sullo stomaco. A quell’altro magari non interessa per nulla, ma lo raccontiamo lo stesso e cerchiamo di coinvolgerlo nei nostri fatti. Spesso con un estraneo si può diventare più intimi e confidenziali che non con una persona conosciuta da tempo, visto che non sa nulla di te. Passato quel momento contingente non lo rivedrai mai più, e i tuoi fatti torneranno segreti e personali come prima".

Diego, che se ne stava seduto di fronte ad Aldina vicino al finestrino, aveva tra le mani un giornale che aveva appena sfogliato senza particolare interesse da quando la vecchietta aveva cominciato a parlare. Sin dalla partenza non aveva smesso un istante di osservare la ragazza, e quando ogni tanto i loro sguardi s’incrociavano abbassava i suoi occhi verso il giornale simulando indifferenza. Ma anche lui più d’una volta si era sentito osservato e indagato dagli occhi di lei, soprattutto adesso che la nonna si era assopita, dopo il lungo parlare a sproposito.

Ormai che il treno aveva preso la rincorsa, Diego, gli occhi socchiusi, sembrava volare verso la sua meta ancorché lontana e misteriosa. E la sua corsa sembrava aumentare, adesso che le prime ombre del crepuscolo si proiettavano veloci verso il mare leggermente mosso da una timida brezza, e coprivano gli scogli e i faraglioni scagliati sull’acqua da quel mitico e informe leggendario gigante. Quei luoghi incantati stimolavano la sua fantasia a vagare in tempi remoti, alla ricerca di mitologiche creature che solo in quel paradiso avrebbero potuto scegliere la loro dimora. Vedeva maghi propinare magiche pozioni, vedeva dee tuffarsi nelle limpide acque marine, piccoli esseri indifesi alla mercé di mostri feroci. Ma nulla sembrava resistere a quella possente macchina di ferro che avanzava verso lo stretto, ora proponendo panorami di indicibile bellezza, ora scomparendo con sibili assordanti nel ventre di quella nera terra, alla ricerca della fucina del dio ancora nascosto nelle viscere di quell'immensa montagna. E quando, dopo lunghi minuti, trattenendo il respiro in quella impari lotta, credeva d’averla scovata, allora usciva all’aperto e correva più veloce di prima, quasi inseguito dal fantasma di quel dio brontolone, e rincorso dai lapilli incandescenti del violento vulcano. Ma poi, aperti gli occhi e rassicurato dalla nuova luce, tirando il naso fuori del finestrino, poteva percepire il sapore degli spruzzi salmastri del mare, commisto all’odore inebriante emanato dalle mille e mille zagare dei giardini che a gradoni cingevano i fianchi dell’enorme nera collina di lava. E finalmente, pervaso da un lungo respiro di vita, tornava a sognare un futuro migliore.

Una brusca frenata e un rumore di scambi lo destarono dai sogni per riportarlo alla vera realtà, forse più bella del sogno. Repentinamente si svegliò dal lieve torpore e dalla fantastica galoppata nei tempi remoti, cui l’avevano sospinto la bellezza dei luoghi, le reminiscenze storiche, i miti del passato di cui era piena la sua terra e la sua fantasia. Quella frenata aveva fatto sobbalzare il lungo treno e fatto scivolare sui propri sedili gli occupanti delle sue carrozze. Il fortuito contatto delle sue ginocchia con quelle di Aldina, che gli sedeva di fronte, pervase tutto il suo corpo di un fremito indicibile, mai provato fino a quel momento. Una sensazione di calore improvviso scaldò il sangue nelle sue vene, e il suo cuore aumentò a dismisura i suoi battiti. Sin dal primo approccio nella vecchia stazione si era posto il problema su come gestire quel fortunoso incontro, ma era stato capace soltanto di biascicare qualche frase di generici convenevoli; non un complimento, né una parola gentile che suonasse d’ammirazione verso la sua gentile e carina figura di sedicenne, slanciata, capelli lunghi e neri, due occhi che emanavano tenerezza. La sua timidezza di ragazzo di paese, anche se voglioso e impaziente, lo portava ad attendere l’occasione propizia per un approccio amoroso ed a temporeggiare, sperando nel lungo e avventuroso viaggio. Per un senso di pudore ritrasse le sue ginocchia appena indietro, anche se con poca convinzione; subito dopo, con un pizzico di coraggio, le riportò ancora in avanti e le strinse leggermente a quelle della ragazza che per un attimo rispose alla sua muta richiesta di un contatto fisico, molto più eloquente di un lungo discorso o di una dichiarazione d’amore. Più che una ricerca d’amore fisico sembrava una domanda d’affetto di cui aveva bisogno, e che mai, al di fuori di quello materno, aveva saputo dare e trovare nella sua giovane esistenza. Alzò gli occhi verso di lei, e i due sguardi s’incrociarono in un dolce sorriso di compiacimento che suonava di mutua approvazione e di reciproco piacere. Quel contatto appena percettibile suonava alle sue orecchie come più di un'aperta dichiarazione, e lo autorizzava a tentare più ardite e spericolate avance. Era il punto più alto di quel piano inclinato da cui avrebbe voluto volentieri lasciarsi andare in rapida caduta, e che da tempo aspettava con trepidazione. Chiuse gli occhi e strinse fortemente le sue ginocchia a quelle di Aldina che, con altrettanta convinzione e desiderio, rispose alla sua richiesta di affetto. Pochi attimi di piacere che gli sembrarono un’eternità.

Quel fortuito contatto con le ginocchia di Aldina aveva riportato Diego indietro di qualche anno, quando da studente era costretto a viaggiare tutte le mattine verso la provincia su quei pullman sgangherati e sempre affollati. Allora gli amici e i compagni di scuola facevano a gara su chi riusciva ad avere un momentaneo approccio con una ragazza, a toccarla furtivamente approfittando della ressa e degli ondeggiamenti della corriera. Spesso andava bene, ma a volte volavano scappellotti e improperi all’indirizzo dei più maldestri. E all’arrivo si stilavano le classifiche, quella "ci sta", per cui vale la pena ritentare domani, quell’altra no, perché troppo superba e scorbutica. Adesso, Aldina ci stava!

Poco dopo si udì lo stridio dei freni del treno ed il lungo convoglio pose momentaneamente fine alla sua corsa. Erano giunti a Messina, e presto sarebbero iniziate le grandi manovre per salire sul traghetto e cominciare la traversata dello stretto. I più curiosi, fra poco, sicuramente avrebbero abbandonato le carrozze per salire in coperta alla ricerca di un panino e di un caffè, e per ammirare lo spettacolare paesaggio dello stretto. E cullati dalla frizzante brezza marina, avrebbero rivolto lo sguardo oltre le case della città, al di là della barriera delle verdi colline, alla ricerca del loro paesello che temevano di abbandonare per sempre.

Diego, con mestizia e commozione, osservava le case divenire sempre più piccole, vedeva la madonnina del porto allontanarsi sempre più; e avvertiva una dolorosa lacerazione, come quando strappando con forza un ciuffo d’erba si tirano insieme terra e radici, e si sente che queste oppongono una certa resistenza per poi cedere lentamente ma inesorabilmente, dopo avere emesso l’ultimo gemito del distacco. Spostarsi da un posto ad un altro in terraferma, non é come varcare un braccio di mare, come lasciarsi alle spalle le onde marine che danno un senso di taglio profondo, fisico e temporale. Il ritorno al punto di partenza, in terraferma, é molto facile, puoi farlo a dorso d’asino, a piedi o in treno; ma l’idea di dovere attraversare il mare per fare ritorno alla propria casa complica ogni cosa. Ormai il grande passo era compiuto, e il cordone ombelicale che lo teneva fortemente legato alla sua terra era stato tagliato. Le colonne d’Ercole, simbolicamente e da sempre ancorate tra Scilla e Cariddi, rappresentate da quei pochi chilometri di mare che separano ogni siciliano dalla terraferma, erano state violate. Si consolava al pensiero che, lasciata una madonnina, ne avrebbe trovata un’altra più grande e più bella, e magari più miracolosa, per risolvere i suoi tanti problemi. Una madonnina centenaria, piantata saldamente sulla terraferma, in grado di controllare e sentire tutto, dall’alto dei suoi cento metri; e non come quella del porto che, circondata dall’acqua e quasi traballante tra i flutti, sembrava più impegnata a reggersi in equilibrio piuttosto che a dare retta ai pensieri e alle preoccupazioni di chi le si rivolgeva con fede e devozione.