IL SALVATAGGIO
                                                    (In ricordo del prof. Peppe Piccillo)

Una frenata repentina fece sobbalzare l'auto sull'asfalto, reso viscido da un sottile strato di cenere lavica. Dopo un vistoso testa coda si fermò ai bordi della strada, sotto uno dei tanti eucalipti che, in quella torrida giornata di luglio, proiettavano un'ombra quasi miracolosa per quanti percorrevano la vecchia statale detta militare che, partendo da Palermo e passando per Caltanissetta, raggiungeva il capoluogo etneo.

"Salta dietro! urlò Peppe, c'è una donna che chiede aiuto".

E innestata la retromarcia, percorse velocemente a ritroso il pezzo di strada su cui eravamo scivolati dopo la violenta frenata.

Sul ciglio della strada una donna, dall'età apparente di circa sessant'anni, vestita di nero e con uno strano fazzoletto bianco, legato sotto il mento, che le copriva i capelli, si dimenava alzando le braccia ed imprecando chissà quali suppliche, in segno d'aiuto. A fianco dell'anziana signora, una giovane donna teneva in braccio un bambino di pochi mesi e piangeva disperatamente. Al nostro passaggio l'aveva sollevato in aria, come fosse una bambola di cartapesta, in segno di supplica disperata.

Fermarsi in quel posto, eravamo giunti nell'immediata periferia di Catania, ed a quell'ora, le due del pomeriggio, non sarebbe stato molto prudente, in considerazione degli agguati ch'erano stati tesi alcuni giorni avanti; e chissà quante macchine, prima di noi, erano filate dritte senza nemmeno accennare a rallentare. Ma Peppe non era una persona che potesse entrare in considerazioni del genere, né tantomeno da farsi intimorire da simili preoccupazioni. S'arrestò di scatto dinanzi alla giovane madre in lacrime e, mentre come un gatto e con mille contorsioni, mi arrampicavo su quanto era ammassato sui sedili posteriori della vecchia Fiat 1100, faceva accomodare sul sedile anteriore madre e bambino, partendo velocemente alla volta di Catania.

Correva l'anno 1963. Eravamo partiti dal nostro paese ch'era l'ora di pranzo, con destinazione Mascalucia, pochi chilometri a nord di Catania, per trovare meno traffico su quella strada, asfaltata sì, ma piena di buche e di impedimenti d'ogni genere, come passaggi a livello della vecchia e sonnolenta ferrovia che l'intersecava in vari punti, delle greggi abbandonate al pascolo, libere di scorrazzare sull'asfalto, o dei contadini che a dorso dei muli scambiavano la statale per mulattiera. Centocinquanta chilometri di continui saliscendi, sotto un sole normalmente cocente, tra campi di gialle ristoppie accecanti, o neri e scottanti se appena bruciati dai proprietari per ripulirli dai gambi di fava, di spine e d'erbaccia d'ogni genere, o dalle stesse fastidiose ristoppie. Dai vari cocuzzoli si poteva però cogliere in lontananza un panorama di straordinaria bellezza, come l'alta rocca di Enna, visibile da ogni angolatura, o l'ammasso di case dei paesini abbarbicati sulle mille colline che manifestavano una presenza umana, anche se li sentivi molto lontani in caso di bisogno in mezzo a quella desolazione generale. Verso la Piana, il panorama diventava piatto e monotono, ma rigoglioso per via dei vigneti e dei mille e mille alberi di aranci, limoni e mandarini, sempre verdi e variopinti dal giallo e rosso dei tanti frutti. In macchina avevamo caricato un'infinità di masserizie, come materassi, attrezzi da cucina, valigie piene d'indumenti e libri per una lunga permanenza in quel paese alle pendici dell'Etna, nero di lava.

Intanto che la macchina quasi volava alla volta dell'ospedale di Catania, la giovane madre coccolava ed incoraggiava il bambino, nero in volto e privo di vita, almeno così sembrava a vederlo, intossicato da chissà quale bevanda. Peppe, con la foga che lo contraddistingueva, guidava da par suo quella macchina che ora sbandava a causa della forte velocità, ora scivolava sull'erba secca sfiorando il ciglio della strada, tra una bestemmia ed una imprecazione a quel disgraziato che, nonostante il clacson suonasse in continuazione, non intendeva mettersi da parte e lasciare libero il passaggio. Io me ne stavo rannicchiato sul materasso, in balia delle curve e dei freni azionati in continuazione, sballottato a destra ed a manca non avendo una maniglia cui afferrarmi.

"Attento al camion!", gridai.

Un grosso camion aveva invaso la carreggiata, e saremmo andati a sbattergli contro se Peppe, con una manovra spericolata, non l'avesse preceduto sterzando a sinistra ed andando a finire sul marciapiede antistante una chiesa. Saliti uno, due, tre gradini della scalinata, l'auto si fermò, quindi rinculò tra un rumore di ferraglia, si rimise nel senso di marcia e ripartì verso la statale, tra lo stupore di alcuni chierichetti che s'erano messe le mani nei capelli. Un prete che, temendo il peggio, si stava preparando ad una santa benedizione, rimase sbalordito e con la mano alzata alla partenza dell'auto, credendo che sicuramente fosse un diavolo a guidare quell'attrezzo. La povera donna strinse forte a sé il bambino, implorando chissà quale santo o santa, forse sant'Agata, molto venerata da quelle parti, oltre che per il figlio sicuramente anche per sé; mentre sbattuto prima indietro, contro il lunotto dell'auto, e poi in avanti, io ebbi modo di guardare fugacemente Peppe nello specchietto retrovisore che, con un ghigno dei suoi, sembrava dire:

"Hai visto che manovra? Come guido?". Ed abbozzato un sorriso sardonico, senza profferire parola, si accese una sigaretta e continuò la sua marcia come se nulla fosse accaduto.

"Perbacco, se guidi bene!", gli feci eco muovendo la testa.

Dopo una ventina di minuti finalmente eravamo davanti l'ospedale di Catania dove, consegnati immediatamente madre e figlio ai medici del pronto soccorso, ci raccomandammo che se ne occupassero in fretta. Quindi proseguimmo verso la nostra destinazione.

Del bambino non sapemmo né potevamo sapere nulla nei giorni e nei mesi seguenti. Solo qualche tempo appresso, passando da quel posto perché diretti in paese, ci fermammo a chiedere come fosse andata. Ci vennero incontro le due donne che, abbracciandoci e colmandoci di ringraziamenti, raccontarono che il bimbo s'era salvato da un avvelenamento e da una morte sicura. Era lì, infatti, bello e vispo a giocare sull'aia.

Intanto che la giovane madre ci offriva un bicchiere di vino, cui fu impossibile dire di no, e chiamava a voce alta il marito che lavorava nei campi, la vecchia, sparita momentaneamente dietro al casolare, tornò poco dopo con un regalo che sarebbe stata una grande offesa rifiutare: una bella gallina ruspante.

Federico