Katia Duminuco

                   MEMORIA PER UN DELITTO D’ AMORE

Ogni uomo è un ladro,uno scrittore di più.  Se ho preso a prestito una vicenda è per la seduzione degli specchi, e nella convinzione che ne avrei fatto qualcosa d’altro. In ogni caso, me ne scuso.

L’ho saputo. Me l’hanno detto oppure l’ho sognato. Difficile distinguere quando le mura sono quattro e sempre dello stesso colore. E’così. Hanno incendiato la mia casa: lontano, distante,in Francia. Giù, nelle Landes, sospesa tra l’Aquitaine e i Pirenei. Ricordo che risuonava l’Oceano verso occidente. La casa di quando? Incendiata. Chissà! Una favilla, basta una favilla nell’inquieto baluginare del vento. E non occorre l’insulto di una mano. Poi, che importa? Oppure importa, se ancora penso, guardando questa finestra in una pulizia che sa di disinfettante. E non posso non pensare. Certo, pensieri interrotti e grumosi. Pensieri ansanti quando piango e urlo. "Credetemi non volevo!" Certo che non volevo! Come avrei potuto volere. Il sonno coatto è una conquista della chimica e cosa mi diano comincio a chiederlo solo adesso. E’ una sospensione del tempo, come affondare in una voragine.Quando riemergo il cuore mi martella ancora, incessante, pulsa all’unisono con le tempie infuocate. E non trovo respiro. Qualcuno mi solleva la testa e mi regala un leggero sollievo in qualche goccia disciolta in acqua, abbassa le tende. Così, malgrado me, posso ricominciare a pensare. Tracciare una geometria? No, non mi appartiene questa parola. Riannodare i fili. Meglio. Ricomporre le ombre. E perché? Difendermi? Di fronte a chi? ancora, perché? Che giostra impazzita di domande e di sangue. Sì! Io ho insultato quel volto. Il volto amato. Scivolando in una pozza d’alcool e nella banalità delle recriminazioni che laceravano i vestiti e la pelle e non seppero trovare la compostezza di una risata.La serietà. Questa serietà, oscuro coagulo di granito, me la porto addosso, come un peccato, da sempre. Forse ho invidiato quelli che leggeri si voltavano sorridendo e procedevano nella misura. Forse, in realtà, non li ho mai compresi. La mia musica. Questa chitarra che mi guarda e potrei stringere tra le dita, se non fossi così esausto e la voce un’ombra che increspa su un muro di vergogna. Come alzare lo sguardo? Quale sguardo. Si, lo so! La mia voce nuda ha tessuto orizzonti di parole, alto levata in un castello di diamante. L’alambicco distilla salvezza quando il magma che deborda urge e corre nel girotondo della serpentina poi dirada, si acquieta, riconosce il suo dire, e dice e canta. Danza all’estremo il flusso cangiante ei ditirambi: un palco è un orchestra di luce, e sono in tanti, lì, intorno a me, per me, per noi, che segniamo il tempo, gli alti e i bassi, su e giù, nella parabola che incede e straluna l’emozione dilaga allo spasimo e il vaso non ha misura. Officiavo il mio esilio e il loro, il nostro, e non chiedevo tributi. Tornavo. Con la mia onestà. Lo so: l’onestà del fabbro che incanta il fuoco. Ad ognuno la sua. L’onestà di un uomo tra gli uomini, anche: tuttavia e malgrado questa sarabanda feroce di un tempo che scolora in griffe impazzite e traslucide. Un tot al chilo, tutto e di più. Ogni cosa. Ciascuno. No! Non ho distolto lo sguardo, le mani nelle mani, gli occhi negli occhi, ognuno appartiene alla terra e la terra è di tutti. Così la mia vita. Finora. Fino a quando ho deragliato, tra i suoi occhi, nelle sue mani, nella curva tra il seno e i fianchi, il mio orizzonte i suoi capelli, i miei colori i suoi, solo i suoi. Mio Dio! Si può fermare il mondo? Si può. Semplicemente è apparsa e l’ellisse è impazzita. Lei. Fatta alla maniera dei sogni, dalla luce intermittente di uno schermo nell’incavo proteso del mio corpo. Insieme. Finalmente! Nella mia anima risuonava il compimento. Poi, subito e troppo presto una confusa deriva. Il piano inclinato è un vasto deserto e oltre il confine un’eclisse di sole. Avrei potuto capire. Avremmo potuto. Facile a dirsi. Come fermare la corsa prima della resa dei conti? Accade. Di inciampare nel proprio destino con la cieca determinazione del funambolo. Non volevo! Certo che non volevo. Qualcuno si avvicina e mi invita a non urlare, con un gesto mi accompagna i capelli. "Non urlo!  Cazzo!"  Come urlare, se non ho voce e fiato. Solo uno spasmo lancinante e questo desiderio liquido e sudato che mi stringe ancora, che lascia il mio corpo intontito e contratto. Una prigione. No! Non è stata la compagna di tenerezza, o forse solo per poco. Altre le compagne dell’amore fidato, di qualche tempo o di anni, che importa, con cui dividere il pane dei giorni, all’alba e la sera e tra i miei viaggi. Io che partivo e tornavo, sempre un poco discoste, sempre un poco d’appresso. Tra le mani sgranavo le mie preghiere e procedevo in bilico. Le mani. Allontano il cibo con le mani. Insistono perché mangi. Qualcosa almeno. Mi hanno ripulito e trascinato su questa sponda di letto, e in qualche modo mangerò. Oppure mi nutriranno. Le mie mani. Le mani per il cibo, per la musica, per disegnare il ventre che cresce ricolmo. Avessi avuto mani più sottili ! Chissà da dove le mie mani? Grandi mani. Io assiepato su un contorno di mare, sempre l’Oceano. Generazioni addolcite da una parvenza di Mediterraneo, forse, così mi sembrava, avrebbero potuto prestarmi maggiore perizia. Quali navi, quali scorrerie, prima di questa costa e queste mani! Le mie mani e come un rombo atroce e cieco l’ira che sale e irrompe, e il cavallo non tiene il freno e sbava e sbanda, un’esplosione e cade riverso. Se solo non mi avesse colpito, se solo non mi fossi rialzato! E ho colpito. Con le mie mani. L’ho vista scivolare, barcollare appena. Poi, più atroce delle urla, il silenzio. Certo, se dico che non so, non so! Un albergo, un letto, una città fredda e d’ombra. Il suo corpo, lieve e di giunco. Distesa e appena voltata sul fianco. La mia rabbia che fonde in argento liquido, dilaga e si rapprende. Stento. Aspetto. Si rialzerà. Per lavare il viso, riannodare i capelli, lunghi e sospesi tra il collo e l’urgenza del seno. Spio ogni cenno, il più lieve. Indulgo in una litania di bimbo che propizi il risveglio. Bevo ancora. Rumori dal corridoio nella notte ovattata di moquette ed un’assenza opaca e spessa. Ho chiamato. Quando? Ho chiamato! Certo che ho chiamato! Ho chiamato. E’ venuto. Qualcuno è venuto. Perché nessuno ha avuto occhi! Nessuno! Non si vede l’inenarrabile e il cerchio era stretto intorno a noi in un confine di fuoco. Se guardo ormai non vedo. E se cerco scampo, non ho scampo. Madre! Contemplo il mio viatico, estremo, alcool ed ogni maledizione che mi fermi il cuore, finalmente! Al mattino mormoravo frasi sconnesse. Mi hanno portato via e tenevo chinata la testa. Quanti giorni sono passati? Pochi. Misurati dal tempo delle flebo, dagli interrogatori: "Non volevo!" Certo che non volevo. Quando ancora potevo piangere e sperare. Che la maestria del chirurgo assolvesse la mia vita, salvasse la sua, eletta, preziosa, fragile. "Mia regina, mia donna". Poi è successo. Che la vita l’abbandonasse, che non riaprisse gli occhi. Si sono avvicinati piano ed avevo già capito. Una nebbia fitta e senza respiro: la mia reggia un vuoto siderale. Quanti giorni sono passati? Sono passati, comunque. Un tempo dilatato, uno spazio amorfo: un’agonia da vertigine, schiumosa, ansante, e la pura resistenza cellulare, ostinata, inconscia, assetata. Le domande. A chi rendere conto? A parte quel certo pacchetto di biglie, ogni giorno estraevo la mia sorte e truccavo il responso. Il mio destino di bimbo, intatto. Dov’è? Gli amici, sono amici, fratelli. Basta annuire. Il loro stupore è di ghiaccio ma si confortano e mi confortano. Non misurano la distanza ma il lavoro, la poesia: mi riconoscono e questo è molto. Lo sappiamo. E i miei figli crescono un’infanzia ancora ignara. Per il resto, questo vociare e strepitare, questo rimpallo di opinioni che passa a stento le sbarre mi ferisce. Non vogliono che sappia ma non c’è troppo da sapere. Va bene: avete voluto la mia vita in prestito, ora masticate la mia disgrazia , computate insulti, centellinate una delusione al vetriolo. Non ha più importanza. Lasciate che io abiti la mia pena e regalate ad una causa migliore il vostro rancore. Che un tribunale emetta sentenza e che la mia personale giustizia mi conduca agli esiti che ancora non conosco. No! Niente ha più importanza, se non questo tormento atroce. Se penso, se urlo, come trovare una ragione tra queste mani? Se procedo, procedo per dissonanze, mi volto e la vedo, la tocco, lei sola si china su di me a quel modo…. Svanisce. La sua assenza è sterminata e profonda: tutta l’enormità del mare impressa sulla retina del naufrago votato alla sconfitta. La consapevolezza è questo garrire di uccelli che sbattono le ali sul mio volto. "Perdono!" Perdono. Mi calmo! Certo mi calmo. Chiedo perdono e cerco nella mente la radice di questa parola, tra le poche che risaltino di una qualche evidenza e non mi sembra il mio vocabolario. Tuttavia ho i piedi nudi e sono un penitente: accenno e non trovo risposta. "Credetemi!" Vorrei disegnarle il volto con le dita nel mattino. E non posso nemmeno cederle le mie parole. Riposa, oltre frontiera, lo so. Lo so. Troppo in alto le finestre, da questo angolo distinguo appena qualche bagliore. Un cielo freddo e lattiginoso riflette la mia identità da clandestino. "Lasciatemi!" Per favore, per terra così: le gambe tra i polsi. "Lasciatemi!". Mi sento sommerso e il mio nome, il mio nome, se lo ripeto ha la consistenza dei suoni lontani. Così non è più estate. Da troppo. La mente è mendace: io che sorridevo e la guardavo, la circondavo dei miei capelli e delle mie braccia. Mai! Mai nessuna mai…..può accadere che i contorni si facciano diafani? Le sue mani e la bocca? La sua voce un’eco nella successione incongrua dei momenti, ore, giorni. Può accadere. E’ già accaduto. Che il volto non riflettesse più l’icona del desiderio? "Mia regina". Ti ho guardata, non ti ho riconosciuta. Tutta la mia vita nelle tue mani e il mio sguardo che oscilla e implora. " Non volevo!" Certo che non volevo. Ma come dire che la tua concretezza esulava il mio rigore ? La mia algebra quella del miracolo. La tua? E la vita è più in alto e più in basso. Forse. Mi hai conosciuto mai? Quale altrove le nostre vite avrebbero potuto disegnare? Non più cielo. E le nostre ali, dispiegate ad oltranza? Abbiamo perso. Tenendoci per mano: senza guardarci negli occhi. Questo il fondo, alla fine? Che il mio sgomento urli allora e che implori. "Non volevo!" Certo che non volevo. Eppure se chiudo gli occhi e prendo fiato ancora ci sei. Quale l’equilibrio possibile? Ogni attimo riflette intera la sua unica memoria. La dignità è quella del frammento nel cono di luce del caleidoscopio? Lo so: ci sono attimi che rivelano la traiettoria. Che gli altri conservino l’amore incorrotto, almeno. Ci sono attimi ciechi e feroci. Che ci decidono. Per sempre. Una passione è un’alchimia impietosa e se tento la cifra del mio destino stento e guardo appena. Quale fedeltà nella mia vita? A quale richiesta si presta l’amore ? Se non la mia voce e un canto. 
Tra le mie mani.