L’INNAMORATA

La stanza semibuia e le luci soffuse, si muovevano lentamente al suono di un dolcissimo e altrettanto melanconico tango emesso da un minuscolo mangiadischi di colore rosso sistemato su un mobile d’epoca, posto in un angolo della piccola stanza. Una decina di coppie, i cui elementi sembravano più appiccicati che abbracciati gli uni agli altri, ancheggiavano nello spazio di una mattonella, in religioso silenzio, ora guardando il soffitto con aria distratta, ora sgranando gli occhi quando incrociavano quelli della coppia a fianco, a significare soddisfazione su come stava procedendo l’approccio. Ogni tanto rompevano il silenzio emettendo qualche sillaba direttamente nelle orecchie del partner, con un certo affanno, quasi a volere comunicare chissà quale segreto o sussurrare una parola carina. Ma più che altro lo facevano per liberarsi dal fastidioso imbarazzo che procurava quella scomoda anche se volontaria posizione, raccontando qualcosa di spiritoso o un fatterello occorso a scuola il giorno precedente. Si capiva al volo che non facevano coppia fissa, non da innamorati insomma, e le loro frasi erano dei convenevoli tra persone amiche o capitate lì per caso. Che fossero appiattiti l’uno contro l’altra, con il braccio destro dietro la schiena di lei e quello sinistro appoggiato sulla spalla, era naturale, lo richiedeva quel tipo di ballo; o meglio ancora, ballavano al suono di quella lenta musica per starsene abbracciati e stropicciarsi un po’, autorizzati dalla ufficialità della festa. Avessero, in altre circostanze, poggiato un braccio sulla spalla di una ragazza, si sarebbe gridato subito allo scandalo. Solo un twist o qualche disco veloce ogni tanto, per il resto musiche lente e monotone. La scelta della musica era affidata a chiunque avesse avuto voglia di farlo, dal momento che non esisteva un regista o disk jockey: bastava scegliere un disco dalla pila sistemata sul mobiletto all’angolo della stanza e inserirlo nella feritoia, che quel magnifico attrezzo, che non necessitava di puntine o cure particolari, cominciasse immediatamente a suonare: prima gracchiando un po’, poi, presa la giusta velocità e coscienza del suo importante compito, emetteva una musica accettabile anche se approssimativa. Tanto, per quelli la musica era solo un mezzo, una scusa ufficiale per starsene insieme ad agitarsi piuttosto che rilassarsi, come sarebbe stato più logico. Ai lati, in spasmodica attesa del loro turno, altri ragazzi, seduti su delle sedie accostate al muro, fumavano nervosamente riempiendo il locale di una fastidiosa nuvola bianca che rendeva l’aria quasi irrespirabile, complice anche l’afa dei primi caldi di maggio. Quella trentina di persone, un po’ più della metà maschi, frequentavano istituti scolastici diversi e provenivano da paesi limitrofi. Ma non appena si era parlato di organizzare una festa, si erano subito trovati d’accordo e compatti, quasi accomunati da un comune denominatore: almeno ufficialmente erano tutti liberi da impegni sentimentali, e quell’incontro avrebbe potuto permettere di allacciare un rapporto più intimo e personale, altrimenti difficile fuori dagli orari scolastici. Anche se le lezioni volgevano al termine e si approssimava lo spauracchio degli esami di maturità, quelle piccole distrazioni domenicali non li impensierivano più di tanto; anzi, dai benpensanti erano considerate salutari per scaricare tutta la tensione accumulata e proseguire con più attenzione e applicazione verso gli esami ormai in dirittura d’arrivo.

 

Il tavolo e una piccola credenza che normalmente adornavano la stanza, per fare spazio alla festa e permettere alla comitiva di muoversi liberamente, erano stati spostati nella camera adiacente. E qui, attraverso una piccola porta normalmente tenuta socchiusa, i festaioli facevano capolino, tra un disco e l’altro, per prendere una boccata d’aria alla finestra tenuta aperta o per sorseggiare un bicchierino di amaro locale. Tra un ballo e l’altro, i ragazzi, i pantaloni gonfi di sofferenza e stravolti in viso, quasi inebetiti, si accasciavano sul grande divano che riempiva la parete di fronte, accavallando le gambe, come a volere nascondere il loro grande imbarazzo, e cercando di assumere un atteggiamento composto: le ragazze invece, più disinvolte dei loro compagni, visto che non avevano nulla di fisico da nascondere se non un pallido rossore, si accostavano alla finestra, in attesa di essere invitati ad un altro turno di ballo. Essendo in minoranza rispetto agli uomini, erano quasi sempre costrette a scendere in pista e raramente saltavano un disco. E così, tra una sigaretta, un amaro e un ballo erano passati un paio di pomeriggi festivi.

 

Il ballo in casa Graziedda sembrava essere diventato un avvenimento cui nessuno di quel gruppo poteva mancare. I partecipanti, quasi tutti diciottenni, erano sempre gli stessi, per lo più compagni e compagne di scuola della ragazza che, col sofferto permesso del padre, maresciallo di polizia, organizzava quelle piccole feste in famiglia. Ogni tanto s’intrufolava un amico che a sua volta portava un conoscente. Si sa come vanno queste cose; quando si sparge la voce di una festa, l’amico di un amico è sempre ben accetto, anche per allargare la cerchia della comitiva e non annoiarsi con le solite facce viste e riviste tutti i santi giorni. Graziedda, la padrona di casa, era una ragazza semplice e simpatica, grassottella e provvista di due seni abbondanti. I capelli raccolti in due piccole trecce le davano un’aria un po’ sbarazzina, e la facevano apparire più giovane dei suoi diciassette anni. Piuttosto bruttina nel complesso, era però da sempre la prima della classe, e ciò, oltre a procurarle un certo seguito tra i compagni, le accreditava un discreto carisma. Ma visto che il suo fascino personale non andava oltre una certa adulazione per i suoi meriti scolastici, ricevendo solo complimenti del tipo: "Brava, continua così!", sfiduciata e avvilita per non essere ancora riuscita a procurarsi un fidanzato, era arrivata alla conclusione di organizzare delle feste nella speranza di fare colpo su qualche suo compagno o amico. Dietro le sue insistenze e quelle della madre, il padre, persona severa e uomo d’ordine alla vecchia maniera, non era riuscito a negarle il permesso; in parte per assecondare i suoi desideri di ragazza modella, in parte perché inconsciamente nutriva la speranza che un giorno o l’altro la sua unica figlia, vicina al diploma e fra poco in età da marito, potesse incontrare il ragazzo della sua vita. Un po’ riluttante all’inizio, aveva poi ceduto ponendo però le sue precise condizioni: niente baldorie o schiamazzi in casa sua, ma solo qualche ballo e un po’ di musica, rigorosamente tra compagni di classe. Ne andava di mezzo la sua onorabilità di tutore dell’ordine e il buon nome della famiglia da sempre onorata e rispettata. Si era persino consultato col suo diretto superiore e aveva informato i suoi vicini di casa, che in un paese sono come una cartina di tornasole: e avendo avuto una specie di benestare, un lasciapassare, si era convinto che in fondo non c’era nulla di male se i ragazzi si fossero riuniti per ascoltare un po’ di musica. Subito dopo il pranzo della Domenica si premurava di spostare nella stanza adiacente, con l’aiuto della moglie, il tavolo e la piccola credenza, e metteva in bella evidenza una bottiglia di amaro Averna e il vassoio di pasticcini freschi comperati al mattino presso la pasticceria Romano; su suggerimento della moglie, naturalmente, per fare bella figura verso gli ospiti. Quindi, appena cominciavano ad arrivare i primi invitati, sotto braccio, il maresciallo Carmelo Cucuzza e la sua Aitina, uscivano per una lunga passeggiata che facevano durare fino all’ora stabilita della fine della festa.

"Per non mettere in imbarazzo gli invitati di nostra figlia", gli diceva la moglie con aria rassegnata. "La nostra Graziedda é una brava ragazza, e sa come cavarsela da sola. Non starebbe bene starcene lì come due cani da guardia a controllarli mentre ballano e si divertono".

"Certo! Loro si divertono e noi dobbiamo vagare per la città come due sfollati, come due cani randagi! Preferirei fare il cane da guardia in casa mia piuttosto che fare il corso dieci volte, girare per la villa, ripercorrere il corso e tornare ancora alla villa comunale. E perché poi? Per permettere a quattro giovinastri scansafatiche di divertirsi con nostra figlia, e a casa nostra! Curnutu e vastuniatu, ecco come mi sento!".

"Sei sempre il solito brontolone!", gli ripeteva Aitina con aria rassegnata, capace di fare qualsiasi sacrificio per la sua brava figliola. "Scrupoloso come sei, hai chiesto consiglio persino al tuo superiore e adesso ti arrendi a questo piccolo sacrificio".

"Ma solo perché hai insistito tanto! Buono quel capitano Muscazza! Ho fatto la grossa fesseria di raccontargli i fatti nostri. Lo sai che quando lo incontro mi sembra che rida sotto i suoi baffoni neri? Verso gli altri é magnanimo e sciorina consigli ad abundantiam, tanto non gli costano nulla! E la figlia? Altro che feste! Se la tiene attaccata alla sua divisa, l’accompagna a scuola e va a riprendersela "per paura, mi ha detto, che, carina com’è, possa fare brutti incontri". Credi che non l’abbia invitata a venire alla festa della nostra Graziedda? Mi ha risposto: "Vedremo. Domenica ha un impegno con la zia, ma appena si libera vedrai che te la mando con piacere!". Tu l’hai vista quella smorfiosetta? Ha paura di fare sfigurare tutte le altre con la sua bellezza? Forse é meglio così, altrimenti sarei dovuto scattare sull’attenti davanti a quel verme che se ne va in giro a pavoneggiarsi con la sua bella divisa d’ordinanza, con sotto braccio la sua cara moglie che sarà baronessa e piena di soldi, ma mi assomiglia ad una delle statue barocche di Palazzo Moncada. E adesso mi sono stancato di queste passeggiate domenicali; il corso, la villa, la rotonda! Ci manca soltanto che andiamo a fare visita al Redentore, ed abbiamo scandagliato la città in lungo e in largo! Tua figlia vuole organizzare una festa? Benissimo! E’ brava, studia, se lo merita: se tu vuoi girovagare per la città per fare spazio agli invitati di tua figlia, sei libera di farlo, ma io d’ora in avanti resto a casa mia!".

E così, l’ennesima passeggiata pomeridiana di Aitina e Carmelo andava avanti tra una discussione, una chiacchiera con un collega incontrato in piazza, un saluto ad un parente sempre più meravigliato di quelle strane visite domenicali, dopo anni di assoluto silenzio.

"Caro compare Carmelo", gli disse un giorno in confidenza il cognato Giovanni, con un pizzico di malizia, "Mi fa piacere che veniate a trovarmi quando volete, ma ditemi: vi hanno per caso sfrattato da casa?".

"Il fatto è, caro compare, che ai tempi d’oggi i figli sono diventati padroni di tutto, anche della casa. Se poi sono studenti, non ne parliamo! Avanzano sempre pretese cui è difficile dire di no, soprattutto se sono bravi e non ti creano problemi".

"Eh! Voi avete una figlia che è un tesoro! Quel testone di mio figlio non ne ha voluto sapere di applicarsi come la vostra, e solo adesso si rende conto cosa voglia dire sudare in miniera, a spingere vagoni e respirare veleni, piuttosto che faticare sui libri!".

"Non parlatemi proprio adesso di libri e di studenti! Chissà che baldoria stanno facendo in casa mia quella banda di scalmanati. Non fosse per mia moglie che pende dalle labbra di Graziedda, non permetterei queste feste domenicali. Tanto, sono io al lunedì mattina a sorbirmi le occhiatacce del capitano Muscazza, dopo quello che gli vanno a raccontare i vicini".

A questo punto cominciavano i pettegolezzi; compare Giovanni, che aveva sentore della rivalità tra Carmelo e Muscazza, raccontava di avere saputo dal figlio che gli avevano riferito di avere visto la bella figlia di Muscazza abbracciata a qualcuno alla villa comunale, etc. ..

 

Quando il maresciallo Cucuzza parlava della figlia Graziedda, rimarcava sempre la parola brava, a dispetto del capitano Muscazza che per la figlia usava fino alla noia l’appellativo di carina. Nessuno poteva negare l’evidente differenza fisica tra le due ragazze, bruttina e brava la prima, e carina e piena di sé la seconda, come spesso la natura si ostina a rappresentare lo scenario della vita. Per cui tra i due dell’arma, il capitano e il subalterno maresciallo, si era instaurata una rivalità sotterranea, una specie di guerra a distanza, alle spalle delle figlie apparentemente ignare, che si espletava in battutine più o meno pungenti. Quando ad esempio veniva effettuata la premiazione per meriti scolastici per i figli della "benemerita" e Graziedda era sempre la prima a ricevere il premio dalle mani del capitano Muscazza, questa girava la testa in segno di soddisfazione verso il padre Cucuzza che a sua volta gesticolava con compiacimento verso il capitano facendo roteare il suo avambraccio destro e inarcava le ciglia, come per dire: "Hai visto che figlia! La tua quando vedrà un simile premio?". Oramai ogni minimo gesto ed ogni frase erano un dispetto sottinteso. In occasione della festa dell’arma toccava invece al capitano riprendersi la rivincita sul suo maresciallo, perché era la bella figlia Teresina ad aprire il ballo e ad essere ammirata e mangiata cogli occhi da tutti. Allora Muscazza, con un sorriso che dilatava i baffi fino a toccarsi le orecchie, sembrava tuonare nei padiglioni auricolari del maresciallo Cucuzza: "Che pezzo di figlia! Come ha fatto tua moglie, che in fondo non é da buttare via, a partorire uno sgorbio come Graziedda?". E questa era l’ironia della sorte, la contraddizione: una donna carina aveva partorito una figlia bruttina e viceversa. Il capitano Calogero Muscazza, sempre in elegante tenuta militare, sfigurava un po’ vicino alla moglie per cui, a compensazione, quando poteva si portava dietro la bella figlia Teresina; il contrario faceva il maresciallo Cucuzza che era geloso della moglie Aitina a causa delle galanti avance e dei tanti salamelecchi che le faceva il suo capitano. I due erano sul piede di guerra e in cuor loro avevano giurato che alla prima occasione avrebbero fatto esplodere la sotterranea rivalità che si era creata: complici indirette le rispettive mogli e figlie.

 

"Ti amo! " continuava a ripetere Graziedda nelle orecchie di Ludovico, "Ti amo! Perché non me lo dici anche tu che mi ami?".

Ludovico, muto come un pesce, continuava il suo ballo con Graziedda, quasi annoiato e stanco di sentirsi ripetere in continuazione quella supplica. Gradiva il dialogo e la compagnia della sua amica, gli piaceva discutere con lei di storia e filosofia, di corolle e pistilli, godeva del suo abbraccio e del calore delle sue tette, ma dire "ti amo" gli sembrava scendere ad un compromesso troppo impegnativo e fuori tempo. Quel pomeriggio il suo ardore lo aveva spinto sì a compromettersi con un bacio davanti a tutti, fino al punto da meritarsi un applauso generale, ma poi, tornato in sé, rosso come un peperone e bollente come il sanguinaccio appena uscito dalla pentola del macellaio, capì che non era il caso di spingere oltre le sue mosse. Non intendeva dire "ti amo" neanche per scherzo alla sua amica che, convinta di avere fatto la sua prima conquista e al settimo cielo, pretendeva che Ludovico traducesse in parole e in sentimenti un atto fisico per lui del tutto naturale e piacevole, visto che se n’era presentata l’occasione. Per lei, invece, quel ballo mozzafiato e quel bacio inaspettato rappresentavano il risultato sperato e voluto, dopo le passeggiate alla villa comunale, durante le quali si erano appena sfiorati, ma aveva inteso che il suo amico voleva andare oltre coi suoi discorsi e le sue allusioni. Si era veramente innamorata di Ludovico e credeva che questi lo fosse altrettanto di lei. Lo abbracciava sempre più forte, lo accarezzava, lo implorava, pendeva dalle sue labbra, ma Ludovico sembrava irremovibile alle sue dichiarazioni e alle sue suppliche sempre più appassionate. D’un tratto Ludovico si era reso conto dell’errore che aveva commesso, dello sbaglio madornale che aveva fatto a infondere in Graziedda una speranza, uno spiraglio di accondiscendenza verso i suoi sentimenti veri e seri. Anche lui era alla sua prima esperienza amatoria e mai prima di allora si era trovato in simili situazioni imbarazzanti. Ballare, abbracciare, toccare, erano per lui una scoperta piacevole che non andava al di là del fatto fisico e temporale, che non intaccava necessariamente la sfera dei sentimenti, almeno fino a quel momento e con la velocità della luce. Non sapeva cosa fosse l’amore, né voleva saperlo quel pomeriggio. Il suo amico Salvatore aveva intuito il dramma che stava passando Ludovico, e, tra un ballo e l’altro, aveva cercato di istruirlo a dovere.

"Vuole sentire "ti amo?", e diglielo, perdiana! Non sarà la fine del mondo!".

"No! Non glielo dico, perché non lo sento e non me la sento! Non voglio imbrogliare quella povera ragazza già piena di problemi e di complessi", gli rispose deciso Ludovico.

Ludovico non assomigliava a Salvatore che, al suo fianco, si stava dimenando come una tarantola, abbracciato all’ennesima ragazza di turno e alla quale stava raccontando chissà quali sciocchezze e recitando tanti "ti amo", buttati lì a profusione. Quello era di facile innamoramento, faceva il cascamorto ad ogni piè sospinto, era capace di stare ore e ore sotto una finestra o spostarsi da un paese all’altro per seguire le mosse di una gonnella; era insomma il classico dongiovanni capace di prendere cotte dalla mattina alla sera con molta disinvoltura. Per lui la parola "ti amo" era come un "incipit", aveva il valore di un "ciao" buttato lì distrattamente. Era capace di innamorarsi di una fanciulla intravista da una finestra, di seguirla e tampinarla per tutta una giornata, e di recitare tanti "ti amo" come un rosario. Per Salvatore quella parolina aveva lo stesso significato di tante altre, ma per Ludovico significava compromettersi e soprattutto ingannare la sua migliore amica.

I giorni seguenti per Ludovico furono giorni di passione. Graziedda se lo mangiava cogli occhi, non lo abbandonava un solo istante. Il suo sguardo languido e appassionato sembrava ripetergli in continuazione la sua richiesta d’amore, voleva e pretendeva quel "ti amo" negato durante il ballo della Domenica. La risoluta ostinazione dell’uno cozzava contro la decisa volontà dell’altra ad ottenere ciò che ardentemente desiderava. Per lei, tenace e volenterosa, che dallo studio otteneva ciò che voleva, e che era stata capace persino di piegare la volontà del padre a quelle feste, non era facile rinunciare a quel ragazzo. Pensava, rifletteva e quasi impazziva all’idea di poterlo perdere adesso che credeva d’averlo quasi conquistato. Sarebbe stata capace di tutto, persino di uccidersi, pur di realizzare il suo sogno.

 

Il maresciallo Cucuzza, che più non sopportava quello stato di cose, per le continue critiche dei vicini e le pungenti battute del suo capitano Muscazza, era deciso a porre fine alle feste domenicali. Le malelingue gli avevano persino riferito che non di feste si trattava, ma di vere e proprie orge, che, autorizzate da un maresciallo, assumevano una particolare gravità. Cucuzza, ormai risoluto a troncare ogni maldicenza, informò la moglie della sua decisione. Ma la resistenza di questa e la ferma opposizione della figlia, portarono ad un compromesso : si sarebbe tenuta l’ultima festa e con la presenza del padre. La madre, che aveva sempre parteggiato per Graziedda, era libera di decidere se restare o se andare a trovare un suo parente.

"Caro Cucuzza!", gli disse il capitano Muscazza quando seppe di questa decisione. "Visto che si tratta dell’ultima festa e che hai tanto insistito a che mandassi mia figlia Teresina, vuol dire che domani ci sarà anche lei. Sempre che ti faccia piacere!".

"Eccome, signor capitano! Graziedda sarà felice di avere come ospite vostra figlia, finalmente. Sicuramente sarà la più bella della compagnia!", soggiunse un po’ pungente.

Muscazza, preso in contropiede per quel complimento inaspettato, incassò la battuta limitandosi ad un :

"Arrivederci a domani", e farfugliando tra sé e sé:

"Sfotti pure. Vedrai che figurone farà la mia Teresina!".

 

E venne l’ora dell’ultima festa. Alla notizia della presenza del capitano Muscazza e della figlia, donna Aitina decise di restare in casa per fare compagnia al marito, piuttosto che andare in visita da compare Giovanni. Furono fatti i preparativi del caso, ai soliti pasticcini si aggiunsero i cannoli di ricotta conditi con zucchero e pistacchio. Giunsero gli invitati, il solito grammofono cominciò a gracchiare melodie strappalacrime, cominciarono i balli. Gli occhi di tutti erano puntati verso la porta, impazienti di vedere la stravolgente bellezza di Teresina che, da un momento all’altro, avrebbe fatto la sua comparsa in casa. Graziedda, più esasperata che mai, era sempre aggrappata a Ludovico nella speranza di strappargli quel "ti amo" che questi si ostinava a negarle, Salvatore, appassionato e innamorato, passava da un abbraccio all’altro, nella focosa impazienza di mettere le mani su Teresina. Non fosse stato per l’aria elettrizzata per l’attesa dell’arrivo di questa, sarebbe stata una Domenica come le altre. Ma un twist scatenato fece da esca ad un putiferio imprevedibile. Una pistola, sciagurata, scappata dalla cintola di un "ballerino", cadde a terra e, scivolando per la sala, pose fine alla sua corsa proprio tra i piedi del maresciallo Cucuzza che in quel momento si apprestava a deporre sul tavolo un vassoio di pasticcini. Successe il finimondo! In sala echeggiarono le urla del maresciallo che, superando l’alto volume della musica, pretendeva di conoscere quel disgraziato che si era permesso di presentarsi armato in casa sua, maresciallo dell’arma!

"Non posso crederci : un ospite armato in casa mia! Siete dei banditi, ecco cosa siete! Si faccia avanti quel pazzo che ha osato offendere la mia ospitalità. In galera lo mando, in galera!".

Il maresciallo Cucuzza non si dava pace. Doveva succedere proprio adesso quel putiferio, ora che finalmente il capitano Muscazza si era deciso a mettere piede in casa sua ? Non restava che calmarsi e fare una veloce ma ferma ramanzina a quei ragazzi, per chiudere in fretta l’increscioso incidente.

Il ballo fu interrotto e tutti si precipitarono intorno al maresciallo nel tentativo di calmarlo e di fare piena luce su quel fatto deprecabile. In quel frangente, il suono del campanello pose momentaneamente fine all’agitato conciliabolo. La porta si aprì e gli ospiti tanto attesi fecero la loro comparsa. Era arrivata Teresina! Una bellezza mozzafiato si presentò in sala, e tutti gli occhi dei presenti si focalizzarono su quelle tette da capogiro e sulle sue labbra rosse e carnose. Dietro di lei, come un’ombra, i baffi sorridenti del capitano Muscazza, in elegante divisa d’ordinanza, e in atteggiamento di chi è in procinto di prendere applausi a scena aperta. Squadrò i presenti, girando il capo a destra e a manca, e fece un gesto col braccio come per dire: "Ecco a voi la mia bella Teresina!". Ma rimase perplesso e raggelò alla vista del maresciallo Cucuzza con una pistola in mano, nel pieno di una festa da ballo, tra i suoi giovani invitati. Trasalì, si rabbuiò, agitò nervosamente i suoi baffoni neri, e, prima che questi riuscisse a dargli una spiegazione plausibile, urlando una frase incomprensibile, acchiappò per un braccio la figlia Teresina nel tentativo di trascinarla fuori della sala. A quella scena, Salvatore, che con fiuto da furetto già si era avvicinato alla nuova arrivata, istintivamente l’afferrò per l’altro braccio cercando di trattenerla. Un violento ceffone si stampò sulla sua guancia sinistra, mentre Muscazza strattonava la figlia, che già distribuiva sorrisi di circostanza, e la depositava fuori della porta.

"Con te, Cucuzza, faremo i conti domani in caserma!", fu l’unica frase comprensibile che i presenti riuscirono a percepire distintamente, prima che la porta si chiudesse violentemente alle loro spalle. E sparì assieme alla figlia Teresina. Esterrefatta lei, di stucco gli altri!

Il tutto nel lasso di qualche minuto, come un fulmine che, a ciel sereno, colpisce e distrugge ogni cosa. Così erano svaniti i sogni di Salvatore, che era riuscito soltanto ad annusare la sua preda, ed in modo drammatico finiva l’allegria della festa. Il maresciallo Cucuzza, sbalordito e affranto, non riusciva a darsi pace per quanto era successo sotto i suoi occhi, che erano lì per vigilare, e che invece avevano assistito a scene che mai avrebbero voluto vedere. Intanto tutti i presenti cercavano Graziedda, sempre innamorata di Ludovico, che sembrava come volatilizzata, scomparsa dalla sala. Era tanta la confusione e tale lo scompiglio che quella maledetta pistola aveva creato, che più che una festa sembrava un angolo del mercato comunale il sabato mattina. Alle urla di Cucuzza che, rosso in faccia, pretendeva che il colpevole si facesse avanti, si erano aggiunte quelle di Aitina che cercava di sfondare il bagno dove presumibilmente si era rinchiusa Graziedda, disperata d’amore e colma di vergogna: che però non dava segni di vita. Finalmente la porta fu aperta e s’intravide il corpo della sventurata, la bocca piena di bave. Fu chiaro a tutti che aveva messo in atto un tentativo di avvelenamento. Il maresciallo Cucuzza, abbandonata la pistola sul tavolo, corse dalla figlia mentre Salvatore, Ludovico e gli altri si davano da fare per chiamare un’ambulanza. Quando questa arrivò, Graziedda, che stava un po’ meglio anche se ancora intontita, continuava ad implorare e chiamare Ludovico. L’ambulanza sparì a sirene spiegate verso l’ospedale con Graziedda ed il maresciallo Cucuzza, sparirono Ludovico, Salvatore e gli altri, la festa finiva in tragedia! Anche la pistola sparì dal tavolo, dove l’aveva depositata il maresciallo.

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Graziedda si salvò, fece gli esami e fu promossa : non ebbe però il piacere di sentirsi dire "ti amo" da Ludovico. I due, comunque, rimasero buoni amici.

Ludovico, che indirettamente era stato la causa dell’avvelenamento di Graziedda, giurò di non cacciarsi mai più in simili pasticci, con promesse d’amore avventate.

Salvatore, rimasto con tre palmi di naso per avere soltanto sfiorato Teresina ed essersi beccato un ceffone dal capitano Muscazza, continuò per anni ad inseguire gonnelle e mietere vittime.

Il maresciallo Cucuzza ed Aitina giurarono che mai più avrebbero ospitato feste in casa loro.

 

E la pistola? Evidentemente, tornò nella cintola del legittimo proprietario, che nessuno dei presenti riuscì mai ad individuare: almeno ufficialmente, s’intende!

 

 

Personaggi

 

Carmelo Cucuzza maresciallo

Aitina moglie

Graziedda figlia

Giovanni compare

Calogero Muscazza capitano

Teresina figlia

Ludovico fidanzato di Graziedda

Salvatore studente