LA PIAZZA

In convulso passeggiar,
anime in pena,
se ne vanno da mattino a sera
per la piazza grande,
da fantasmi agitati e da visioni
accomunati da un unico problema.

A due o tre insieme,
a braccetto per farsi più coraggio,
sguardo assente e occhi rassegnati,
come soldati nella piazza d'armi
marciano al ritmo d'una banda assente,
piena la mente di pensieri grandi.

Giunti in cima alla piazza,
quasi alla Chiesa,
con sincronismo da sergente ardito
tornano indietro fino all'altro capo
per poi tornare al punto di partenza.

Inchini e saluti a non finire
incrociandosi ad altri,
chissà se vivi,
assillati dagli stessi pensieri di domani,
discorrendo di problemi esistenziali.

Quando le verdi acacie ti facean corona
era una festa:
di bianchi fiori odorosi tutta adornata
dispensavi meriggi di ristoro
a sfaccendati in cerca di frescura.

E grande sollievo regalavi
ai vecchietti che da mane a sera
sotto le ampie fronde riposavan
raccontando di guerre e di sventure,
gli occhi velati di perenne pena.

Le tue bancarelle il dì di festa
eran la gioia di tutti noi bambini,
felici dei regali in bella vista
o sulla giostra girar da burattini.

Hai visto transitare tutti i Santi,
la Madonna piangente dietro la bara,
la banda in palco suonare le marcette,
scoppiare i fuochi tra gente impaurita.

Miserie ne hai viste proprio tante:
disperati cercare un po’ di pane,
mietitori imploranti sul selciato,
innocenti cadere sotto il piombo
di crudeli mafiosi e di briganti.

Povera piazza,
che visioni e che discorsi strani
hai dovuto subire in tanti anni:
potessi riordinar la tua memoria,
riscriveresti del paese
tutta la storia!


Correvano gli anni cinquanta: la guerra, da qualche anno, era finalmente finita, e l’Italia tutta si avviava ad una lenta ricostruzione dei disastri patiti in quegli anni di tremenda follia. Il paesello, che contava poche migliaia di anime, fortunatamente non aveva subito danni di rilievo: solo alcuni gradini della scalinata, che portava alle vecchie scuole elementari, erano rimasti danneggiati da un colpo di cannone sparato dagli americani contro i tedeschi in fuga verso Palermo, e qualche vetro rotto in seguito alla violenta esplosione di una bomba lanciata da un aereo, in una vicina contrada. Per fortuna, le sue vecchie case ed i suoi vicoli erano rimasti intatti, ed i suoi abitanti non avevano dovuto piangere la caduta dell’unica e sempre pericolante Chiesa, com’era successo cento anni prima. Allora, erano stati i cunicoli sotterranei delle vecchie miniere di zolfo a minarne la stabilità, ed il poeta Alfano aveva levato il suo grido di dolore per la momentanea perdita del piccolo luogo di devozione.

Il paese, adagiato su una piccola collina, sorgeva intorno ad una grande piazza, a forma rettangolare, dove si svolgeva la vita della comunità. Ad un’estremità della piazza era stata elevata la Chiesa, e tutt’intorno vi sorgevano i bar, il circolo, la farmacia, i negozi. La piazza era il luogo deputato al passeggio festivo, era attraversata dai festosi cortei nuziali e da quelli tristi dei funerali, per la piazza passava la processione che portava al Calvario l’urna col Cristo morto, e lì, il giorno di Pasqua, la Madonna s’incontrava col figlio risorto. Quando giungeva il mitico cantastorie Ciccio Busacca, sistemava il suo piccolo palco all’angolo di "Termini", e tutto il paese correva ad appostarsi intorno ai suoi cartelloni, intrisi di rosso, per ascoltare le storie di omicidi e di vendette. Allora era tutto un pullulare di persone che, sedia in spalla, si precipitavano per accaparrarsi il posto migliore, in prima linea. Nel periodo della mietitura, il muretto, di fronte al circolo ed al medico Tortorici, faceva da tavolo e da letto a tanti poveri mietitori, giunti dai paesi vicini, in cerca di qualche giornata di lavoro. Ed il barbiere? Lo spazio antistante la porta di zi’ Birtinu, che oltre ad essere, da sempre, un bravo barbiere fungeva anche da giornalaio, era sempre pieno di sedie sulle quali sedevano altrettanti agricoltori pensionati che discutevano di semina, di siccità e di tutti i malanni che la "divina provvidenza" si ostinava ad elargire a tanti poveri diavoli, già disgraziati per natura. E zi’ Birtinu, dai loro discorsi, rimuginava che avrebbe fatto fatica ad incassare i crediti che vantava verso quei suoi affezionati clienti: un tumulo di grano per un anno di barba e capelli a tutta la famiglia! Ciononostante, faceva regolarmente omaggio del suo grazioso profumato calendario, col piccolo pendaglio in seta colorata, che, oltre a mettere in evidenza il nome dei Santi, poneva in bella mostra le forme erotiche di femmine prosperose, che facevano sognare e ben sperare in un migliore avvenire. Calendario che, come santa reliquia di inestimabile valore, veniva ben conservato nel portafogli, insieme alle rare banconote. Parecchi giorni prima della festa dei santi protettori, San Giuseppe e la Madonna del Rosario, il falegname approntava un enorme palco in legno, sul quale si sarebbe esibita la banda di Cianciana o di Favara. Imponente e adornato di festoni colorati, occupava la parte sud della piazza, quasi addossato alla farmacia, in modo che la gente, che sarebbe accorsa numerosa a sentire il suono degli strumenti, poteva sistemarsi nel verso della sua lunghezza, fino a saturare ogni spazio fin verso la chiesa madre. Finita la festa ed ascoltata l’ultima opera, sempre importante e rinomata, verso mezzanotte, lo sparo di un mortaretto annunciava che i fuochi erano pronti: allora la gente sciamava nel verso opposto, verso la chiesa, in attesa di applaudire i fuochi ed i botti che avrebbero concluso le celebrazioni della festa solenne. Per l’occasione, tutta la piazza pullulava di bancarelle, che esponevano giocattoli e leccornie varie, mentre alcuni ambulanti, coi loro carrettini variopinti, dispensavano zucchero filato e semi di zucca, abbrustoliti e salati.

In poche parole, era l’anima e la vita del paese.

Quella grande piazza, in terra battuta, era circondata da tante acacie, dai fusti enormi, ai nostri occhi, che le davano un tono di solennità, e che con la loro ombra, nei mesi estivi, riparavano dalla calura tanti sfaccendati, giovani o meno, che stancamente si portavano da un posto all'altro. Nei mesi invernali, però, la pioggia abbondante che scendeva dalla collina, la riempiva di pozzanghere e la trasformava in un gran pantano, con i disagi e le difficoltà che é facile immaginare. Nel periodo estivo, invece, succedeva il contrario, dal momento che era sufficiente un alito di vento o il passaggio di un carretto perché l’abbondante e secca polvere rendesse l’aria irrespirabile.

Finché un bel giorno, tra lo stupore generale, giunsero dei grossi camion carichi di sabbia e piastrelle, ed un nugolo di operai cominciò a lastricare la grande piazza ed una piazzetta adiacente, il "dopolavoro". Un lavoro imponente, mai visto!

Per noi ragazzini, e non solo per noi, fu una gran festa, che durò parecchi mesi, assistere a quelle complicate operazioni. Finite le lezioni e lasciate le cartelle a casa, si correva in piazza e si stava accoccolati ad osservare gli operai che, con mano sapiente, deponevano le piastrelle in modo da formare un mosaico, picchiavano con un martello per farle aderire le une alle altre, ne estraevano una perché troppo bassa e la sollevavano con della sabbia, la tagliavano, la smussavano, la rigiravano. Un lavoro che richiedeva abilità e tanta perizia, agli occhi di noi ragazzini.

Anche i più anziani stavano lì, dalla mattina alla sera, a controllare l'avanzamento dei lavori, con la mente oltre che cogli occhi: poiché suggerivano agli operai di sistemare bene quell’angolo, perché soggetto ad abbassarsi con la pioggia, di stare attenti alla cunetta, di raddrizzare quella piastrella perché un po’ storta. Non si capiva se lavorassero e sudassero più gli addetti ai lavori, sotto il sole cocente, o i curiosi che, a fine giornata, continuavano a discutere, con amici e parenti, sullo stato di avanzamento dei lavori.

Finalmente l’impresa ebbe termine, e ci ritrovammo con una bella piazza vestita a nuovo, lucida come il vestito il giorno della festa del Santo, liscia come una pista di un aeroporto. Inspiegabilmente ed insensatamente, però, erano stati sradicati tutti gli alberi, cosicché ci ritrovammo privati dell’ombra e del profumo delle vecchie e amiche acacie! Resisteva ancora soltanto il grande pino secolare che, con il cinguettio dei suoi tantissimi ospiti, rallegrava e disturbava insieme gli abitanti del paese, dall’alba fino al tramonto.

Come d'incanto, su quella piazza, comparve un gran numero di biciclette e soprattutto di monopattini, che scorrazzavano da una parte all'altra sulla liscia superficie. Peppi Marancìalicu un bel giorno mise in mostra il suo bel "carrùazzu", che gli aveva costruito il padre fabbro, e che destò la meraviglia e la curiosità di tutti gli amici: quattro ruote, uno sterzo ed un sedile erano sufficienti a fare scivolare quell'attrezzo da una parte all’altra della piazza, con gran divertimento dell'autista e di quanti lo spingevano.

Alcuni giorni dopo vide la luce "lu carrùazzu" di mio cugino, più bello e più veloce del precedente!

Ormai era una gara, la pista c'era, e bisognava solo creare le macchine.

Non feci in tempo a chiedere a mio padre il mio attrezzo da corsa, che già il progetto era pronto ed i lavori cominciarono immediatamente. Una piccola piattaforma ellittica di legno con dei laterali in ferro, tre grossi cuscinetti a sfera come ruote, un sedile sopraelevato e, meraviglia, uno sterzo rotondo con presa diretta sulla ruota anteriore ed un freno a pedale! Quasi una vera macchina, altro che "carrùazzu"!

Tutti i pomeriggi mi piazzavo in bottega a seguire l'avanzamento dei lavori e già sognavo di battere tutti gli amici in velocità, su e giù per quello spiazzo levigato.

Era tutto pronto per il "varo" di quella meraviglia e, circondato dagli amici, ero pronto a salire in macchina per il via, quando all'improvviso successe il finimondo: una lite furibonda tra vicini di casa, urla e schiaffi, pistolettate, l'arrivo dei carabinieri, gente che correva a far da paciere, il quartiere in subbuglio. Sembrava fosse tornata la guerra!

Con mio gran dispiacere e disappunto, la bottega venne chiusa, e tutto fu rinviato all'indomani: ma il giorno seguente, fu una grande festa.

Quella macchina filava veloce e silenziosa: uno prendeva posto alla guida, un secondo "passeggero" sul sedile di legno, mentre un terzo, dopo aver dato delle spinte, saltava sul predellino posteriore, e via per centinaia e centinaia di metri, dalla chiesa fino al bar, dal bar alla piazzetta e ancora verso la chiesa. E le frenate? Non era più necessario frenare coi piedi e rovinare i tacchi delle scarpe che, terrore di tutti i bambini, venivano ricoperti da una mezzaluna di metallo: bastava toccare il pedale, e la macchina, come d’incanto, s’arrestava. Una meraviglia! Avesse avuto un motore, sarebbe stata una vera macchina da corsa!

Tutti volevano provarla, tutti volevano fare un giro per la piazza per sentire il brivido della velocità: allora aguzzai l'ingegno e organizzai un piccolo commercio. Proposi il pagamento di cinque lire per tre giri della piccola piazza del dopolavoro, con riconsegna al punto di partenza.

Quello strano noleggio funzionava a meraviglia, tranne che, ogni tanto, malauguratamente, si verificava qualche piccolo inconveniente; alcuni scalmanati, a volte, scappavano verso lo stradale e giù verso il fiume, in discesa, per chilometri e chilometri. Ed erano fatiche enormi e sudate, allora, riuscire a riacciuffare i furfanti e spingere quell’attrezzo, in salita, per riportarlo in paese.

Fu, comunque, un’estate memorabile!

Poi venne l'autunno, si riaprirono le scuole, partii per il collegio: "lu carrùazzu" finì in soffitta, dimenticato da tutti.

Lo ritrovai dopo tanto tempo, in solaio, abbandonato e ricoperto di polvere, quasi un cimelio! Mi fece tanta tenerezza vedere quel giocattolo, a misura di bambino, sfrecciare, con tre passeggeri a bordo, attraverso la piazza. Con tanta nostalgia ricordai quegli anni della mia fanciullezza, la grande piazza in terra battuta, le vecchie acacie, i lavori di restauro.

Che tempi da mito!