LA PERNICE BIANCA

     Storie di Sicilia

 

Tramontata la fortuna normanna, alla fine del XII secolo s’instaurò in modo impetuoso e travolgente il regno del grande Federico II: che benché tedesco di origini, figlio di Enrico VI e nipote del Barbarossa, si rivelò in tutte le sue attività di carattere prettamente italiano. Usa la lingua tedesca solo per rivolgersi alla schiera dei suoi soldati d'oltralpe, ma parla e scrive l'italiano o l'arabo: e quasi disdegna la lingua latina perché emissione della potestà divina del Papato contro la cui tiara solleva minaccioso il suo potere imperiale. Dice il Bartoli:

"Alla Bibbia del prete egli minaccia di contrapporre la Bibbia del laico, quasi precursore di Lutero ed erede del grande Giuliano. Né il misticismo del medio evo, né le sottigliezze della scolastica, né i garbugli dei teologi, fanno presa su cotest'uomo, che vive d'amore, di guerra, di poesia, di scienza, mezzo orientale, mezzo romano, fatalista e stoico".

Spese tutta la sua vita per cercare di congiungere il regno di Sicilia al resto dell'Impero, osteggiato in questo suo proposito da tutti i Papi che attraversarono la sua esistenza, da Celestino IV a Innocenzo III, da Onorio III a Gregorio IX, fino a Innocenzo IV, che giurò di distruggerne la stirpe, perché timorosi di perdere il loro potere temporale.

Bollato da diverse scomuniche se ne infischiò controbattendo punto su punto alle tesi papali, costretto a condurre una crociata in terra santa ne tornò trionfatore re di Gerusalemme senza spargere una goccia di sangue (con grande ira del Papa che sangue voleva che scorresse contro gli infedeli); bollato come infedele, apostata, spergiuro, anticristiano dimostrò che veri anticristi erano loro, i papi, e non lui uomo di fede e tollerante delle fedi altrui. Dopo la sua morte gli scrittori della chiesa cercarono di diffamarlo in tutti i modi, contestandone la sua origine e persino di sotterrare vive nel suo palazzo le donne dei suoi nemici: "Li tre donni e chi mali cci abbinni", dice un detto popolare riportato dal Fazello.

Morto Federico le ire si riversarono sui suoi discendenti Manfredi e Corradino, fino alla chiamata, da parte di Papa Clemente IV, dell'odiato e vituperato Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, Luigi IX, circondato da altrettanti odiosi avventurieri francesi. Morto Manfredi a Benevento, il d'Angiò non esitò a portare sul patibolo in piazza del Mercato a Napoli, Corradino ed i suoi compagni, la mattina del 29 ottobre 1268, alla presenza di tutta la corte. Sottopose il regno a continue vessazioni, spoliazioni d’ogni genere, a barbarie e crudeltà, finché non scoppiò il famoso "Vespro", merito della sapiente organizzazione di Giovanni da Procida che mise in atto un'imponente sollevazione popolare, il 30 marzo del 1282, e che al grido "Morte ai Francesi" furono eliminati tutti gli angioini presenti a Palermo.

Ma con la cacciata degli angioini le cose non migliorarono: la dominazione spagnola (aragonese e castigliana) e quella borbonica, per cinque secoli, lasciarono l'Isola in uno stato di abbandono, di analfabetismo, di miseria e di ignoranza. Frati e monache dei numerosi conventi di tutta la Sicilia si rimpinguavano incamerando la parte migliore del territorio, l'inquisizione mieteva vittime in ogni parte, gli ebrei venivano perseguitati. I nuovi signorotti, piuttosto che governare, consideravano il paese come terra di conquista: per due secoli si susseguirono sanguinosissime azioni di violenza e di brigantaggio da parte dei Chiaramonte, De Luna, Sclafani, Moncada, Caprera, Alagona, Perollo e tanti altri.

Ad un secolo dal Vespro era sorto un governo che aveva portato vantaggi ma anche gravi danni: erano migliorate le leggi, erano stati riformati gli ordinamenti per le imposizioni fiscali ed era stato ripristinato un certo ordine pubblico. Ma si era instaurata una nobiltà straniera ed il baronaggio era diventato molto potente, per cui tra la popolazione erano sorti odi e rancori. Finché si trattava di organizzarsi contro un nemico comune, popolo ed aristocrazia potevano contare su un aiuto reciproco ed organizzarsi in armi, ma passato questo pericolo nuove discordie ed antipatie minavano le forze del paese che così restava indebolito nei riguardi di una dominazione straniera ed in balia di se stessa.

Sparito il grande Federico II, che con forza ed energia aveva saputo tenere a freno tanti dissapori e motivi di discordia, verso l'inizio del 1400, vennero a galla tutti i rancori celati fino al quel momento. Nell'Isola si erano instaurate varie nobiltà che evidentemente non riuscivano ad amalgamarsi tra loro:

 

 

la nobiltà dei Normanni, insediatisi in Sicilia da oltre tre secoli, e che quindi si considerava la più antica ed autorevole
la nobiltà degli Angioini, più recente

- la nobiltà degli Aragonesi, per ultima, la più forte.

Queste tre nobiltà, a seconda degli interessi, si alleavano ora con l'una ora con l'altra, coinvolgendo il popolo che partecipava alle contese ora per vendicarsi dei vecchi padroni, ora per cacciare i nuovi. La Sicilia era quindi in uno stato di completo abbandono e desolazione, quando Martino, nipote del re di Aragona, decise di prenderne possesso, dopo avere sposato Maria, ultima erede della stirpe aragonese dei re di Sicilia. E dovette superare tante e gravi difficoltà per giungere al suo scopo, dopo anni di tremende lotte. Non esisteva più un ordine sociale ma solo arbitrio, l'autorità regia non era più tenuta in nessun conto, le lotte partigiane erano all'ordine del giorno ed a governare era la violenza dei privati. Andrea Chiaramonte, figlio di Manfredo, saputo dell'arrivo in Sicilia di Martino e sua moglie Maria, si barricò in Palermo, per opporgli resistenza. Ma viste le forze preponderanti di questi, si arrese a patti: Andrea fu perdonato della ribellione, mentre re e regina s’insediavano nel 1388.

Il re emanò un'ordinanza secondo la quale nessun cittadino poteva entrare armato nei suoi palazzi. E qui il Cabrera, squallido e odioso personaggio, gran giustiziere di corte, ordì la sua trappola mortale. Questi consigliò ad Andrea di non andare in giro inerme, dal momento che, odiato da tanti, poteva correre seri pericoli di vita, e lo invitò a rendere omaggio al re. Il Chiaramonte accettò di buon grado l'invito, ed entrato armato nel palazzo reale assieme alla sua scorta, ricordandosi dell'ordinanza reale, si apprestava a deporre le armi, quando il Cabrera lo rassicurò che l'ordinanza non valeva per le persone di un certo lignaggio, soprattutto se in sua compagnia. Cadde così nel tranello: fu arrestato dalle guardie ed imprigionato assieme ai suoi cinquanta amici. Condannato a morte per tradimento, fu decapitato in piazza Marina, davanti alla sua casa, lo Steri, mentre i suoi amici furono uccisi a colpi di saette. Molti nobili dell'isola si ribellarono: intervenne il re Martino contro costoro, ma alla fine fu stipulato un accordo con perdono generale.

Nel 1402 moriva la regina Maria e Martino passava, l'anno appresso, a seconde nozze con Bianca, figlia del re Carlo di Navarra. In Sardegna regnava allora un altro Martino, padre del marito di Bianca e re di Sicilia. La rivolta dell'isola permise a Martino di andare in Sardegna a posto del padre per domare la rivolta, sia per acquisire nuovi meriti, sia per difendere la sua prossima eredità, lasciando la Sicilia nelle mani della moglie Bianca, con pieni poteri. Dopo aspre lotte riuscì a domare la rivolta in Sardegna, ma vi morì per malaria nel 1409. Poco dopo moriva anche il padre, che era stato nominato suo erede, lasciando Bianca vicaria del regno.

Bianca, avvenente vedova, poco più che ventenne, si ritrovò sul suo capo il pesante fardello di un regno allo sfascio, alla mercé di approfittatori ed avventurieri di ogni genere, perseguitata da avventure più che romanzesche. Bernardo Cabrera, catalano, aveva seguito Martino in Sicilia, in occasione della conquista del regno, mosso da mania di intrighi ed avventure. Aveva comunque aiutato il re in varie circostanze, soprattutto quando, trovandosi questi in pericolo, era tornato in Aragona a fornirsi di armi, cavalli e fanti, vendendo le sue terre, ed aveva ribaltato a suo favore una situazione che volgeva male per Martino. Per i suoi meriti venne ricompensato con grandi onori, con la contea di Modica e fu nominato gran giustiziere del regno. Appena morto il re, lasciò la Sardegna diretto in Sicilia, deciso a far valere il peso della sua potenza, viste le circostanze propizie. Ma il Cabrera era uno dei tanti avventurieri di cui era piena la Sicilia, in balia di conquistatori stranieri. Sancio Ruitz de Lihori, anche lui catalano come il Cabrera ed anche lui partecipe della campagna di Sardegna, descritto come uomo astuto e destro, accetto al re non meno che alla regina, grande ammiraglio, aveva già avuto modo di misurarsi col Cabrera nei vari consigli del re, visto che fra i due non correva buon sangue. Entrambi si erano distinti in Sardegna a fianco del re Martino dando prove di valore in varie circostanze: ma il re, morendo, nel suo testamento non aveva menzionato il Cabrera, mentre era stato prodigo di doni e citazioni verso il Sancio. Si può quindi immaginare l'odio e la sete di vendetta del Cabrera appena sbarcato nell'isola: vi giungeva deciso a tutto, pur di conquistare il regno e fare un dolce boccone della bella e giovane regina che, assieme al Lihori, deteneva ogni potere.

Odiato e malvisto dai baroni, si era attirato l'odio di buona parte dei suoi stessi conterranei catalani. La notizia della morte del vecchio Martino rese più vive le sue ambizioni ed organizzato un piccolo esercito a Palermo, si prepara a partire verso Catania, dove Bianca, conosciuti i bellicosi propositi dell'odiato Cabrera, si era rinchiusa nel castello d'Urbino, mentre il Lihori ed i suoi seguaci facevano buona guardia intorno. Il fatto che Martino morendo non aveva designato alcun erede a succedergli animava ancora di più il Cabrera nei suoi propositi, nonostante si fosse riunito a Taormina il parlamento che, in modo chiaro, decideva l'elezione di un nuovo re di casa Aragona e che ne fosse designato il figlio di Martino, Federico, conte di Luna, siciliano. Il Cabrera irrise a questa decisione sapendo che durante l'interregno, in base a certe leggi, il governo della Isola spettava al gran giustiziere, cioè a lui: dichiarò quindi nulle tutte le decisioni prese dal parlamento e ribelli quanti vi avevano aderito. E mettendo in pratica le sue minacce cominciò ad invadere città e territori, da una parte all'altra dell'isola, cercando proseliti alla sua causa.

Anche Bianca si attivò ad attirare dalla sua parte baroni e città. con promesse di restituzione di terre ed antichi privilegi. Il risultato fu che si crearono inevitabilmente due fazioni, una favorevole al Cabrera, seguito dai baroni e dalle milizie assoldate, e l'altra favorevole a Bianca ed al Lihori, con lo stesso intento di accaparrarsi il potere in nome del re d'Aragona. Fra i due schieramenti resistevano gli antichi feudali e quanti, memori di una patria, odiavano il potere e l'arroganza dei nuovi signori. Ma essendo la minoranza non potevano che allearsi, per non soccombere, ora a Bianca ora al Cabrera. Il Cabrera aveva conquistato l'appoggio dei palermitani perché questi, morto Martino, vedevano in lui, gran giustiziere del regno, un punto di riferimento per sottrarsi all'autorità del re spagnolo. Ma presto scoprirono, alla morte del secondo Martino, le sue ambizioni di avventuriero, a capo di una masnada di facinorosi. Si ribellarono quindi in nome dell'indipendenza dallo straniero e proposero a Bianca di sposare il Peralta, siciliano e discendente dell'ultimo re Federico, offrendo loro il regno di Sicilia. Questa accettò, suo malgrado, pur di salvare il regno: ma il Cabrera, fiutato ciò che stava accadendo, propose a Bianca di addivenire ad un abboccamento convinto di poterle mettere le mani addosso, finalmente, dopo tutti i tentativi andati a vuoto, sia col tradimento sia con l'inganno. Bianca, scaltra e malfidente, accettò, ma l'incontro, o meglio il colloquio, si sarebbe svolto a distanza, lei in mare sul ponte di una galea ed il Cabrera a terra, su un ponte di legno. E l'incontro avvenne: ma quando il Cabrera propose alla regina di sposare lui al posto del Peralta, dicono le cronache che Bianca esclamasse: "Via di qua, vecchio scabbioso!".

Questo episodio avveniva in Catania, nei pressi del castello d'Urbino. Ben conoscendo l'ira che avrebbe acceso l'animo del Cabrera, ordinò al capitano della galea di farsi condurre a Siracusa, nel più sicuro castello di Marchetto, custodito dal Lihori. E qui si apre una pagina da romanzo: il Cabrera, adirato per la mancata conquista della regina e quindi del regno, parte alla volta di Siracusa, circonda il castello per terra e per mare, e da l'assalto alla rocca che in breve sembra cadere nelle sue mani. Il Cabrera già si vede la regina tra le braccia, quando Giovanni Moncada, prode cavaliere, mosso da chissà quali sensi di colpa, chiede a Cabrera di desistere dalla conquista della rocca e dalla cattura della regina. Avuta risposta, manco a dirlo, negativa, abbandona il Cabrera e corre in difesa della rocca liberandone una parte dall'assedio per permettere a Torello di accostarsi con la galea e tentare la via della fuga. Il tentativo riesce, ma mentre Bianca si appresta a dirigersi verso la galea per mettersi in salvo, scoppia una furiosa battaglia, il ponte cede, si rompe, e la regina é costretta a tornare precipitosamente indietro verso la rocca. Ma il Moncada con un attacco improvviso circonda l'armata del Cabrera e lo sconfigge mettendolo in precipitosa fuga. E Bianca finalmente può partire verso Palermo, scortata dal Moncada che, messo per una seconda volta in fuga il Cabrera, accompagna la regina nel palazzo Chiaramonte.

La brutta avventura corsa da Bianca sembra finita e non le rimane che pensare a convolare in seconde nozze col Peralta, come promesso e stabilito tempo prima. Ma i guai di Bianca non finiscono qui! Il Cabrera, non ancora domato, intercetta dei messi che dalla Spagna portavano un messaggio a Bianca, in cui si chiedeva da parte delle cortes un periodo di tregua nelle varie rivendicazioni al trono, in attesa che venisse designato il successore al defunto Martino. Interpretando ciò come una trama a suo danno decide di tornare all'attacco senza perdere tempo: da Alcamo, dove si era arroccato, giunge a Palermo, deciso ad assalire la residenza della regina e finalmente farla sua. Nottetempo muove verso lo Steri, dove Bianca sta dormendo, ignara dei propositi del Cabrera: ma ancora una volta la fortuna é dalla parte della regina, perché un amico corre ad avvisarla di ciò che sta succedendo e la invita a darsi alla fuga prima, che sia troppo tardi. Senza indugio Bianca, assonnata e semivestita, scappa dal palazzo dei Chiaramonte e corre verso il mare dove la ormai famosa galea del Torelli la sta aspettando, mettendosi al sicuro.

Il Maurolico così descrive ciò che avviene allo Steri:

"In questa il Cabrera, sicuro della sua preda, s'avanza alla sala ove già Bianca dormiva. Ira e stupore lo coglie a vedere scomposta la coltrina e solo il letto. Lo tocca: é tiepido ancora. Quasi insanito, spoglia le armi, e ‘Se mi sfugge la pernice, grida, tengo il suo nido!’ E si gitta sulla tiepida piuma e di qua e di là annasando, s'inebria di quella voluttà, onde il cane da caccia va fiutando il covo della sua preda.…". L'episodio narrato dal Maurolico, spiega in parte l'accanimento del Cabrera nel dare la caccia alla regina Bianca di Navarra, ammaliato dalla bellezza e dalla sensualità di questa, non meno che dal potere e dei tesori di cui poteva disporre: due componenti che non lasciarono scampo al povero e vecchio Cabrera, che meglio sicuramente riusciva con le armi sul campo di battaglia piuttosto che con la seduzione in campo amoroso.

Saccheggiato il palazzo, il vecchio libidinoso, come viene definito nella collana storica siciliana, provvede a venderne ogni tesoro, e si asserraglia assieme ai suoi masnadieri nella fortificata Palermo. Giungevano intanto in Sicilia disposizioni che affidavano al Cabrera il governo dell'Isola fino all'elezione del nuovo re e che Bianca desistesse dalle sue rivendicazioni dietro una certa somma. Bianca, forse stanca di tante avventure, decise di accettare e si apprestava a ritirarsi a Catania, quando il Lihori ed il Moncada, raccolta una buona truppa, andò incontro al Cabrera stanandolo e riducendolo a mal partito. Rinchiuso in una cisterna rischiava di affogare, quando il Lihori mosso a pietà, lo tirava fuori per rinchiuderlo in carcere. Dopo qualche tempo veniva eletto re d'Aragona Ferdinando, che, liberato il Cabrera, lo chiamava a corte. Bianca ritornava in Navarra, dal padre, dove in seguito, finalmente, poté regnare.

 

Cronologia di Bianca

Figlia di Carlo III di Navarra

Nasce nel 1385

Sposa Martino d'Aragona, nel 1402, alla morte di Maria

Martino muore nel 1409, in Sardegna, di malaria

Martino il vecchio muore nel 1410

Disavventure col Cabrera dal 1410 al 1415

Torna in Spagna nel 1415

Sposa Giovanni d'Aragona nel 1419

Muore il padre nel 1425

Regina di Navarra dal 1425 al 1441

Muore a Nievas nel 1441