"Foto dall'archivio di Federico Messana".                                                                  "Foto di proprietà della Società Letteraria di Verona".


                                                                                                                                                            
1) Lucciola e Lina caico
                                                                                                                              2) La Firefly

LUCCIOLA  E   LINA CAICO

Una grande scoperta di carattere storico e culturale è stata fatta qualche anno addietro quando, morta la signora Gina Frigerio di Milano, i figli abitanti nel veronese scoprirono in una cassa del solaio un pacco di piccole riviste scritte a mano. Trattandosi di materiale che al solo tocco rischiava di andare in briciole, diligentemente lo affidarono alla Società Letteraria di Verona per uno studio approfondito. I signori addetti alla consultazione, si trovarono dinanzi ad una storia che ha dell'incredibile; ed ancora più affascinate si presenta a chi, avendo conosciuto l'artefice di un simile capolavoro, rimane entusiasta ed estasiato, allo stesso tempo, per come l'evento sia rimasto sotterrato nel dimenticatoio per tanti anni. E come spesso accade in questi casi, l'evento assume valore ancora più grande che se fosse stato conosciuto sin dal suo nascere.

Visto che tutta la storia parte da lontano, forse è meglio iniziare il racconto descrivendo l'entroterra in cui è maturata tutta la vicenda.

 

ANTEFATTO

Montedoro è un piccolo paese del nisseno, al centro del famigerato Vallone, a pochi chilometri da Racalmuto che ha visto nascere e levarsi la voce di Leonardo Sciascia. Adagiato su una piccola collina, tra gessi e miniere di zolfo, Montedoro vanta alcuni primati tra cui quello d'avere dato alla luce, nel corso di un secolo, a ben tre vescovi ed un cardinale, il Guarino, che si appresta agli onori degli altari.

Verso la fine dell'ottocento il Paese di Montedoro era praticamente alla mercé di una famiglia, i Caico, che, più che vantare origini aristocratiche o nobiliari, gestiva una certa ricchezza derivata dal possesso di molte terre e di alcune miniere di zolfo, all'epoca all'apice della produttività. Sin dalla metà del seicento, dalla sua fondazione quindi, i Caico si erano stabiliti in paese con un certo Orazio, per giungere verso la metà del settecento a don Martino, uomo prepotente e quindi a don Franco Caico (1803-1858, dodicesimo figlio di Martino), denominato per il suo grande cuore "Il padre di Montedoro".

Figli di don Franco furono: Cesare (1829-1898), Federico (1840-1919), Giulia (1849-1931), ed Eugenio (1852-1931), l'unico che prese moglie.

Ma chi fu veramente questo don Cesare? Un personaggio di rilievo certamente se, a distanza di oltre un secolo, é ancora vivo nella memoria e nella fantasia popolare.

Nonostante lo stretto ambito in cui si trovò ad operare, la sua figura é stata mitizzata ed é passata nella storia del nostro piccolo paese per il suo ingegno a volte bizzarro, per la sua vasta cultura e per la sua intraprendenza civile e politica.

Il Petix ne fa una accurata descrizione nelle sue memorie, ma noi vogliamo semplicemente tracciare alcuni aspetti della sua vita quasi romanzesca.

Don Cesare fu uno degli ultimi eredi di una vecchia, nobile e facoltosa famiglia che per circa tre secoli fece praticamente la storia del paese. Tra i suoi avi si possono annoverare ricchissimi baroni, medici illustri e tanti preti, naturalmente, di cui uno persino eletto quale commissario della cosiddetta "Santa Inquisizione", che poi più che santa era un'organizzazione criminale che, in nome della fede cristiana, martirizzava sadicamente poveri diavoli colpevoli di nulla. Ma risaltano anche personaggi illuminati, come suo padre, che fu presidente del comitato rivoluzionario nel 1848, e signorotti volgari e prepotenti, come lo spregiudicato don Martino, ricchissimo, possessore di vari feudi, ma che per la sua immorale e violenta condotta divenne odiato e malvisto dalla cittadinanza (litigò violentemente col duca di Serradifalco Don Francesco Lo Faso).

Il padre di Cesare, don Franco, preso da amor patrio e molto impegnato civilmente, ebbe molte cariche nel circondario e lasciò un alone di grandezza al punto da essere definito il "padre del paese" (era stato presidente del comitato rivoluzionario montedorese nel 1848, contro i Borboni). Anche lui, come gli antenati, ebbe naturalmente la sua dose di debolezza con le donne: caratteristiche queste, donne e amor patrio, che ritroviamo nel nostro don Cesare.

Cesare da giovane venne mandato a studiare a Girgenti, capoluogo di provincia e sede di un famoso seminario, e infervorato dalle idee patriottiche del padre, venne arrestato perché fautore della liberazione della Sicilia dai Borboni. Nel 1860, all’annuncio dello sbarco di Garibaldi, fu tra gli agitatori e i promotori di azioni contro il nemico che teneva in ostaggio l’Isola. La politica locale lo vide in primo piano; fu eletto sindaco e consigliere provinciale. Teneva carteggi con tutti i rivoluzionari dell’epoca e tra i suoi amici annoverava patrioti come Coriolato e Menotti Garibaldi, che ebbe ospiti in paese.

Quando nel 1867 scoppiò il colera, si adoperò per mitigare quell’infausto evento e insieme al Dott. Migneco, medico omeopatico di Augusta, studiò un rimedio per mitigare quel malanno che infestava tutta l’Isola. La sua abnegazione e l’impegno pecuniario oltre che civile, gli valsero una medaglia d’oro da parte del Comune.

Ma viene ricordato soprattutto per l’impegno che pose nel volere fare passare dalle vicinanze del paese, la ferrovia che doveva congiungere Girgenti con Palermo. Sembrava ci fosse riuscito, anzi i lavori erano già iniziati quando, caduta la Destra storica e andato al potere il De Pretis, la strada ferrata prese un’altra direzione. La sua intraprendenza e il suo accanimento fu tale da riuscire a portare persino il ministro Zanardelli a constatare di persona l’avanzamento dei lavori. E giacché questi si trovava in paese, fu ospite nella sua casa.

Fra le sue iniziative va ricordato di avere mandato il gonfalone del paese a Firenze in occasione del sesto centenario della nascita di Dante, di avere esposto a Vienna nel 1873 i prodotti della sua terra, di avere ottenuto un brevetto per un nuovo tipo di fucile.

Fu socio di molti circoli letterari, ebbe una ricca biblioteca (tra cui il famoso libro "Sicila antiqua" del Cluverius) e, si dice, abbia avuto a pranzo il famoso romanziere Dumas padre (quello dei tre moschettieri).

A questo punto era facile passare al mito! Si racconta che, essendo approdata nel porto di Palermo la Squadra Navale Italiana, don Cesare, a sue spese, offrì il pranzo a tutto l’equipaggio!

Possessore di terre e miniere di zolfo, racconta sempre il Petix nelle sue memorie, in un anno di ottimo commercio dello zolfo, in occasione della festa patronale del SS. Rosario, pagò i suoi dipendenti con sonanti monete d’oro!

Infine, Vincenzo De Castro, nel 1872, fece pubblicare a sue spese un opuscolo che doveva magnificare il nostro don Cesare, ma che, a giudicare dal contenuto, riuscì soltanto a fare sfoggio della sua compassata eloquenza.

E le donne? Pare ne abbia avute tante, e che, anche se timido, sia stato un "gran puttaniere!".

Un fratello di don Cesare, Eugenio, nel 1880 sposò una ricca ereditiera inglese, Louise Hamilton, una donna colta ed intelligente, femminista ante litteram, che sballottata dalla sua Inghilterra in un paesetto nel culo del mondo, soffrì molto le differenze di cultura, di abitudini, di tradizioni, assurde per il mondo da cui proveniva. Nel 1910 scrisse un bel libro, "Vicende e costumi siciliani" (Sicilian ways and days), ricco di annotazioni ed osservazioni spesso sarcastiche, che dà la misura dei costumi e della vita che si conduceva all'epoca nel paese.

Per oscuri motivi, forse per evitare la dispersione del patrimonio familiare, don Cesare (il pater familias, di 25 anni più anziano di Eugenio) aveva ostacolato il matrimonio del fratello, per cui i nuovi coniugi furono costretti a dimorare a Bordighera, dove risiedevano i genitori di lei.

E qui nacquero i loro cinque figli, Franco (morto in fasce nel 1881), Lina(1883), Giulia, Federico e Letizia(1892). Finalmente don Cesare dette al fratello il benestare di rientrare in paese, ma da solo. Confidando di riuscire a convincere don Cesare, Eugenio nel 1894 si trasferì a Palermo, in attesa che arrivasse il beneplacito, che fu concesso soltanto nel 1897: e solo allora tutta la famiglia poté mettere piede a Montedoro. (Vi rimasero fino al 1913).

Morto don Cesare (1898), animatore della famiglia, nei primi anni del novecento l'atmosfera in di quella casa doveva essere diventata notevolmente pesante se, i rapporti di Louise con Eugenio, non erano dei migliori. Questa infatti, più che stare a sentire i brontolii della padrona di casa, la cognata Giulia, preferiva andarsene in giro per le contrade, a dorso di cavallo, accompagnata dalla guardia campestre Alessandro Augello che le faceva da guida. E curiosa ed intelligente com'era, scrutava, memorizzava fatti e situazioni, osservava usi ed abitudini della gente, ai suoi occhi strana ed incivile rispetto alle sue abitudini ed alla sua educazione britannica. I noiosi rumori, come i violenti fuochi d'artificio e le martellanti "tammurinati" la infastidivano moltissimo. E frequenti erano i suoi spostamenti a Londra dove, mettendo a frutto tutto il suo lavorio mentale, dette alle stampe il libro menzionato.

 

LA STORIA DI LUCCIOLA

Anche a Lina, la maggiore dei quattro figli, nata il 6 giugno del 1883, istruita nei migliori college inglesi e francesi, stava evidentemente molto stretta la cultura e la vita del piccolo paese paterno, vista la frequentazione di un certo livello culturale cui era abituata la famiglia (Ezra Pound era di casa). E per mantenere i contatti con le amiche conosciute nei vari college, s'inventa, non possiamo sapere quanto per giuoco o per diletto letterario, una specie di rivista ambulante, denominata LUCCIOLA, scritta a mano, che, passando di mano in mano tra le varie corrispondenti, s'implementava lungo il percorso per completarsi alla fine del giro. Una specie di catena di sant'Antonio, il cui scopo era quello di conoscersi meglio tra le righe, parlando dei fatti della vita, di politica, di letteratura, d'arte. Non sappiamo se e quanto la gestazione di una simile impresa sia stata difficile, ma spesso le cose improvvisate hanno la migliore riuscita.

Lina non era nuova ad esperimenti del genere dal momento che, nei vari college, era di moda dare vita a simili iniziative. In Inghilterra era nata una rivista di nome "Firefly", in Germania si chiamava "Parva favilla", in Francia "Mouche volante". Esperimenti, comunque, limitati nel tempo e nello spazio. E diverse erano in Italia le riviste a stampa alle quali collaboravano tante ragazze di buona famiglia, come "Rivista per le signorine", "Voci amiche", e "Prima lux". Ma come dirà una socia alla fine della sua collaborazione con Lucciola, "una rivista a stampa non può essere come una rivista manoscritta". E qui sta infatti la differenza, un'originalità che nasce dal modo di passarsi la rivista e dal fatto ch'era manoscritta.

La rivista, partendo dallo sperduto Montedoro raggiungeva le corrispondenti, tutte e solamente donne (erano ammessi solo pochi uomini, cugini o fratelli), nei vari luoghi d'Italia, affidando la corrispondenza ai mezzi di trasporto dell'epoca, treni regi e carrozze. Che a giudicare dal risultato funzionavano abbastanza bene se, nel volgere di due o tre mesi, raggiungeva oltre 40 località, da Montedoro a Catania, a Napoli, a L'Aquila, a Firenze, Modena, Venezia, Verona, Milano, Bergamo, Como, Pavia, Biella, Saluzzo, etc. Così nasce la rivista che viene chiamata "Lucciola", piccola lanterna vagante che, unica nel suo genere e senza riferimenti, né prima né poi, vagherà per tutta Italia, dalla Sicilia alle Alpi, dal 1908 al 1926, anno della definitiva chiusura.

Il fascicolo a cadenza mensile, dalla copertina intarsiata e lavorata a mano (in una foto dell'epoca si vede Lina Caico intenta alla preparazione della prima copertina), veniva "inizializzato" dalla direttrice del momento, quindi raggiungeva le corrispondenti che, nel volgere di due giorni al massimo (pena una multa!), annotavano le loro osservazioni, esprimevano i propri pensieri di donna, parlavano di politica, di vita in genere, ponevano domande (che trovavano risposta nei numeri successivi, visto che nel frattempo erano in viaggio altri fascicoli), inserivano foto e racconti, e lo spedivano al destinatario più vicino che faceva altrettanto. Finché non tornava nuovamente al luogo di partenza. Così per ben 18 anni, questa rivista in unico esemplare per numero e scritta a mano, vagò carico di sentimenti, di preoccupazioni, di ansie, per le strade italiane, sfidando persino gli anni della guerra, per giungere miracolosamente a noi per puro caso. Tutta la raccolta é stata infatti scoperta nella "solita" cassa del solaio dell'ultima corrispondente direttrice, che meticolosamente ne era stata l'ultima custode, Gina Frigerio di Milano. Grande merito va ai suoi figli che l'hanno consegnata alla biblioteca della Società Letteraria di Verona che la custodisce gelosamente, ne ha curato una mostra e si appresta a pubblicare un CD ROM dell'opera.

Le corrispondenti, che si alternavano nella direzione della rivista, si firmavano con uno pseudonimo, com'era uso del tempo, usando per lo più il proprio nome, le proprie iniziali, o la sigla di un motto. Così Lina Caico si firma Lina, la sorella Letizia, abile suonatrice di violino e di pianoforte, si chiama Letizia, Gina Frigerio si firma v.f.s (veritate, fortiter, suaviter).

A proposito del motto che tanti scelgono come pseudonimo, Lina scrive sulla rivista: "Sullo stemma del principe ereditario d'Inghilterra, esso si trova ancora. Ma non attraverso i suoi onori nobiliari esso viene a me. Mi viene dalla vita, da tutta la vita. La vita del Creatore e la vita del chicco di grano. Poiché ambi lo dicono: Io servo. Non v'ha parola più umile e non v'ha parola più gloriosa: io servo. Tre idee esso contiene: io obbedisco, io opero, io giovo, e ciascuna di queste ha fusa seco una stessa compagna, che le dà vita: io amo".

L'intento iniziale era che la rivista si occupasse solo di vicende private, ma fu inevitabile che le argomentazioni si spostassero verso la politica, la letteratura, e verso i fatti contingenti dell'epoca, molto agitata dalla guerra del '15-'18 e dalle conquiste coloniali.

Il fascicolo era impaginato dalla direttrice, con dipinti, disegni, foto, copertine e frontespizi, propri o delle corrispondenti. Il contenuto della prima parte era essenzialmente letterario, con racconti, poesie, diari, descrizione di gite e conferenze. Nelle pagine finali era aperta la discussione, in cui le socie potevano esprimere i loro pensieri, porre domande, fare critiche. Le risposte delle socie arrivavano dopo qualche mese, al secondo giro di boa. Oggi, nell'era del computer e di internet, questo reperto quasi archeologico, ci appare come un'eredità prodigiosa. I fili delle esistenze di queste lucciole si annodano tra loro, e si vede la vita scorrere pagina dopo pagina.

Scrive Nunziatina nel '26: "Non credevo di dover vedere la fine di questo giornaletto. Per il bene che ne ho avuto io, avrei voluto che esso fosse tramandato come luce che non si spegne, come fiaccola ardente da una generazione all'altra, e che un giorno le figlie giovinette delle prime lucciole si ritrovassero fra queste pagine come sorelle". Dimostrazione di una esperienza interessante ed esaltante.

La crescita personale s'intreccia con gli avvenimenti collettivi in un gioco di interferenze. Così le dolorose attualità della grande guerra traspaiono nella rivista, con le sofferenze delle famiglie, il dolore per i morti. Nel 1911 l'Italia parte per la conquista della Libia, Fra le lucciole serpeggiano fermenti di entusiasmo colonialista. Così Giulia cita ruggenti versi di D'Annunzio, mentre Lanternino scrive un lungo reportage sulla visita alle tombe dei caduti di Sciara-sciat. Negli anni successivi cresce il fermento intorno alle terre irredente di Trento e Trieste, e Pia, che è triestina, si esprime con toni entusiasti perché fautrice dell'unione all'Italia di quelle terre.

A distanza di ben 80 anni, leggendo ed analizzando il contenuto della rivista, le sorelle Lina e Letizia Caico risultano le più colte, intraprendenti ed evolute del gruppo. L'educazione in Inghilterra e la religione protestante (poi si convertiranno al cattolicesimo) le rendono più liberi nei giudizi, e capaci di guardare con occhio critico alle tante convenzioni che le circondano in Italia.

Lina ricorda una pagina di un giovanissimo caduto, Manfredi Lanza di Trabia. La guerra è un'apocalisse che annuncia la palingenesi, ma anche una malattia che, se non mortale, si risolve con la rinnovata salute del corpo. In queste opinioni c'è il senso fatalistico e religioso di chi cerca una visione provvidenziale anche nelle catastrofi, ma in questo esprime la forza e l'energia della volontà di vivere.

Quando appare alla ribalta il partito fascista, vfs di Milano, nel 1922, aderisce al clima di attivismo che i fasci sembrano annunziare. Ma non Lina, che così risponde ad una corrispondente che si dimostra entusiasta verso il nascente fascismo: "…Ma ahimè, o sacri morti, possibile che non vi sia niente di meglio del Fascio a rendevi vero tributo d'amore: niente di meglio del Fascio a raccogliere quale eredità verso l'Italia nuova da plasmare? Io socialista non sono. Ma ancor meno sono fascista, o Rosa Sfogliata ! (pseudonimo della socia che elogiava il fascismo). Credi tu davvero che il fascismo come idea e come persone sia tale da produrre una novella Italia? Vorrei ben sapere che cosa c'è di novello nell'Italia che vogliono i fascisti…In queste pagine il "giorno della redenzione" si chiama pure "giorno della vendetta" e i fascisti sono esortati a strappare dalle profumate aiuole d'Italia le piante immonde (cioè ammazzare i socialisti). Mi duole trovare in queste pagine un piccolo, ma esatto documento della eloquenza fascista".

Lina era pervasa da una serietà profonda ed un grande senso religioso della vita, un'alta idea della dignità femminile, senza scadere nel bigottismo. Ecco cosa scrive per i suoi 25 anni compiuti nel 1908, ma trascritte su Lucciola solo nel gennaio 1914: "Nel ricopiare queste parole per la nuova Lucciola, Lina sente che non è mutata quella sua attitudine verso la vita; o meglio la sua aspirazione ad essa; poiché non è facile cosa mantenersi sempre in codesto intrepido, sereno equilibrio. Ma può mai esser facile quello che ha valore? Solo gli altri anni ora trascorsi hanno aggiunto gravità a questi pensieri. La vita è grave. E la domina non chi le si ribella, non chi pigro o frivolo la subisce, ma solo chi religiosamente l'accoglie e nell'accettarla pone tutta l'attività gioiosa e dolorosa dell'anima propria".

E sappiano, come accennato, che la sorte mise a dura prova il coraggio che si rispecchia in queste parole di Lina. L'amicizia creatasi attraverso la fitta corrispondenza, si protrarrà oltre la chiusura della rivista, che avviene nel 1926, dopo ben 18 anni di pellegrinaggio attraverso l'Italia. Lina nel 1942 (morirà nel 1951), inferma ed in ristrettezze economiche, viene accudita dalla "lucciola" Licia (Maura Mangione di Palermo), nella casa di Montedoro. E v.f.s (Laura Frigerio), mossa da senso religioso, le manda una carrozzina per invalidi (tanti in paese ricordano ancora Lina su questa carrozzella).

Il 14 luglio del '43, il paese è sotto il tiro dei cannoni americani che cercano di snidare i tedeschi. Lina, che conosceva ed insegnava sia il francese che l'inglese, scrive una lettera in inglese ai comandanti alleati attestati a Canicattì, chiedendo di non sparare poiché il paese è indifeso ed i tedeschi sono scappati verso Palermo. Il paese è salvo.

Finito il sodalizio, Nunziatina, commossa, scrive nel suo congedo: "Le varie grafie erano come altrettante voci".

Scoprire questa storia (ancora da studiare ed esaminare attentamente), di cui a tutt'oggi nessuno aveva parlato e raccontato (forse per l'innata riservatezza delle protagoniste, o perché all'epoca questa iniziativa era stata considerata di poco conto), mi ha riempito di emozioni; sia per la vicenda in sé, nata per scopi letterari e culturali, sia per le storie umane che inevitabilmente si sono intrecciate tra le varie corrispondenti di tutta Italia, mostrandone uno spaccato esemplare. Infine perché, se non ho fatto in tempo a conoscere Lina, una pia donna colma di sentimenti umani e cristiani, ho conosciuto la sorella Letizia, che negli anni sessanta, appariva strana ed eclettica, per via del suo violino e dell'ombrellino colorato, del quale mai si separava quando andava in giro per il paese nelle ore di massima calura. Ma che invece, insieme alla sorella, era stata una degna ambasciatrice nel mondo della cultura del profondo sud.

Per coloro i quali desiderassero approfondire le vicende legate al periodico manoscritto si consiglia la consultazione delle seguenti fonti, in ordine di pubblicazione:
 
- Leggere le voci. Storia di Lucciola una rivista scritta a mano 1908-1926, a cura di Paola Azzolini, Biblioteca Civica, Società letteraria, Verona, Cierre edizioni, 1995
- Daniela Brunelli, Il paratesto di una rivista manoscritta: Lucciola, 1908-1926, in I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro, Atti del convegno internazionale, Roma-Bologna 15-19 novembre 2004, a cura di Marco Santoro e Maria Gioia Tavoni, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 2005, pp. 523-541
- Leggere le voci. Storia di Lucciola, rivista manoscritta al femmnile, a cura di Paola Azzolini e Daniela Brunelli, Milano, Sylvestre Bonnard, 2007.

 




                                           LA Firefly

                                                                 di Lina Caico

(Il "manifesto" di Lina per reclutare un numero sufficiente di socie, per potere dare inizio alla rivista Lucciola.)

Firefly in inglese significa lucciola; letteralmente, "mosca di fuoco". Però in Inghilterra non ci sono lucciole alate, ma soltanto glow-worms, vermi lucenti, il cui piccolo bagliore si scorge tra l'erba nelle notti estive. Eppure è di una Firefly inglese che voglio parlarvi, una lucciola che vola, vola, portando la sua piccola luce di paese in paese, anche oltremare, lontano dall'Inghilterra, dappertutto dove c'è una delle persone che cooperano a mantenerla in vita.

Firefly è il nome di un "amateur magazine", una "rivista di dilettanti".

Il formare piccole società letterarie è un passatempo abbastanza comune tra la gioventù inglese: quasi ogni collegio ha la sua "debating society" che si riunisce per parlare, leggere i saggi, proporre 1' argomento da discutere. I soggetti di queste discussioni sono scelti dai membri stessi della società. Eccone qualcuno trattato in " debating societies " femminili. - Se i giochi dei ragazzi siano buoni o no per le fanciulle - Quale sia il genere di lettura più giovevole - Quale il migliore Sport - Quale si ritenga superiore: la musica o la pittura - Se sia bene o no che le donne entrino nelle professioni sinora esercitate dagli uomini. In queste discussioni regna la più gran libertà di pensiero e di parola, e non mancano gli spropositi e le risate, quantunque l'elemento serio prevalga.

Questo genere di società, che si forma pure fuori dei collegi, non ha nessuna professione di intellettualità superiore, non fa pompa di se, e viene considerata come un innocuo passatempo giovanile".

Molte altre volte non è una " società di discussioni " che si forma, ma un giornalino; ogni socia contribuisce con uno scritto, o una pittura, e quella che fa da direttrice li cuce tutti insieme, ed il libro che così viene a formarsi ogni mese, gira tra le collaboratrici, mandato per posta dall'una all'altra, quando esse abitano paesi diversi.

La Firefly è appunto una di queste " riviste di dilettanti ", e credo una delle più riuscite. E' già una prova di valore se essa esiste da sette o otto anni, senza interruzione, mentre questi giornalini hanno per lo più vita intermittente e di corta durata. Le socie della Firefly sono sparse per la Gran Bretagna; ce ne sono state pure in Francia, Ungheria, Danimarca, perfino in Russia; in generale queste straniere contribuiscono con pitture o fotografie. Per ora, la sola d'oltremare è in Sicilia... e sono io. Da parecchi anni sono socia della Firefly, ed il caro giornalino mi ha dato tanto piacere che ho pensato di parlarvene, per invogliare alcune di voi a seguire il nostro esempio.

Chiunque può entrare nella nostra piccola società tra i quattordici e i ventiquattro anni, ma si può seguitare ad appartenervi anche dopo varcato questo limite, se si vuole; ci sono adesso due socie che si sono sposate, ed ancora trovano il tempo di contribuire al giornalino. Anche i ragazzi sono ammessi, ma ne abbiamo avuto di rado. Quando le socie sono poche, la direttrice suole inserire un piccolo avviso in qualcuna delle riviste inglesi per giovinette; nelle colonne ove le abbonate chiedono scambi di cartoline, francobolli, o altro, spesso si legge l'avviso. "Si cercano socie per società di discussione", o "per società di pittura", o "fotografia", o "per rivista di dilettanti". Rivolgersi per regole e particolari alla direttrice signorina Tale". Fu appunto vedendo un avviso di questo genere nella Girl's Owon Paper che io mi associai alla Firefly.

Le socie devono pagare una piccola quota annuale che serve per la rilegatura dei fascicoli mensili, e pei premi di concorsi; con dodici socie basta uno scellino e mezzo a testa. Esse devono contribuire ogni mese alla rivista, con scritti, pitture, disegni, fotografie.

Bisogna che gli scritti siano tutti su carta dello stesso formato quello d'un quaderno solito, e che si lasci nel lato interno di ogni pagina un margine di tre centimetri; questo perché si possa rilegarli insieme. La direttrice incolla le fotografie e le pitture su carta da disegno a colore.

Prima del 25 di ogni mese bisogna aver mandato il proprio lavoro alla direttrice, la quale riunisce e ordina quanto riceve, vi aggiunge una sua lettera alle socie, l'indice, ed alcune altre rubriche. La prima che si trova, aprendo uno di questi fascicoli, è la lista degli indirizzi delle socie, preceduta dalle parole: "Dopo avere trattenuta la Firefly per una notte, ogni socia deve spedirla all'indirizzo che segue il proprio". Accanto ad ogni indirizzo sono due caselle, nelle quali ognuna segna la data dell'arrivo e della partenza del fascicolo; insieme ad esso si spedisce una cartolina alla direttrice per farle sapere quando lo si ha ricevuto e mandato; per ogni notte in più che 10 si trattiene, si paga un penny di multa.

Se non ci fossero queste regole, ogni fascicolo durerebbe parecchi mesi a fare il giro delle socie, o potrebbe smarrirsi senza che la direttrice lo sapesse per molto tempo.

Dopo la pagina degli indirizzi e delle date vengono quelle dei voti ", divise in caselle; nella prima colonna sono i nomi delle socie, le altre sono intestate: Racconti - Saggi - Poesie - Pitture - Fotografie. Ogni socia scrive, in fila col proprio nome, sotto ciascuna di queste intestazioni, il lavoro di quel tale genere che più le è piaciuto in questo fascicolo.

Di questi voti si tiene conto, ed alla fine d'ogni anno c'è un premio per chi ne ha ricevuto di più. Inoltre in fondo al fascicolo ci sono molte pagine bianche, nelle quali ogni socia - dopo aver tutto letto ed esaminato - scrive la sua critica dei lavori altrui; queste pagine sono molto interessanti, e danno da pensare, perché si vuole essere giuste senza essere scortesi, e trovare le parole esatte per qualificare i vari lavori, invece di limitarsi ad un comodo " bello ", o " brutto ", non motivato. Quando la firefly arriva, si guarda subito nelle pagine della critica, per vedere quello che le altre hanno detto sul conto del proprio lavoro! Alcune si sbrigano con poche righe, altre invece hanno sempre molto da dire. Il fatto che per lo più non ci conosciamo personalmente fa che possiamo criticarci con maggiore libertà.

Naturalmente non ci giudichiamo alla stregua di sentirci provette, ma teniamo conto dell'età, dell'ingegno. Perciò anche quando si critica severamente, il tono si mantiene benevolo; se mai qualcuna ha fatto osservazioni scortesi, o che sanno di satira maligna, le altre hanno subito dimostrata tale disapprovazione per questa mancanza di bontà, che il caso non si è ripetuto. Pare sia di prammatica - ed è ottima cosa - di non mai fare osservazioni sopra gli apprezzamenti delle altre sui propri lavori; tutt'al più succedono piccole polemiche sui meriti di lavori di terze.

Un fascicolo della firefly giunge sempre a più di cento pagine, alle volte a più di duecento; ma se fosse stampato si ridurrebbe a pochi fogli, e in un'ora o due lo si legge tutto. L'essere manoscritto dapprima fa senso ai nostri occhi moderni, così abituati alla stampa: ma a lungo andare ci si affeziona a vedere ogni lavoro colla scrittura dell'autrice; le diverse scritture ci danno un po' l'impressione di sentire la voce, di vedere l'espressione di ciascuna autrice; sicché quello che può parere un difetto finisce coll'essere considerato come un pregio.

Nella Firefly i veri racconti sono in minoranza; per lo più sono episodi allegri o patetici di vita infantile o giovanile, e a volte seguitano per più mesi. Un socio ci mandò una lunga storia di avventure più o meno verosimili, tra briganti turchi.

Le mariuolerie di due fratellini, due tipetti presi dal vero, ci fecero ridere per molto tempo. Tra i racconti più brevi' ne rammento uno assai grazioso, nel quale marito e moglie sono molto impensieriti dai frequenti furti notturni successi nel loro quartiere. Quella sera egli è invitato a pranzo, e rincaserà molto tardi; essa intanto è nervosa, pensa ai ladri, non può addormentarsi; ecco che sente un leggero rumore giù: i ladri!! Con gran coraggio scende piano, al buio, per accertarsene; intanto il marito era tornato, entrando piano per non svegliarla, e al buio ciascuno crede che l'altro sia il ladro, finché lui afferra lei che cerca scappare, riconosce il suo grido, e la luce elettrica pone fine al mistero.

Il più bel racconto, e anche il più lungo e il più serio che la Firefly abbia riai avuto è stato "Il libro dell'amicizia"; Esito a parlarne perché con poche parole non posso darne un'idea esatta. È la storia di due giovani che non si possono sposare perché lui deve sostentare col proprio lavoro la madre e le sorelle; egli pensa perciò sia meglio romperla, non vedersi più; ma essa crede sia possibile mutare l'amore in un'amicizia giovevole per tutti e due. Questa idea egli dapprima non la accetta, sembrandogli un'ingenua utopia, impossibile a realizzarsi quando ce l'amore vero. Ma essa è solo possibile per poche anime elette, non è certo incompatibile con l'amore il più vero, quello così grande da sorpassare e vincere ogni inclinazione egoistica. "Ognuno comprende solo quello che ritrova in se", e perciò molti credono che quanto più puro è un. affetto, tanto meno caldo e sentito esso è, mentre invece avviene precisamente al contrario.

"Il libro dell'amicizia " non ha quasi altri avvenimenti che quelli che succedono nella vita intima delle anime dei due giovani, ed è notevole soprattutto per la verità delle esperienze di queste anime sveglie, che acquistano luce e forza da ogni prova che attraversano. Essi imparano che l'amicizia può esistere e crescere, può dare dolcezza e conforto, anche tra due persone che non si vedono e non si scrivono; forse poche anime giungono a sentire chiaramente questa comunione di spirito, che non è più inverosimile della telegrafia senza fili.

Ed è notevole che l'amicizia sognata da lei non è raggiunta preoccupandosi dei propri sentimenti, trascurando tutto ciò che non ci riguarda, lavorandoci attorno sentimentalmente; è invece dedicandosi con amore al lavoro indefesso, che essi la raggiungono; è compiendo il loro dovere quotidiano, è dimenticando se stessi per occuparsi delle grandi e delle umili questioni che interessano l'umanità.

Ma non fo che guastare questo bel lavoro coll'accennare malamente le idee. Sono certa che un giorno lo vedremo pubblicato forse ampliato e con qualche modificazione suggerita dalle osservazioni delle altre socie, e la piccola Firefly sarà ben orgogliosa di averlo ospitato per la prima!

Qualche altro tentativo di romanzo non è stato un gran che e per lo più è rimasto incompiuto.

Gli scritti più numerosi, ed anche più riusciti sono brevi bozzetti, presi dal vero. Per esempio: " Un thè di ragazze ", nel quale prima assistiamo ai preparativi, e poi alle chiacchiere delle fanciulle. "Una giornata di perdite", nella quale ogni sorta di cose viene perduta da una comitiva- giovanile - il treno, la pazienza, l'ombrello, l'equilibrio, ed altre ancora; - però tutto si ritrova, ed i contrattempi non fanno che accrescere l'allegria della gita.

"Una chiesa di campagna", - oltre alla chiesa sono descritti i fedeli, e la via pei campi che vi conduce. - Marta-Maria della campagna - una piccola campagnola che viene a fare la serva in città e aspetta la padrona alla stazione d'arrivo - è tutta scombussolata e attonita in mezzo al confuso viavai della gente di città, mai vista prima. Comica la sua impressione di sorpresa e sollievo quando giunge la nuova padrona, ed essa non pare così formidabile come se l'aspettava Marta-Maria; poiché tutto le pare formidabile, in questo strano, nuovo mondo della città. Ma con la sua padrona amorevole e tranquilla Marta-Maria si rasserena, esamina la sua piccola cucina, cerca di fare tutto bene, e dopo lavate e ordinate le stoviglie scrive a sua madre, sulla tavola della cucina.

"La gioia e la tristezza di una nevicata in città" - descrizione viva ed immaginosa, che ben rende l'esultanza che si prova allo spettacolo della candida nevicata che tutto abbellisce, e poi lo sconforto della neve che si mescola al fango, che impantana e sporca, che gocciola, cade, e tutto impregna di fredda umidità. E poi ci sono descrizioni di giardini, di boschi, di collegi, di festa; e studi di persone - ne rammento uno riuscito su una brava ostessa di campagna. - E racconti di gite, di viaggi. Ora riceviamo lettere scritte alta nonna di una signorina che viaggia per diversi paesi, ed anche risale il Nilo; lettere briose e interessanti, quantunque parecchie socie non facciano che deplorare questo modo di viaggiare dando solo una rapida scorsa superficiale a tutto ciò che vi è di interessante e di famoso in ogni paese. Maggior simpatia ha incontrato un altro viaggio, attraverso la Francia e parte del Mediterraneo, quantunque fosse fatto per necessità e con risparmio, senza visitare nulla di notevole; ma era narrato molto soggettivamente, con gran copia di impressioni personali e di divagazioni.

Ultimamente una socia ci parlò di un mese trascorso al mare insieme alle amiche; una pittura semplice e viva di quattro fanciulle in vacanza, che insieme tengono casa, si bagnano nel mare, dipingono e lavorano sulla spiaggia, combinano in quattro delle recite di Shakespeare.... senza spettatori; fanno passeggiate, gite, pick-nick sulla spiaggia e nei campi. Pareva di vederle, allegre e libere, coi sandali, i comodi abiti lavabili, i capelli al vento.

Un altro soggetto sul quale scriviamo, sono i libri che leggiamo; rammento un bello studio su "Villette" di Charlotta Bronte, e molti altri pure interessanti, su lavori più moderni; naturalmente si cerca di leggere i libri che le altre ci raccomandano.

I versi non mancano e ce ne sono dei buoni. Una poesia recente è stata " L'esiliato ". - Tra la lussureggiante vegetazione indiana, innanzi alla grandiosa catena dell'Imalaia, un uomo rimpiange la " nebbia d'opale " e i " grigi tetti lucenti di pioggia " della sua cara Londra.

In una delle più belle poesie che abbiamo avute, parla una vera inferma condannata a non più levarsi dal letto e dal divano. Tutti fanno a gara per rallegrarla, le portano fiori e distrazioni, ma essa in segreto brama di essere lasciata sola per piangere sulla sua sventura. Ecco che giunge una persona che l'ama molto, e prova tale angoscia per l'infermità di lei che essa se ne accorge:

                                "E subitamente il mio dolore fu nulla.

                      Cercai di confortare lui".

A questo fine si mostra lieta, parla delle tante belle cose di cui si occuperà… E volendo persuadere lui, finisce col persuadere se stessa delle molte gioie che le rimangono. Così fa piani lieti per 1' avvenire che un momento prima le era parso un inutile vegetare, una perpetua dolorosa rinunzia. E termina con la speranza, non di dimenticare la propria dura sorte, - a sè non pensa più - ma di farla dimenticare a lui

"E allora riderò di nuovo!"

Ogni tanto abbiamo un concorso; le socie stesse ne suggeriscono i temi.

Il premio è sempre un libro. Ecco alcuni temi. - E' nociva o giovevole la lettura dei romanzi - Il mio passatempo preferito. - Un'avventura di Natale. Il mio personaggio storico preferito. - La stagione che più mi piace. - La mia signora ideale, o forse tradurrei meglio: il mio ideale d'una signora.

Signora non nel senso di maritata, ma in quello di donna signorile, distinta, fine; poiché l'inglese lady, che è anche titolo nobiliare, ha questo significato.

Mi sono già tanto dilungata che accennerò solo alle idee principali svolte in quest'ultimo concorso. Una definì il proprio ideale di signorilità femminile: "una gentildonna cristiana". Un'altra fece una poetica descrizione del tipo gentile ed elevato che è il suo ideale, e citò parole udite in una predica, sull'aiuto a migliorare che ci danno gli ideali, i quali sono tanto più giovevoli quanto più alti sono. Una terza disse che la signora ideale non è che l'esterno, la superficie, per così dire, della donna ideale. Paragonò questa ad una gemma, quella alla faccettatura che ne accresce e mostra la bellezza; ma come nessuna faccettatura darà mai ad una gemma falsa il valore e la bellezza di quella vera, così è inutile tentare di essere signora ideale se prima non si vuol essere donna ideale. Perciò, prima di tutto, curiamo di essere gemme vere! Seguitò traendo molte riflessioni dal paragone tra il lavorio che la gemma naturale, opaca e informe, trasforma in una piccola meraviglia di simmetria, di scintillio, e ciò che rende una donna signora.

Un altro concorso interessante è stato quello delle citazioni originali; si doveva mandare quattro pagine di pensieri presi da libri letti; l'originalità stava in questo, che dovevano essere brani che - per quanto si sapesse - non erano mai stati citati prima. Fu una graziosa coincidenza che tre concorrenti presero le loro citazioni da libri di George Eliot; fu davvero un'accolta di pensieri originali e profondi, sia arguti che seri.

Ho detto tanto sulla parte letteraria della Firefly che non oso dilungarmi su quella artistica che è composta di fotografie, disegni, pitture, ed ha anch'essa i suoi concorsi. Una socia bravina, che ha studiato l'arte sul serio, dà utili consigli alle altre pittrici; le persuade a non mai copiare altri lavori, ma dipingere sempre dal vero, se vogliono progredire, se hanno vero amore all'arte, per quanto inabili siano. Fiori, paesaggi, figure, sono i soggetti più soliti. Abbiamo anche avuti disegni per spillo, fibbie cintura, copertina di libri, dorsi di carte da giuoco. La nostra migliore artista, oltre alle pitture, ci manda spesso figure nude, finemente disegnate a penna. Oltre ai pregi del disegno corretto, ammiro in esse l'assenza di ogni posa conscia della nudità, sia ritrosa che procace. Sono figurine snelle e gentili che spirano un non so che di franca naturalezza, di grazia semplice e sicura.

Vorrei raccontarvi ancora molte cose sulla Firefly, ma credo aver detto abbastanza per darvene un'idea, e per invogliare quelle di voi che amano la letteratura e l'arte, ma si sentono solitarie nei loro intenti, a unirsi, pur abitando paesi diversi, ed avere una "Lucciola" anche loro.

Ma non è soltanto per farvelo desiderare che vi ho parlato di questo passatempo. Quando la nostra Direttrice istituì la Catena d'oro, e ci invitò tutte a cooperare in qualche in modo all'opera sua, mi chiesi: Io che posso fare? Ci ho pensato e pensato, e per molte ragioni ho dovuto scartare tanti bei progetti di riunioni tra ragazze per giovare ai bambini, ai poveri, a noi stesse con le festicciuole, il lavoro, la lettura, la compagnia reciproca. Oh, spero che ci arriveremo... ma chissà quando! Per introdurre un po' di lieta socievolezza, per allargare la cerchia di ciò che interessa le giovinette, per distruggere ridicoli pregiudizi, io mi adopero quanto posso senza dare noia. Ma non potrei intanto fare qualche cosa per la Catena d'oro, portare il mio piccolo contributo all'opera buona? E ho pensato che potrei fondare un giornalino come la Firefly, riunire parecchie fanciulle lontane e procurare loro questo bel passatempo. Io posso fare da direttrice poiché ne ho avuto l'esempio, se non l'esperienza; la direttrice ha da fare da copista, e in parte da rilegatrice. C'è da ricopiare le critiche di ogni fascicolo per unirle a quello del mese seguente, affinché ognuna possa leggere quello che scrissero le socie che ricevettero il fascicolo dopo di lei.

Uno dei migliori risultati di questo passatempo è che esso si porta ad interessarci a tali cose che prima ci lasciavano indifferenti, e che ora esaminiamo con attenzione, per vedere se si potrebbe scriverci su qualcosa; poiché è quasi sempre dal vero che scriviamo, come s'è visto dagli esempi dati. Specialmente per chi non ha molto ingegno, o è molto giovane, è assai più utile scrivere dal vero che inventando. E lo scrivere sui libri che leggiamo ci insegna a leggere attentamente e riflettendo

Le socie della Firefly non sono delle letterate, delle scrittrici, e non se ne danno le arie. Basterebbe il fatto che essa è un manoscritto, per impedirci qualunque gloria di pubblicare. E probabile che qualcuna un giorno scriverà abbastanza bene perché i suoi lavori vengano pubblicati; e molto le avrà giovata questa palestra giovanile ove essa fa le sue prime armi tra un piccolo pubblico pieno d'attenzione e d'interesse, che vuole a sua volta essere ascoltato e giudicato. Altre non vi giungeranno, ma egualmente utile sarà stato per loro questo passatempo che spinge a sviluppare le proprie idee, a interessarsi a quelle altrui e a tanti soggetti che altrimenti passerebbero inosservati, a lavorare col pensiero.

Anche quando non si può sperare di diventare scrittrici, il comporre può essere un utile diletto, purché sia bene indirizzato e non rubi tempo ad occupazioni più importanti. Una brava autrice inglese incoraggia a scrivere le fanciulle che le chiedono consiglio, anche, quando francamente dice loro che esse possono divenire scrittrici.

Ma scrivere è come è come parlare: ci vuole qualcuno che vi ascolti, vi circonda, e a sua volta vi esponga le sue idee. A questo bisogno risponde una società come la Firefly; le socie hanno una piacevole occupazione in questo scambio di pensieri, di giudizi reciproci, nel dovere ogni mese produrre un piccolo lavoro che si sa che verrà letto attentamente. Si promuove così un'attività mentale che ci porta a tutto osservare, a studiare; si stabilisce una corrente d'interesse e di simpatia tra fanciulle lontane, che rallegra ore altrimenti vuote e monotone; alle volte così sorgono buone amicizie, basate su affinità di gusti e di pensieri.

Spesso osservo che questi lavori sono quasi sempre migliori dei componimenti che si facevano a scuota nella mia classe; e mentre questi sono un piacere, quelli erano un fastidio. Eppure nella mia classe c'erano intelligenze sveglie quanto tra le socie della Firefly. Credo che le ragioni siano due: il tema, e il professore. Eravamo incatenate al tema datoci, anche se in quel momento esso era molto lontano dalla nostra esperienza, dai nostri pensieri; bisognava scrivere anche quando non riuscivamo ad amare, ad assimilare il nostro soggetto. Come si fa a scrivere bene su un soggetto che annoia? Era naturale che scrivendo con un interesse obbligato, artificiale, fittizio, i nostri componimenti riuscissero slavati, stupidi, convenzionali, senza vita. Oltre a ciò, il pensiero che si scriveva, non pei nostri simili, ma per il professore, persona grave, conscia della sua grande superiorità e infastidita dalla nostra ancor più grande inferiorità, estranea ai nostri interessi, ai nostri pensieri, che non ci poteva comprendere, ma ci doveva giudicare - ci paralizzava, ci impediva quella naturalezza e quella originalità che ci vengono spontanee scrivendo per delle ragazze come noi. Sono ben lontana dal volere asserire che scrivere per la Firefly sia più utile dei componimenti di scuola; voglio solo si comprenda che sono cose assolutamente diverse, con altri intenti; quella è scuola, questa è ricreazione.

Spero che la mia proposta troverà amiche, e se riceverò più di dieci adesioni potremo incominciare subito il nostro giornalino. Manderò altre spiegazioni a chi me le chiederà, ma sarà bene fin d'ora dirvi che cosa ci sarà da pagare: La spesa maggiore è la spedizione dei fascicoli dall'una all'altra, anche perché bisogna raccomandarli. In Inghilterra non c'è bisogno di questo, e inoltre la Firefly viaggia sempre come libro; in Italia la posta esige spesso che vada come manoscritto; e inoltre, l'esperienza che ho fatta della posta italiana (mi dispiace molto doverlo dire!) fa sì che ritengo necessaria la raccomandazione.

Oltre a questo c'è da contribuire alla rilegatura mensile ed ai premi; con dodici socie, credo basterebbero due lire a testa, all'anno.

Dunque chi vuole aderire mi scriva, mi dica se il titolo di Lucciola le piace, o ne suggerisca qualche altro, e faccia qualunque osservazione vuole; questa è una piccola repubblica: ognuna dice la sua, si cerca di attuare i suggerimenti di tutte, e la direttrice ha soltanto l'onore di lavorare un po' più delle altre. Bisognerà che il nostro giornalino italiano gareggi con la Firefly inglese; non fosse che per patriottismo, dovremo curare che abbia vita anche più prospera!