LA 
              MIA  TERRA 
                  
              
Come sei lontana, oramai,
 terra mia di zolfo, agavi e lupare! 
 Più il tempo scorre e s’avanza
 e solo ricordi a popolar la mente
 dei bei tempi andati,
 fra sinuose tane su scoscesi dirupi
 e inestricati anfratti,
 fra cumuli di gessi a luccicanti scaglie
 e quaternarie arenarie pregne di vita,
 e morte! 
 La terra quaggiù ebbe un sussulto,
 un sussulto di nera morte
 emergendo dal profondo mare
 al torrido ed inquieto sole;
 persino l’acqua fu impregnata
 di lucente sale
 per rendere ancor più amara
 la vita già indolente e dura. 
 
              
              
Di bianco e giallo è tinto
 il nostro orizzonte naturale:
 giallo il sole che da mane a sera
 inonda le tre punte estreme, 
gialli i campi di grano
 
               
             
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pria che maggio di ristoppie abbaglia,
 giallo lo zolfo che fu vita ieri
 e in ogni dove lo calpesti ancora;
 poi il bianco delle case appena a un piano
 appese alle colline sonnolente
 che il gesso luccicar fa come gemme. 
 
Assiso il vecchietto attende il fato 
e speranzosa la mamma il figlio andato, 
conserte le sue mani in grembo  
gli occhi velati di perenne pena.
           
          
E qua e là, macchia a ingentilir dirupi impervi,
 un’agave contrasta col suo verde intenso
 alzando verso il cielo i pungiglioni
 quasi a difesa dei suoi fiori viola. 
 A rovinar sì dolce panorama
 un calabrone s’aggira di colore nero:
 nero il vestito di velluto antico,
 una coppola nera sul suo capo calvo,
 nere le canne del fucile in spalla
 pronte a sputare pallettoni amari
 su cristi morti ancor che a vita nati. 
 E’ questo il panorama
 che mi manca, ormai. 
           
             
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