PROVERBI SICILIANI

        PREFAZIONE

Da tempo meditavo di mettere insieme una serie di detti e proverbi siciliani che giacevano in un cassetto, e che sempre più frequentemente mi frullavano per la mente. Frasi sentite dai più anziani del paese o dagli amici paesani nei sempre più sporadici incontri in Milano.

Ma soprattutto i ricordi delle voci, o meglio delle urla, dei venditori ambulanti che tanti anni addietro riempivano il paese d’allegria, o dei "bancarellari" della festa del Rosario che stuzzicavano la fantasia di noi bambini.

Spesso mi tornano i ricordi di quei tempi felici, quando un carrettino siciliano regalato dal nonno o un tamburino comperato a Naro, in occasione della festa di S. Calogero, rappresentava il massimo del divertimento.

All'angolo della piazza un venditore urlava "ciàuru e simènsa" offrendoti un "cùappu di simènsa" (un sacchettino di carta a forma di cono pieno di seme di zucca abbrustolito) profumatissimo, mentre un altro ti metteva sotto il naso una stecca ricolma di zucchero filato e per richiamare l'attenzione gridava: "Chiancìti piccilìddi ca la mamma vi l'accàtta !".

Quindi arrivava "Minicu Lisina" che col suo gran tamburo richiamava un nugolo di ragazzini che l'attorniavano, e tutti insieme facevano il giro del paese.

E poi "la maschiàta" (i botti) che annunciava la fine della Messa "sullena", a notte "lu castìaddu" che faceva tremare le case di tutto il paese, mentre la banda allietava gli astanti con allegre marcette, i tric e trac che facevamo roteare in chiesa per annunciare la resurrezione del Cristo, i "gualè, gualè" urlati a squarciagola per prendere in giro qualche persona, etc...

La giornata era costellata di rumori più o meno caratteristici: cominciavano i contadini che prima della alba si prepavano per andare nei campi, la moglie che chiedeva ad alta voce "Turì, hai preso il pane ed il formaggio", i cani che abbaiavano, lo scalpitare degli zoccoli dei muli che s'avviavano verso la campagna e che rimbombavano nel silenzio urtando contro il lastricato di pietra lavica. Si udiva il rumore dei "sùrchiari" dei vicini che aprivano la porta, mio nonno "firrarìaddu" che cominciava a tirar fuori gli utensili, "lu zi’ Luvigi" che borbottando con la moglie spostava sul marciapiede il suo banchetto con gli attrezzi da ciabattino.

Infine arrivavano dai paesi vicini i venditori ambulanti coi loro carretti variopinti che urlando a più non posso presentavano le loro merci: "biancu e finu l'haiu lu sali", "cuasètti per uomo, cuasètti per donna", "v'accattàtivi l'ùagliu ca passa l'ugliàru", e così per tutta la giornata.

Due volte la settimana si sentiva la voce "di lu pisciàru" che cercava di svendere il suo pesce spesso puzzolente che non era riuscito a smerciare nei paesi vicini: ad ogni giro che faceva per il paese il prezzo diminuiva e tanti attendevano l'ultimo passaggio per pagarlo il meno possibile.

All'imbrunire, finalmente, tornava la quiete rotta solo dalla voce del macellaio che annunciava: "Sangunàzzu callu!".

E le campane? Mio nonno aveva un bel da fare a tenere in ordine l'orologio costruito assieme al fratello Caliddu tanti anni prima. Suonava l’ora ogni quarto d'ora, mentre a mezzogiorno ed a mezzanotte una serie di rintocchi annunciava "ciccannìni" (dal nome delle due campane: Ciccu e Ninu), mentre all'imbrunire la suonava la "virmarìa".

Ed era gran festa quando ci portava sulla torre campanaria per la ricarica: bisognava azionare degli argani per tirar sù i contrappesi di pietra che fungevano da forza motrice. Cominciava con le raccomandazioni di non toccare le corde, di stargli vicino perché c'era pericolo dappertutto, di non andare sui tetti alla ricerca dei nidi di colombe. E noi che scappavamo e lui che urlava: "porca terra, tornate indietro!". Finché un bel giorno successe il finimondo: mentre tiravo l'argano, si ruppe la corda che reggeva una grossa pietra e questa cadde all'interno della torre sbattendo contro le pareti della stessa, creando un gran frastuono. Il parroco che stava celebrando la Messa ed i fedeli scapparono all'esterno della Chiesa gridando: "Il terremoto, il terremoto!".

Suoni, rumori, urla, mi tornano spesso alla memoria e mi fanno rivivere attimi di quei tempi lontani.

E poi la nostra parlata, la nostra cadenza così diversa da un paese all'altro, il nostro modo di esprimerci magari con un solo "minimo gesto", con un intercalare che sottintende tutto un discorso, un "hii" pronunciato a labbra appena socchiuse per fare il "minimo sforzo", tutto quanto fa parte del nostro mondo siciliano.

Carmelo era salito sulla palma avendo deciso che quello era il momento di potare alcuni rami ormai secchi, mentre Aitina, la moglie, era intenta in giardino a stendere i panni. "Aitì !" urlava Carmelo, "passami la sega!", "Aitì! dammi la corda", "Aitì! spostami la scala!". Finchè Aitina, spazientita, risponde: "Carmè! 'U cumannàri !".

Si dice dalle nostre parti che il comandare e' meglio del fottere, ma dirlo apertamente non sta bene, mentre l'intercalare di Aitina rende bene l'idea e non risulta poi così volgare; dire "minchia" e' sconveniente, soprattutto per una donna, ma si sente spesso esclamare un "mii.." tanto significativo quanto meno volgare.

Tutto ciò, penso, serve a ricordarci che dovremmo mantenere vivo il ricordo del nostro dialetto, parlandolo il più possibile, quando possibile!

Questa piccola ricerca, in parte frutto di "antichi" ricordi e per buona parte tratta dall'opera del Traina, spero possa essere migliorata con la collaborazione di tutti gli amici siciliani e "Montedoresi" in particolare.

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