Circolo Culturale E.N.A.L.
                     "G. Verga"
                       Montedoro

             R
ecital sulla Sicilia
                       
1972

      Temi : feudo miniera emigrazione
       
(Pippo Duminuco e Federico Messana)

                                                                                         

                                    Il feudo


.... regione tipica del latifondo e del grano, la cui coltura alternata con le fave, la sulla ed il pascolo, 
copre immense estensioni di monti, valli e colline. L’occhio spazia per chilometri e chilometri sull’ampia 
distesa dei campi e dei pascoli, privi di alberi.

Rari sono i paesi e di un triste color grigio come l’argilla del suolo. A grandi distanze nella campagna 
si incontrano i casamenti dei feudi come oasi in un deserto. E a tratti boccheggia qualche buco di 
solfara abbandonata e fumano i camini delle solfare ancora attive.

Silenzio profondo e solenne, rotto soltanto dal trillo di qualche raro solitario uccello o dal raglio 
dell’asino o dalle grida degli zappatori che incitano sé e le bestie al lavoro.

Passano lunghe file di muli recanti al mercato il grano trebbiato e la paglia, e li scortano i campieri 
a cavallo col fucile traverso la sella.
                                                      Lorenzoni
                                            da "Sicilia" di F. Milone



Baroni, gabellotti e successori
tu li vedi da sempre unica razza,
stampata e diffusa nei sette colori,
mutevoli forme, a gruppi a macchia, a squadre
boschetti di male piante
che succhiano anche le stoppie
fingono un ideale nelle chiome
e hanno fronde sfrontate
radiche ladre
corteccia di cui neanche l’amore
per la natura di fiamme e capre
apre una breccia
                          A. Caffati


"cantu di lu jurnataru"

 . . . . . oh, comu stenta l’ura di la livata!
Sempri pari luntana la finuta!
Quannu lu suli piglia la calata,
tannu lu jurnataru lu saluta!

Ch’avi li gammi ‘na canna jaccata;
e la schina ridutta jmmiruta; . . . .
E pua ca veni l’ura di la stagliata
cci voli Diu putenti ca m’aiuta.

E si un m’aiuta Diu, cu mav’aiutari?
Ca Diu ‘ntra chistu statu mi cci misi.
Tanti e tantanni ‘nterra a zappari,
cu acqua e suli, nni tutti li misi,

e agghiorna e scura, e bbeni agghiurnari,
sempri a ‘na vita di stianti e di ‘mprisi,
oh, viddanazzu, chi spicu vò fari
ca mai na vota la sorti ti ‘ntisi?

Li spisi appizzi si la sorti tianti,
lu jurnataru è sempri, ranti ranti;
cu tri tarì lu iuarnu ca tu stianti,
spinciri vua palazzi marmuranti?

Lu mali di vicchiaia cumparisci,
lu grazzu un dici cchiù, la gamma appunta:
pinsannuci, lu cori s’abbilisci:
ohimè! La fini amara eccu ca spunta!

All’uacchi la scuria, o Diu, mi crisci .......
Gesù, Maria! La vita mia finisci,
succurritila vù, ca un cci la spuntu.

                              Andrea Albano

vicchiaia amariata

E’ propria viacchiu
cumpari Roccu, c’avi novantanni ......
cci lucìa la casuzza comu un specchiu
a li tiampi antichi,
era pari ‘na tana .... Misu all’ummira,
ascunta, iddu, lu scrusciu di li spichi
‘ntra chiddi chiusi,
ch’erano sua; ddu scrusciu c’addummisci
e carma ...... Ascunta e teni l’uacchi chiusi.

Teni la manu manca
misa a la frunti, e pari stanco
Ah! ddi jurnati quannu di lu chianu
iddu turnava,
cu ddi muli fanzi carricati
d’uariu e furmiantu!

E quannu arricampava
l’uagliu e lu vino,
miannuli e favi sicchi ! Oh! pua ddu vutti
di S. Franciscu! (mancu S. Martinu
n’avia una la stissa,
c’apriannu la dispensa, si sintia
l’oduri nni la strata!) Oh! pua dda missa
a la Matrici,
ad ogni festa e nni la fudda, dd’uacchi
ca parianu du stiddi o ca filici
sempri parlavanu,
cu dd’ucchiatazzi latri e nnamurati!

Oh! quannu cu ddi grazza ca un stancavanu,
lu sò zappuni
era primu, nni l’antu, a diri: dammu!
E ch’era dunci doppu ddu carduni
e dda cipudda, e la vivuta
nni lu jascu, all’ummira,
a mazzjuornu! .... Oh tiampi di la sudda,
di la vinnigna,
di metiri e pisari! Oh! pua ddo notti
ca cci tucca di cogliri a la vigna,
la prima rappa:
c’apriannu ddu jppuni addamascatu
si scurdà ch’era serbu di la zappa,
si ‘ntisi rre ....
dda sira ca turnannu di difora,
vitti na naca: - Bah, chi fu? Chi è?
cu è ca chianci? -
Era lu primu figliu! Oh! ch’alligrizza! ....
Oh! munnu, munnu, comu tu ti canci! ...
La malannata,
la morti d’idda, doppu la vicchiaia,
la gricchi ca un senti rimurata
mancu di trona,
la vista ca s’accurza sempri cchiù,
la manu ca cci trema e mancu è bbona
un sacciu pirchì ......
e li figliastri tranni e scanuscenti,
e la morti ca un veni: aspetta, sì ...
E suspirannu,
apri l’uacchi sturduti .... Pi li chiusi,
va lu suli di maju tracuddannu,
e lu lamiantu
di li jssara chianci a la difesa,
e l’accumpagna sempri, senz’abbiantu,
un scrusciu di picuna .....
Cumpari Roccu ascunta, e ccu la facci
impiattu allarga li grazza e s’abbannuna ......

 

spigolatrice


Ora non posso andare a spigolare perché non ho gli occhiali, nessun servizio posso fare più, di lontano 
non vedo niente, da vicino qualche poco vedo. Ogni anno andavo a cogliere spighe in tutte le campagne, 
partivo alle tre, alle due, più presto partivo e più raccoglievo.

Mi storpiavano le reni, a stare curva tutte le giornate, ma almeno riuscivi a prendere un po’ di frumento 
per mangiare.
D’inverno come dovevo fare? E’ ventiquattro anni che sono vedova. C’era quando ce n’erano poche, 
c’era quando ce n’erano più assai: quando il frumento era ingranato, si poteva portare otto chili di frumento, 
quando era sgranato , sei chili, cinque chili. Al paese lo mazziàvano con un legno, per fare affacciare il frumento, 
poi lo spagliàvamo; lo alzàvamo con le mani quando c’era il vento, lo cernèvamo con il crivo e se ne andava la lordìa, e restava il frumento bello pulito.

 Santuzza
Da "Racconti Siciliani" di D. Dolci


ni li chiusi di bissana

Comu lu luci,
‘mmiazzu li chiusi, lu suli avvampava,
e tannu lu travaglio era ‘na cruci ....
Calata ‘nterra,
tu t’affannavi a cogliri li spichi,
‘ntramenti ca iu scinniva di la serra.

Juntu a la lenza,
fu tò maritu ca, lintannu, dissi:

- Vivemmu a la saluti di voscenza! -
Iu taliannu
ddi tò mani, manciati di lu suli:
- La grazia c’è pi tutti, - dissi, - aguannu.
Larghi li manu! -

- La bedda matri sempri cci lu renni -
mi dicisti tu allura chianu, chianu,
ni lu passari;
e iu mischinu, mancu arrispunniva,
ca dintra tutti mi sintia avvampari.

 
"coro di braccianti siciliani"

Sappiamo come gela
il cuore della terra,
come la talpa è pigra ed insistente,
ma noi rimasti a cogliere cicoria,
ci torce l’uragano,
il vento ci flagella,
Noi portiamo mantelle ed incerate,
ma il mondo è freddo.

La pioggia spegne il sangue del bracciante
ucciso tra solco e solco,
lo ricopre la terra rivoltata.
Il mondo è freddo
per noi mietitori
per noi zappatori
che falciamo la speranza,
che attacchiamo covoni di dolori
con sfilacce di sangue.

Donne scomunicate,
non c’è sale di battesimo
né olio di morte
per gli scalzi senza terra;
non stagna l’acqua santa nelle conche
per le mani contadine.

Dunque schiodate dalla croce
questo figlio morto e sanguinante;
svegliate le impietrite maddalene,
queste madonne scure di dolore.

E le zappe degli uomini arrestati
caricatele a questi nostri sbirri
senza pane, che battono catene;
che rompano la terra baronale
e le pioggia d’inverno arrugginisca
le loro nere canne di moschetto.
                                M. Farinella

 

Ma il feudo ormai è vivo solo nel ricordo dei più anziani. Il sacrificio di tanti braccianti, morti ammazzati 
perché chiedevano un pezzo di terra, non è stato vano

tramonto nel feudo

 Il feudo giallo rasato da bianche
timoniere d’allodole ora ha solo
buchi per occhi nei compagni d’arme
alla porta di tufo: mafiosi,
azzoppati dal tempo, hanno bisogno
di mano che li sciolga dalla ruta
e il loro grido è perso nel burrone
di vigorosi lecci. Finte bocche
da fuoco su arsi merli
non attendono scovolo né miccia;
sopra i ciottoli d’acqua della corte
i cavalli non beccano con zoccoli cavernosi:
la morte è già venuta;
e il feudo dilaniato ora fiorisce
di colori diversi e il contadino
cancella la sua storia di dispersi
con le mani di selce, ancora al tramonto.
                                   A. Torrisi


Sì è vero il feudo non c’è più. Nelle campagne non si vedono più mafiosi a cavallo col fucile a tracolla. 
Mai noi contadini stiamo male lo stesso. Per noi la "via crucis" non è finita.

Guardi me, per esempio. "Allevo bestiame e in inverno vendo il latte. Ma quando viene l’estate devo 
vendere i vitelli perché nelle campagne non c’è acqua. I soldi guadagnati col latte non bastano neanche
a coprire le spese e così sono costretto a seminare la terra a grano. Ma il grano non lo vuole nessuno. 
Se facciamo il conto, per arare la terra, seminare, levare l’erba, mietere il grano e trebbiarlo, una salma
 di grano viene a costare più di quello che poi uno la può vendere. E allora mio figlio dice: - 
Perché devo rompermi le ossa e lavorare terra senza acqua che non rende? -

E se ne vuole andare a lavorare in Germania, o al Nord, in fabbrica.
                                                                                                                Da "Processo alla Sicilia"



                                             La miniera

Tutt’intorno terra bruciata, arida, alberi scheletrici e qualche ficodindia. La zolfara è al fondo della valle 
e solo si scorge un intrico di viottoli e binari che si snodano tra i forni e i calcheroni. Qua e là colonne di 
fumo bianco s’innalzano verso il cielo.

L’aria ha un odore acre, pungente, surreali barbagli di luce rossastra. Al fischio della sirena, uomini, 
dal volto scuro e indurito, sbucano dalle viscere della terra, s’accoccolano all’ombra di uno dei tanti mucchi 
di residui abbandonati e, in silenzio, cominciano a mordere con rabbia il loro pane.

 

A la pirrera

Scinnunu a la pirrera, e ognunu ‘mmanu
porta la so lumera pi la via,
ca no pi iddi, pi l’erbi di lu chianu
luci lu suli biunnu, a la campia ......

Scinnunu muti, e quannu amman’ammanu
scumparisciunu ‘n funnu a la scuria,
e si sentinu persi, chianu chianu
preganu a S. Giuseppi ed a Maria .....

Ma doppu, accuminciannu a travagliari,
gridanu, gastimiannu a la canina,
ca lu stessu Signuri l’abbannuna ......

Oh, putissiru, allura, abbannunari
dda vita ‘nfami, dda vita assassina,
comu l’armari, ‘n funnu a li vadduna ......
                                  A. Di Giovanni

canto delle zolfare

Chista è la scala di milli scaluna
cu scinni vivu muartu si nn’acchiana.
Travaglia massariaddu a ffa bbiaggia
pi la giusta ti dugnu mezza lira.

Acchianu novi e baiu a pigliu deci,
malanni a ccu travaglia a la pirnici.
Sulfaru ncarcinaratu a marmurignu
lu scippa Puddisanu ca è cchiù grugnu.

E li carusi di mastru Natali
unu all’acqua e l’antru a pizzutari.

Signuri, aiutati a li darriari
ca li davanti su iuti a livari.

Chistu ca vaiu a pigliu e la vinuta
mi l’aiu fattu la santa jurnata.
                                  Anonimo Montedorese



zolfataro

Quanta Sicilia dolora nei tuoi occhi,
ora che nel giorno sbiadisce il sole
freddo e giallo che scavasti
nel buio della terra:
zolfo, sole morto
sull’erba saziata di caldo e calpestata.

Tu non sai il sole, compagno zolfataro,
e le cose della vita
che portano calura ed hanno voce.

Solo la lampada che tieni nel ritorno
illumina il tuo mondo:
un passo dopo l’altro
prima della notte
e due scarpe aperte
nel breve cerchio della luce
che macchia il nero della strada.

La ruota del carretto sullo stradone
è sempre il cuore che batte
senza memoria
nella notte di Sicilia.

Ma quanto pane sognano i tuoi figli,
compagno zolfataro.
                                     A. farinella

 

"Li carusi di pirrera acchiananu chianciannu e scinninu cantannu."

Così dicevasi nei paesi di zolfare dei poveri carusi: durante la salita, carichi di minerali, sfiniti, piangevano; 
quando scendevano cantavano: erano scarichi, erano contenti perché avevano un viaggio in meno da fare. 
E cosa potevano cantare, ragazzi anche di sette, otto, nove anni? Con disperate parole di pianto supplicavano 
le madri, perché non li mandassero a morire, per la sete ed il caldo, sotto le viscere della terra.
                                                                                                                                   A. Milazzo

canti della zolfara

Mamma nu mmi mannati a la pirrera
ca notti e gghiuarnu mi pigliu tirrura,
sugnu mmiazzu l’ebrei e li vuccera,
muartu di siti e mmiazzu a la calura.

Lu campumastru cu li catastera,
sciarri a bbastemmii cu li pirriatura.
Accussì voli la mala carrera:
calari vivu nni la sepultura.

Cu nun canusci a Don Calò, a Don Peppi,
sicarru mmucca e la birritta torta?
Cci nni su tanti comu a ssi signuri
patruna di turreni e di surfari,

caminanu superbi a taccu e punta
comu si fussiro patruna di lu munnu.
Ma nun su nenti, sunnu tutti vili,
genti di fangu, genti di galera.

Su sancisuchi appizzati a lu cori,
a lu jatu, a l’arma di li figli di mamma.
Chi c’interessa si la genti mori?

Cci nni su tanti pronti a rrizzicari
tuttu, la vita, pi lu piazzu di lu pani.
Chi c’interessa si li surfarara
travaglianu e ci lassanu la vita?

Iddi cci tiannu dda li susprastanti
genti assirbuta, mpami e traditura,
ca si vinni l’anuri comu a Giuda.

Pi li patruna malantrini e supirchiusi
la vita di li sùrfarara un cunta nenti.
E ddoppu ca succedi ‘na disgrazia
li cosi arrestanu propria comu su.

Sti funerala lussusi ca fannu,
cu juri e funzioni
li sparagnassiru sti ranni signura!

Quannu unu è muartu c’è picca di fari.
S’avia a circari di un farlu muriri,
si ci avia a ddari ‘na paga cchiù mmeglia,
la sicurizza mentri iddu travaglia.

E quannu è muartu aviti cuscenza:
pi chiddi vivi ca su senza pani.

Pirchì ammazzati sti figli di mamma
ca nun c’è grana ca basta a pagari
‘na vita d’omu, d’un patri di figli?

Chi cci resta a li figli, a li mugliari,
a li mammi, di chiddi ca muriaru?
Na lampicedda cci resta addumata
a lu ritrattu di cu nun c’è cchiù,
na lampicedda . . . e pua, chiantu e . . . miseria.

 
canti della zolfara

Siammu abbiluti mmiazzu a li disprezzi
misari, minnicanti e pazzi.
Li surfarara siammu stati abbezzi
manciari e bbestiri comu signurazzi;
ora bisogna circari li pezzi
e fari conumii senza sprazzi:
li pirreri su tutti abbannunati,
li surfarara pi li festi su cunzati.

Le zolfare sono state abbandonate. Qualcuna resiste, ma ancora per poco. La lotta disperata, che i minatori
hanno condotto per difendere la zolfara, è valsa soltanto a prolungare l’agonia.
Si è cercato di porre rimedio al male, quando la morte era già venuta: bisognava pensarci prima.



L’emigrazione


Il latifondo e la zolfara ....... una storia impastata di sofferenze e violenze inenarrabili, la storia di milioni 
di uomini che hanno trascorso l’intera vita a scontare, giorno dopo giorno, con lacrime di sangue, il loro 
diritto alla morte. L’emigrazione. La stessa, identica storia che ha cambiato nome, ma gli uomini .... 
gli uomini sono sempre gli stessi, ed oggi come ieri, ancora scontano la propria morte con lacrime di sangue.

Mi nni vaiu a la Merica e ti lassu
mi nnni vaiu e ricordati di mia,
tanti pidati ca di tia m’arrassu
tanti funtani fannu l’uacchi mia,
si vua lu pignu lo cori ti lassu
l’arma un ti la lassu ca un n’é mia,
e quannu viagnu ti nne dari spassu
si un truavu ‘mpidimenta pi la via.



L’Emigrante

"Un bel giorno gli uomini del paese cominciarono ad emigrare. Prima pareva uno scherzo, ma poi ci 
accorgemmo di essere rimasti quattro gatti. Facevo il barbiere e persi tutti i clienti: restarono soltanto 
un pugno di contadini che venivano a radersi e a tagliarsi i capelli ad ogni sfatta di luna.
Un giorno mi dissi: - Andiamo a vedere com’è la Germania - e partii."
"A ventitré anni cosa può fare un giovane in un paese di tremila abitanti? Un giovane civile, uno che 
crede di poter valere qualcosa?
Gli amici, il caffè, le passeggiate, le carte, i libri. Con una ragazza per strada non puoi parlare, e poi 
dove sono qui le donne?
Anche diplomato, il posto, se non hai una raccomandazione, non lo trovi. Partii una domenica mattina, 
all’alba, e me ne andai a Francoforte, in Germania."
                                                                                                     M. Gori


aushwitz sta figliando

Uno dei tanti lager,
lager di Olezmann.
Una delle imprese edili
che ha costruito più appartamenti di lusso
in tutta Europa:
nelle allineate baracche di legno
sono ammassati uomini
per spremerne il lavoro,
non possono ricevere un amico,
quattro uomini in una stanza
pur pagando settanta marchi al mese.

Cerco di entrare a vedere.
Verboten.
Perché Verboten?
Perché non si può.
Iugoslavi italiani portoghesi greci
turchi spagnoli sono venuti a cercare
il mondo sviluppato.

- Se si fa una questione ci si perde il tempo.
Anche se non ci possiamo fare la nostra vita
noi non ci possiamo niente,
se protestiamo ci buttano via
e chi dà da mangiare ai bambini
alle famiglie che aspettano lontano?

Là si lavora sconfitti
chi ci ha mangia
chi non ci ha può morire,
qui si mangia e si avanza qualche soldo
ma si resta sconfitti in altra maniera. -

Tristemente vero: se questa gente
fosse capace di organizzarsi,
il lavoro l’avrebbe alla sua terra
e non solo il lavoro.

Incontro il direttore del lager
voglio parlargli.
Verboten.
Varum verboten?
Verboten.
Ma perchè verboten?
Alles verboten.

Questo era un lager di prigionieri
e questo è il mondo democratico
e questo è il mondo nuovo
che hanno ricostruito dopo Auswitz
dopo i cinquanta milioni di ammazzati
da quella guerra?

- Partiamo alla mattina alle cinque,
torniamo alla sera alle sei
ma calcolano otto ore -
Questo è il mondo dei calcolatori elettronici.
                                  "Della qualifica d’emigrante" (B. Brecht)

 

Cardiddu ca vai libaru e filici,
a la mia patria va: la sa la via?
La ma casa salutami e l’amici;
te’ cca sta littra pi la matri mia;
si spia pi so figliu tu cci dici
ca sempri chianciu e piansu a la strania:
sugnu luntano di lu ma paisi,
accussì vonzi la fortuna mia.
 

"Io sono contadino. Anche mio padre e mio nonno erano contadini.
Con mio padre lavoravano una salma di terra nostra ed altra terra presa a mezzadria. Avevamo sei vacche 
anche. Era un lavoro infame chè la terra era piena di pietre e lontana, a casa del diavolo, in mezzo alle montagne.
Poi mio padre si ammalò e la malattia si mangiò le vacche, la terra e tutto.
Perciò decisi di emigrare. Questo cinque anni fa."

"No, non sono contento di stare qua. Ci sto perché in paese non posso tornare. Lì lavoro non ce n’è. Io facevo 
il minatore. Tutta la vita ho fatto il minatore. Sono partito quando hanno incominciato a chiudere le miniere. 
Sì, è vero, m’hanno dato un gruzzoletto di soldi. Ma non ci potevo campare fino alla morte.
No, i soldi che mi hanno dato non li ho spesi, ci ho comprato una casa. Ma qui non ci resto. Ancora qualche 
anno e poi torno al paese. E’ lì al paese che voglio morire."
                                                                            "L’Emigrante" - (M. Gori)




G
li ebrei del sud


Nelle grigie metropoli, noi: spogli
come alberi, astuti come folaghe,
odiati come negri.

Forse tu sola, strada, non maledivi
i passi degli ebrei del sud.
In cerca di lavoro s’era andati
coi bianchi fazzoletti al vento
sotto una luce stregata.

Il nostro addio fu un sasso di memorie
sul passato, se penso ancora
a quello strano cuore
venirci dietro come un aquilone....

Tu sola non maledivi i passi
degli ebrei del sud:
nel fango dei segni calpestati,
presentivi il nostro furore,
l’obliqua presenza mercenaria.

Quante volte parlammo di lontani paesi,
gli occhi scavati da speranze ataviche,
quante sponde toccammo
col vessillo dell’avverso destino!

Noi, gli ebrei del sud,
spogli come alberi
astuti come folaghe
odiati come negri.
                                 C. Gagliano

Liaggila sta littra ca ti mannu,
strincila ‘mpiattu si vvo beni a mia,
ti la vulia scriviri di sangu,
e sangu di li vini un nni niscia.

Ti la fici cull’uacchi lacrimannu,
e lacrimannu la mannavu a tia:
lu vo sapiri pirchì ti la mannu?

Ca stari un puazzo cchiù senza di tia.




lamento per il sud

La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del nord, la distanza di neve ....
Il mio cuore è ormai in questa prateria,
in queste acque annuvolate dalla nebbia.

Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
la cantilena dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.

Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel sud.

Oh, il sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.

Più nessuno mi porterà nel sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
                                           S. Quasimodo



In verità non c’è in tutta Europa un popolo così orgoglioso e infelice, come quello siciliano, che faccia 
tanto male a se stesso, ma non c’è nemmeno un popolo che abbia tanta devozione alla sua terra, e che abbia 
altrettanto coraggio di lottare per l’esistenza, e tanta violenza, tanto amore per la vita.
Ecco la sua forza: l’avidità, l’ignoranza, la corruzione, il delitto, l’onore sanguinoso, le superstizioni, la povertà, 
l’egoismo, la superbia fanatica; ma c’è anche la sua infinita pazienza al dolore ed il suo terribile bisogno di giustizia.
C’è anche la sua intelligenza ineguagliabile, il suo senso morale della morte, cioè il suo ideale che la vita sia sempre 
l’occasione di lottare per qualcosa.
Il siciliano viene vinto continuamente dal mondo, ma mille volte si rialza e continua a lottare.
                                                                                                      Da "Processo alla Sicilia"


lettera dal sud


Io sono un ragazzo del Sud,
un Siciliano di paese,
uno dei tanti che ridono e piangono
in questa mia terra malata
d’amore e di nostalgia.

Sono il ragazzo della zolfara
che mastica silenzio e pane nero,
il carrettiere che canta la notte
e pensa al tradimento,
il pastore che insegue le nuvole
e suona lo zufolo ai venti.

Questo sono, 
ed ho il cuore triste d’ognuno
dentro il mio cuore

 

NOTE :

Testo elaborato da Federico Messana.

Commento musicale e brani musicali originali composti ed eseguiti da Pippo Duminuco.

(I brani con l’asterisco sono musicati e cantati).

Nelle due edizioni del recital i numerosi interpreti, i tecnici, gli organizzatori sono stati i soci del Circolo.
I disegni e le scenografie sono state realizzate da Tina Duminuco.

Nella versione rappresentata, alcuni riferimenti espliciti a precise appartenenze politiche (nomi propri, appellativi) erano stati eliminati o modificati (i tempi non erano maturi).

Questo recital ci ha dato orgoglio, maggiore consapevolezza ed ha contribuito a costruire l’identità di molti di noi.
Abbiamo avuto molta gioia nel prepararlo e rappresentarlo.

Pippo Duminuco

Milano, maggio 1997