Palazzo  "STERI" di Palermo

  I graffiti dei dannati della GRANDE INQUISIZIONE

                         


                                                                        
            Navi in guerra: il grande disegno è la "battaglia di Lepanto" di Francesco Mannarino, che in alto a sinistra ha firmato
                                        la sua opera riemersa dall'oblio dopo quattro secoli.


Da "La domenica di Repubblica" del 26 novembre 2006

                             I GRAFFITI DEI DANNATI DELLA GRANDE  (santa!) INQUISIZIONE 

   Un libro di Maria Sofia Messana "Inquisitori Negromanti e Streghe", racconta il lavoro della mostruosa macchina repressiva

                                            
Il restauro di palazzo Steri, che ospitò  per  quasi tre secoli
                                             la "Santa Inquisizione" in Sicilia,  e una  ricerca  d'archivio
                                             a Madrid ricostruiscono la vicenda seicentesca di Francesco
                                             Mannarino, rinchiuso in  quella  prigione  e  autore di uno
                                             straordinario  dipinto  murale  sulla  battaglia  di  Lepanto.

PALERMO
I pirati barbareschi lo rapirono in mare. Aveva tredici anni, fu portato al mercato degli schiavi di Biserta e venduto a un raìs. Per salvarsi la vita si convertì all'Islam. Era il 1600 quando Francesco Mannarino, piccolo pescatore di Sant'Erasmo, finì come mozzo su una feluca corsara. Ma in una giornata di tempesta la ciurma si ammutinò e Francesco tornò a casa, a Palermo. Dal porto lo condussero dritto nelle segrete dove imprigionavano eretici e bestemmiatori, idolatri, fattucchiere, maghi, ebrei, maomettani, amici del demonio e negatori di Dio. E lì dentro, allo Steri, il palazzo della Santa Inquisizione, rimase da un'imprecisata notte di gennaio sino all' alba del 27 marzo del 1609.

Il ragazzo fu esortato ad abiurare la sua nuova religione per ben due volte. Dopo le torture fu assolto, gli raccomandarono però di "non fare più vita di mare" per non cadere ancora nelle mani dei saraceni. In quei tre mesi di sottomissione ebbe il tempo di disegnare su un muro della sua cella la battaglia navale che — in tante traversate del Mediterraneo—i suoi sventurati compagni gli avevano narrato: la flotta cristiana e quella ottomana, a Lepanto una di fronte all'altra.

Quella scena, dipinta con i cocci frantumati e poi legati al latte e all'albume d'uovo, è rimasta coperta per secoli sotto un'incrostatura di malta grigiastra. Se oggi noi la possiamo ammirare e soprattutto possiamo raccontare frammenti dell'esistenza del "rinnegato" Francesco Mannarino e di altri settemilacinquecento siciliani rinchiusi nelle carceri del Sant'Uffizio, lo dobbiamo all'anima di un don Totò che non c'è più e alla cura di una studiosa che ha pazientemente investigato nell'Archivio Historico Nacional di Madrid, l'unico luogo al mondo dove ancora sono conservati i nomi dei martoriati e dei condannati al rogo "in nome di Dio".

Dai graffiti di Palazzo Steri e dagli scritti della ricercatrice Maria Sofia Messana si sta ricostruendo per la prima volta quella che fu — dal 1500 al 1782—la pagina più dolorosa della storia della Sicilia. Un incrocio di segni e di pitture e di vite che fa riaffiorare dai muri dell'orrore la più cupa Palermo spagnolesca. Un'impronta indelebile.

                                 

Cominciamo però da don Totò, pittoresco personaggio dal quale parte inevitabilmente l'ultimo brano di questo romanzo lungo più di quattrocento anni. Il suo vero nome era Salvatore Di Falco e anche lui era nato, come il giovane pescatore Francesco Mannarino, fra quell'ammasso di case basse davanti al porticciolo palermitano di Sant'Erasmo. Si atteggiava a uomo "inteso" don Totò, uno di quelli che nell'immediato secondo dopoguerra vantava protezioni importanti. Qualcuno gli aveva anche fatto dono — diceva lui— di un antico edificio proprio dietro allo Steri, un'area monumentale dove una volta c'erano i magazzini dell'antico tribunale e la manifattura tabacchi. Don Totò aveva messo in giro la voce che quella costruzione gliel'avesse regalata il colonnello Charles Poletti in persona, il capo in Sicilia dell'Amgot, il governo militare alleato dei territori occupati. In realtà quell'edificio e il terreno circostante erano di proprietà dell'Università di Palermo. Provarono, più volte e inutilmente, a sfrattarlo. In Comune variarono perfino il piano regolatore, da lì sarebbe dovuta passare una strada. Ma lì c'era il regno di don Totò.

L'Università entrò in possesso di ciò che le apparteneva soltanto nel 2002, quando Salvatore Di Falco passò a miglior vita per una crisi cardiaca. Dopo pochi giorni svuotarono i vecchi magazzini. "Furono cinquantuno i camion con rimorchio stracarichi che uscirono da quell'edificio trasformato in deposito", ricorda l'ingegner Nino Catalano, direttore della divisione tecnica patrimoniale dell'ateneo palermitano. Carcasse di auto, lapidi, copertoni, balle di lana, divise militari, frigoriferi, lampade, sedie, caterve di legna, materassi, ferraglia. L'ingegner Catalano si introdusse in quello che si sarebbe disvelato come il Carcere della Penitenza seguendo le tracce di un suo illustre parente — il suocero, avendone sposato una figlia—, che tanti anni prima si era infilato proprio lì "quasi clandestinamente". Era Leonardo Sciascia che stava per scrivere l'opera a lui più cara, Morte dell'Inquisitore, il libro sull'eretico di Racalmuto fra Diego La Matina che il 4 aprile 1657 fracassò il cranio al suo torturatore, "l'Illustrissimo signor don Juan Lopez de Cisneros".

Così cominciarono, dopo la dipartita di don Totò, i restauri dello Steri. E così apparvero i primi volti di Cristo, di madonne, di angeli, di santi e di diavoli. Scritte color ocra, arancio, di un giallo tenue o di un giallo forte che il tempo ha fatto diventare quasi rosso. Poesie in dialetto, versi strazianti, tutte incisioni di tormento. Ogni mese una piccola grande rivelazione, ogni mese un angolo di parete che si colorava di più. Fino a quando, sul primo grande muro della prima delle nove celle al pian terreno, vennero alla luce le prue delle galee della battaglia di Lepanto. E poi, tra l'immagine di un vescovo e le vele spiegate della Lega Santa e i vessilli con la mezza luna ottomana, si mostrò quella firma, quel nome: Francesco Mannarino.

Chi era? E per quale "peccato" era stato incarcerato nelle segrete di Palazzo Steri? Nel 1782 il governo illuminato del viceré Caracciolo aveva cancellato, l'Inquisizione e, un anno dopo,ordinato la distruzione di tutte le carte seppellite nel suo tribunale siciliano.  Un rogo purificatore. Per eliminare tracce di delitti e vergogne. E per proteggete l'identità di sbirri e delatori compromessi nella mostruosa macchina repressiva dei seguaci di Torquemada. Vi lavorarono in quasi venticinquemila. Secondo alcuni storici, l'Inquisizione era potente quanto Cia e Kgb insieme. Ma dei suoi crimini non c'erano più indizi: a Palermo avevano bruciato tutto.
"E così, seguendo un suggerimento di Sciascia, sono andata a Madrid", ricorda Maria Sofia Messana, la ricercatrice di storia moderna che per la Sellerio ha appena finito di scrivere "Inquisitori, Negromanti e Streghe.

Sarà in libreria a fine anno, è la scelta delle sue documentazioni raccolte nell'Archivio Historico Nacional. È là che ha trovato tutto quello che non c'è più in Sicilia sui martiri del Santo Officio. È là, al Consiglio della Suprema, il Tribunale Generale dell'Inquisizione, che ha trovato la "relacion de causa" di Francesco Mannarino. Racconta: "Fu rapito insieme al padre, i pirati trasportavano le loro vittime fra Algeri, Biserta e Costantinopoli. A Francesco toccò il mercato degli schiavi di Biserta, dove lo comprò un comandante che godeva fama di uomo malvagio. Solo dopo nove anni riuscì a tornare a Palermo ma ormai, in quella città, Francesco era un musulmano. Fu rinchiuso allo Steri, nella stessa cella di una delle tante vittime delle spie prezzolate. Si chiamava Paolo Maiorana, era un ricco messinese che ha lasciato anche lui un segno su quei muri. Una Madonna in lacrime. C'è pure il suo fascicolo a Madrid, alla Suprema. Gravissimo il reato del quale si era macchiato. "Aveva bestemmiato Gesù e la Madonna e aveva detto "Santo Diavolo", un'evocazione del demonio", spiega sempre Messana.
Nel 1601 Paolo Majorana entrò allo Steri la prima volta. Imbastirono un processo ma la Suprema lo scarcerò: era accusato di blasfemia da un testimone. Ma uno solo non bastava per il castigo. Ce ne volevano almeno due. Nel 1609 lo trovarono. E riportarono Majorana un'altra volta allo Steri. Ripescarono le vecchie carte e lo processarono ancora: nel 1618 fu spogliato di tutti i suoi beni e mandato al remo per cinque anni.

                                                                  

Maria Sofia Messana trova certe assonanze fra le antiche pratiche inquisitorie e certi moderni riti giudiziari: "Tutto ciò che è accaduto a Paolo Majorana e a migliaia di prigionieri è di sconcertante attualità: chi cade nelle mani di una mala giustizia spesso non ha scampo". Molti sparirono all'improvviso. Dal 1623 al 1782 solo a Palermo furono arsi in centottantotto, alla fine di lugubri cortei che si concludevano con l' auto da fé " sulla passeggiata in fondo alla marina. È lì che si accendevano i roghi. Bruciavano gli uomini di "tenace concetto". Quelli che non si pentivano mai. O i pazzi. Ma prima venivano torturati in quegli stanzoni appena riaperti e dove c'è, proprio lì accanto, la sede del Rettorato.

Oggi il magnifico rettore dell'Università di Palermo, Giuseppe Silvestri, la vuoi fare diventare una "città della cultura". Spiega: "È stata un'emozione fortissima vedere affiorare dietro l'intonaco, centimetro dopo centimetro, le testimonianze ancora intatte dei prigionieri che hanno sofferto fra queste mura. Dopo secoli ci hanno consegnato un'eredità che è insieme opera d'arte e atto di accusa verso le ingiustizie del potere. I loro dipinti ci confermano che li dentro furono imprigionati artisti, intellettuali, uomini scomodi".

A Palazzo Steri abitavano gli inquisitori, c'erano le sale degli interrogatori e le cavità dove erano segregati i detenuti. Nel restauro ogni ambiente sta prendendo forma. Le nove celle al pian terreno e le altre nove sopra, le stanze trovate dietro quelle pareti alzate in epoche successive, scale che scendono e salgono. "Qui è stato ucciso l'inquisitore Juan Lopez de Cisneros", indica con la mano l'ingegner Catalano mentre perlustra il cantiere. E proprio districandosi in quel labirinto l'ingegnere ha fatto una scoperta nella scoperta: "Guardi questo disegno di Renato Guttuso, è un'illustrazione per Morte dell'Inquisitore, un libro che Sciascia ha scritto nel 1964". Il disegno riproduce esattamente il luogo, così com'è nella realtà. Una scala, la stanza degli interrogatori dove fra Diego La Matina colpì alla testa l'Inquisitore, l'altra scala che si arrampica verso la sala del Secreto.

Guttuso, già quaranta anni fa, aveva immaginato la "scena del delitto" così come era avvenuta. Eppure queste stanze e queste celle fino al 2004 erano ancora coperte dalle pietre, soffocate nel tufo. "L'intuizione del genio", commenta incantato Nino Catalano.

E poi, poi c'è un ultimo mistero in questa trama infinita. Nell'illustrazione del pittore siciliano, il frate eretico di Racalmuto uccise don Juan con i ceppi, battendoli ripetutamente sulla fronte dell'Inquisitore. E così, in verità, era conosciuta la "dinamica dei fatti" sino ad allora. Ma dalla Suprema di Madrid è arrivata una rettifica ufficiale su come andarono le cose. In una relazione che il nuovo inquisitore di Palermo Fabio Escobar inviava il primo luglio 1657all'inquisitore generale Diego de Aize Reynoso, annotava sull'assassino del suo predecessore: "Potentissimo signore, partecipiamo a Vostra Altezza che l'alcalde delle carceri segrete salì di mattina al tribunale e riferì che, avendo visitato quella mattina fra Diego la Matina, recluso in dette carceri, lo aveva trovato senza manette, che le aveva spezzate: manette che a causa della sua temerarietà il tribunale aveva ordinato di imporgli...". Poi descrisse come fra Diego uccise don Juan: "Prese uno strumento di ferro, che non è stato possibile identificare per esservene diversi, e con esso diede all'inquisitore Cisneros tre colpi sulla testa, due sul cranio...".

Chi aveva liberato il frate di Racalmuto? Chi l'aveva lasciato senza ceppi, pur sapendo che qualche minuto dopo sarebbe stato trascinato davanti al suo torturatore?