UN CONTRIBUTO ALLA VERITA'

                                           UNA TESTIMONIANZA  
                                             ( Prof. Alfonso Alfano)  

Spesso la mia mente si sofferma a riflettere sulle vicende politiche del nostro Paese dal dopo-guerra ai nostri giorni, sforzandomi di dare un ordine logico agli accadimenti della vita pubblica, relativi a tale periodo, e ciò sulla base delle mie personali esperienze. Ritengo che sia un precipuo dovere, di coloro che sono stati protagonisti o spettatori di tali eventi politici, rendere testimonianza di quanto è a loro conoscenza per dare un contributo di verità sui fatti di cui sono depositari; ciò è sommamente utile poiché lo scorrere del tempo ne riduce sempre più il numero ed i pochi rimasti si avviano anch'essi a rapida estinzione.

Io, democristiano della prima ora, sono uno fra questi ed assisto con rabbia all'affanno di molti occupati a falsare la verità per consegnare alla Storia una D.C. responsabile di tutti i mali della società odierna.

Cercherò quindi di fare un poco di chiarezza cominciando dalla traccia storica del Partito. Questo nasce nella clandestinità durante la seconda guerra mondiale, richiamandosi agli ideali ed al programma del vecchio Partito Popolare fondato da Don Luigi Sturzo; cessato il conflitto, esce dalla clandestinità con la nuova denominazione e subito s'impone all'attenzione degli Italiani anche (e forse soprattutto) per merito del la illuminata ed ieratica figura di Alcide De Ga speri.

Non voglio avere la pretesa di fare una indagine storico-politica sulla Democrazia Cristiana, ma credo di essere nel vero se mi permetto di affermare che questo partito fu il maggiore protagonista della vita pubblica italiana per tutta la seconda metà dello scorso secolo. A tale verità mi permetto di dare un personale contributo attraverso il mio vissuto politico; di conseguenza la mia, come è detto nel sottotitolo, vuole essere soltanto una testimonianza.

Io appartengo alla generazione nata col fascismo (classe 1922) ed educata sotto quel regime; appartengo, come dicevo all'inizio, a quel gruppo dei non molti, di cui fra pochi anni non vi sarà più traccia; ritengo pertanto doveroso che costoro trasmettano ai più giovani le loro esperienze al fine di dare la possibilità di un più efficace confronto su due momenti tanto di versi della vita pubblica del nostro Paese perché siano di stimolo per meglio apprezzare e custodire i valori delle libertà democratiche.

Educati ai miti della grandezza nazionale, dell'infallibilità del duce, dell'impero che rinasceva sui colli fatali di Roma, noi giovani ci trovammo impreparati e sprovveduti quando le vicende della seconda guerra mondiale cominciarono a volgere a nostro sfavore fino alla disfatta totale e con il suolo patrio calpestato da eserciti di razze e lingue diverse. Fu per noi il crollo di un mondo in cui avevamo creduto; ci sentimmo umiliati e traditi. A ciò si aggiunse il disorientamento delle nostre menti per i tanti portatori di nuove verità, scatenati per tutte le piazze d'Italia; costoro dicevano di avere tutti quanti la ricetta infallibile per guarire i mali del nostro Paese.

Eravamo ansiosi di fare una scelta, ma non potevamo permetterci di sbagliare una seconda volta dopo la severa lezione ricevuta dalle illusorie promesse fasciste; ascoltavamo tutti e tutto con mente critica e spesso con diffidenza; avevamo bisogno di ancorare le nuove scelte a valori quanto mai certi, la cui validità non dipendesse dalla forza delle armi, dalle manie di un dittatore o dai capricci di folle esaltate.

La mia attenzione fu richiamata da ambienti, il cui programma, nel rispetto di certi valori tradizionali, risultava essere aperto alle istanze sociali per il riscatto delle classi più deboli; non soltanto, ma che uomini di alta statura morale ne fossero portatori e garanti; tali certamente erano Don Sturzo e De Gasperi. Furono Costoro i primi ed i massimi protagonisti di questo nuovo partito che si affacciava alla ribalta della vita pubblica col nome di Democrazia Cristiana, alla quale io mi iscrissi, cominciando a svolgere fin dall'inizio attivismo politico.

Mi resi però subito conto che ero assolutamente impreparato al compito; avvertivo in me il moto culturale in ordine alle discipline politiche, sconosciute alla mia generazione, che fino ad allora si era nutrita soltanto della "Dottrina del Fascismo". Da quel momento fui avido di recuperare in tutti i modi possibili: leggendo, ascoltando, documentandomi, ecc... Trovai che il partito scelto, a parte il magistero della Chiesa, affondava le sue radici nel movimento neoguelfo sorto in Lombardia nel XIX secolo ed alla cui teorizzazione diede un notevole contributo Vincenzo Gioberti, anche se poi giungeva a certe conclusioni improprie quale quella di una federazione presieduta dal Papa. Naturalmente le correnti laico-liberali ebbero facile giuoco su questa forzatura della missione della Chiesa; infatti il Piemonte, braccio armato di quelle correnti, invase gli stati pontifici ed il XX Settembre del 1870 Occupava Roma. A questo proposito é bene riconoscere, per verità storica, contrariamente a quanto oggi fanno certi ambienti libertari ed anticlericali, che in quella occasione fu la saggezza di Pio IX ad evitare un bagno di sangue, ordinando alle truppe pontificie di non opporre resistenza; e così i bersaglieri piemontesi fecero una passeggiata militare; altro che eroiche gesta della breccia di Porta Pia.

Da quel momento quel Papa, la cui grandezza è stata appannata dagli eventi politici ed a cui oggi la Chiesa rende giustizia proclamandolo "Beato", si chiuse in Vaticano dichiarandosi prigioniero dello stato italiano. Fu così che Pio IX, in assenza di qualsiasi gesto d'intesa da parte della nuova gestione politica, proclamò il famoso "NON EXPEDIT" con cui si faceva divieto ai cattolici di partecipare alla vita pubblica. Tale provvedimento, anche se motivato dalle circostanze, fu una grande mutilazione per il Paese, che vide per alcuni decenni le sole correnti laiche, incontrastate protagoniste nell'agone politico italiano.

Fu il successore Leone XIII a scuotere il mondo cattolico dal suo torpore pubblicando nel 1891 l'enciclica "RERUM NOVARUM", con cui la Chiesa assumeva netta posizione in ordine ai gravi problemi sociali da cui era afflitta la società di quel tempo, levando alta la voce in difesa dei conculcati diritti dei lavoratori. Fu così che qualcuno ritenne erroneamente che il Papa, con quell'atto, avesse voluto tacitamente autorizzare i cattolici a rientrare nella vita pubblica. Convinto di ciò, Romolo Murri nel 1898 pubblicò una rivista politica e fondò un movimento che costarono a lui, sacerdote, la sospensione "a divinis", a cui fece seguito nel 1909 la scomunica con la riduzione allo stato laicale.

Bisognava giungere al papato di Benedetto XV per vedere abolito nel 1919 il "NON EXPEDIT", per cui finalmente i cattolici potevano ritornare ad operare in politica. Ed ecco che, nello stesso anno, un prete siciliano di Caltagirone, Don Luigi Sturzo, fonda il Partito Popolare Italiano, il cui programma viene lanciato al Paese col documento: "APPELLO AI LIBERI E FORTI". Nel giugno dello stesso anno viene celebrato il primo congresso nazionale del P.P.I. con sede nella città di Bologna e viene presieduto da un delegato trentino di nome Alcide De Gasperi; era Costui poco noto in Italia, ma lo era abbastanza nelle sue terre, da poco redente, di cui era stato deputato fin dal 1911 presso il parlamento di Vienna, dove aveva difeso strenuamente l'italianità di quel territorio.

L'atto di nascita del Partito Popolare Italiano veniva così firmato da due Personaggi degli estremi lembi d'Italia, ergendosi a simboli della ritrovata unità nazionale. Le elezioni politiche, avvenute nel Novembre dello stesso anno 1919, furono un successo per questo nuovo partito, che portava alla Camera ben 99 deputati.

Nel 1921 si ripetono le elezioni ed il PPI ne esce ulteriormente rafforzato con 107 rappresentanti. E' una deputazione imponente che consente la partecipazione ai vari governi che si succedono: Giolitti, Bonomi, Facta; sono però tutti governi con vita effimera, mentre disordine ed anarchia avanzano sempre più nel Paese. E' in queste condizioni che il Re decide, fra tante altre vicende che qui non vale ricordare, di affidare la Presidenza del Consiglio a Benito Mussolini, il quale frattanto, con il suo movimento fascista, si era proclamato difensore dell'ordine e della Monarchia. All'inizio sembrò trattarsi di un normale governo di routine, alla cui coalizione parteciparono anche i popolari mandando Tangorra al Tesoro, Cavazzoni al Lavoro e Giovanni Gronchi al sottosegretariato all'Industria e Commercio. L'idillio durò poco; il fascismo rivelò subito le sue intenzioni e così, nella primavera del 1923, il PPI uscì dal governo.

Passato appena un anno, quando ancora il fascismo cercava di stabilizzare il suo precario equilibrio, si verificò l'omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti ad opera di una banda di fascisti esaltati; il fatto suscitò orrore in tutta la pubblica opinione e lo stesso Mussolini, i cui fedelissimi erano andati al di là del mandato, ne rimase scosso e contrariato. Le Opposizioni non seppero cogliere il vantaggio del momento e di ciò profittò il capo del fascismo per effettuarne il recupero. Costui infatti il 3 Gennaio del 1925 si presentò alla Camera e pronunciò un discorso di sfida, assumendo su di sé tutta la responsabilità dell'accaduto, osando dire:"....ed ora, fuori il palo e la corda..." ; ma nessuno fiatò. L'Opposizione, in segno di protesta, abbandonò la Camera e si ritirò nel cosiddetto "Aventino", lasciando Mussolini padrone della piazza e del Parlamento. Da questo momento ebbe inizio la dittatura fascista; cominciarono le persecuzioni; tutte le Opposizioni, sotto la minaccia dell'olio di ricino, del manganello e del confino di polizia, si dissolsero. Il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato cominciò a funzionare a pieno ritmo e tutto in Italia divenne un "osanna" al fascismo, il quale al bastone seppe alternare la carota con le bonifiche pontine ed alcune ottime provvidenze sociali quali, ad esempio, l'istituzione dell'I.N.P.S. nel 1926.

Dovette passare un ventennio prima che gli sfidati di Montecitorio, con l'arrivo delle truppe alleate, tirassero fuori "il palo e la corda" per fare giustizia nei confronti di Matteotti, culminata però in un atto di barbarie con la vergogna di Piazzale Loreto.

Ricostituitasi l'unità nazionale, la gestione del potere passò nelle mani del Comitato di Liberazione, da cui sortirono i governi Badoglio, Bonomi, Parri la cui durata complessiva fu di appena 7 mesi. Fu così che nel Dicembre di quell'anno '945, su non opponibile suggerimento della Commissione Militare di Controllo, il Luogotenente del Regno dava incarico ad Alcide De Gasperi di formare il nuovo governo, in cui entrarono a far parte comunisti e socialisti. De Gasperi però riservò a se stesso, oltre la Presidenza del Consiglio, anche il Ministero degli Esteri, chiave di volta della delicata operazione della firma del trattato di pace.

Questo era il quadro politico italiano quando nell'Aprile del 1946 si celebrò a Roma, nei locali della città universitaria, il primo congresso nazionale della Democrazia Cristiana. Fu l'Assise costituente del Partito; tanti ed importanti furono i temi su cui deliberare: Statuto del Partito, trattato di pace, problema istituzionale, recupero dei nostri soldati prigionieri sparsi per il mondo, crisi alimentare, ecc...

Ero smanioso di partecipare a quel congresso; sebbene già coinvolto nell'attivismo di partito, non osai porre la mia candidatura a delegato, del re sto destinata all'insuccesso, dal momento che la provincia nissena aveva personalità di alto prestigio come Salvatore Aldisio o Giuseppe Alessi. Decisi, comunque, di andarvi ugualmente come uditore o, se volete, come semplice curioso. Entrai in quella vasta platea guardandomi attorno, quasi impaurito, sentendomi un clandestino. Grande fu però la mia sorpresa nel notare l'assenza di qualsiasi formalismo; una ragazza addetta all'accoglienza (ancora non esistevano le hostess) mi venne garbatamente incontro, mi diede degli stampati e mi accompagnò a sedere. Le mie paure furono subito fugate nel rilevare che tutto era improntato alla massima confidenzialità ed a francescana semplicità.

Dal 24 al 27 Aprile vissi con passione quei quattro giorni di quello storico congresso, che gettava le basi della nuova Italia democratica, ma ancora sotto il tallone di una Commissione Alleata di Controllo e prostrata per le nefaste conseguenze della guerra. Per quanto mi riguardava subito io mi sentii tra amici; rilevai che una presenza attiva era considerata titolo sufficiente a legittimare la partecipazione; la scelta dei posti era discrezionale e spesso capitava, durante i lavori congressuali, di trovarmi a fianco di persone che poi sarebbero diventate personaggi. Ascoltai ed osservai tutti i protagonisti con grande interesse e fui particolarmente colpito da quelle figure che emergevano da un passato che il fascismo ci aveva occultato; erano fra queste: De Gasperi, Gonella, Gronchi, Aldisio, Tupini, Piccioni, ecc.., a cui facevano seguito le giovani leve: Fanfani, Dossetti, La Pira, Moro, ecc..

Tanti furono i discorsi e gli interventi, tutti di altissimo livello, ma quello che mi colpì in maniera particolare fu il discorso conclusivo di De Gasperi e non soltanto per i contenuti, ma anche e soprattutto per la carica di umanità che lo pervadeva; si rilevava come sotto la scorza del montanaro si agitava l'uomo che viveva le angosce del momento come ogni semplice cittadino; ricordo quando accennò ai malumori che serpeggiavano nel Paese per l'inflazione galoppante, alzò gli occhi verso un palco di proscenio dove stava seduta Donna Francesca, sua moglie, e guardandola disse: "Anche lei parla male del governo quando torna dal mercato con la spesa!" Si, perché allora anche la moglie del Presidente del Consiglio usciva a piedi con la sporta per fare i suoi acquisti. Altro momento toccante del discorso fu quando si interruppe per leggere un biglietto che gli veniva portato; dopo averlo letto alzò gli occhi verso di noi e disse: "Fiorello La Guardia, capo dell'UNNRA, mi telegrafa: - Tre navi cariche di grano, dirette in Inghilterra, hanno avuto ordine di dirottare su un porto italiano -"; letto il telegramma, De Gasperi ad alta voce commentò: "Questa notizia ci salva dalla fame; la nostra razione di 70 grammi di pane al giorno sarebbe finita tra poco". Con questa nota, che la dice lunga sulle nostre capacità di sopravvivenza in quei giorni angosciosi, si concludeva il primo congresso nazionale della Democrazia Cristiana. A notte fonda l'assemblea si scioglieva e tutti si uscì fuori per salutare De Gasperi che, senza ombra di apparati o di scorte, si allontanava con la vecchia Alfa Romeo della Presidenza del Consiglio, ereditata da Mussolini.

Io rientrai in Sicilia convinto più che mai di aver fatto la giusta scelta e mi preparavo a fare la mia parte per la vicina campagna elettorale; il successivo 2 Giugno '46, infatti, si sarebbe votato per eleggere l'Assemblea Costituente e per rispondere al referendum sulla forma istituzionale da dare allo Stato, dal cui esito poi sarebbe risultata quella repubblicana.

Intanto, a breve distanza, si succedettero il 2°ed il 3° ministero De Gasperi, governi che, sul piano interno, furono totalmente inerti per la presenza sabotatrice dei comunisti e dei socialisti; in conseguenza la ricostruzione non riusciva a decollare e l'inflazione galoppava sempre più.

Si apre così l'anno 1947; la coalizione governativa, con la presenza social-comunista, non poteva andare oltre; infatti a Febbraio De Gasperi presentò le dimissioni nelle mani di Enrico De Nicola, già da sette mesi capo provvisorio dello Stato, dopo la caduta della monarchia. De Gasperi fu incaricato di formare il suo 4° ministero. Dopo lunga crisi, il 30 Maggio varò un monocolore demo cristiano con la collaborazione di cinque ministri tecnici; tra questi emergeva la figura di Luigi Einaudi, insigne economista, a cui fu affidato il dicastero unificato Finanze e Tesoro. A Costui fu data carta bianca col mandato precipuo del blocco dell'inflazione e del risanamento della lira; arduo compito in verità. Ma nonostante mugugni e diffidenze questo fu il governo che segnò la svolta; avviò decisamente la ricostruzione del Paese; le finanze furono rimesse in ordine; le ferite della guerra furono in buona parte risanate a marce forzate tanto da far gridare al miracolo economico dell'Italia.

Intanto il 22 Dicembre di quello stesso anno '947 la Costituente chiudeva i suoi lavori e licenziava la nuora Carta Costituzionale dello Stato, che poi sarebbe entrata in vigore il successivo 1° Gennaio '948.

Da quel momento ebbe praticamente inizio la campagna elettorale per le elezioni politiche, fissate per il successivo 18 Aprile. Fu un confronto aspro e difficile; comunisti e socialisti si costituirono in fronte unico, determinati a conquista re il potere per estromettere l'Italia dal mondo occidentale e chiuderla nella cortina di ferro, alzata dall'Unione Sovietica contro il mondo libero. Vivemmo giornate di appassionati dibattiti.

In quel periodo io vivevo a Palermo, dove frequentavo il mio ultimo anno di università; la città era tutto un ribollire di comizi, capannelli e manifesti; la lotta si faceva sempre più aspra e serrata tanto da sentir dire a Palmiro Togliatti in un Comizio: "Al cancelliere austro-ungarico daremo un calcio nel sedere". A me capitava tutti i giorni di stare molte ore all'U.S.I.S. (United States Infonnation Service); era questa una grande biblioteca americana, gestita dal Consolato Generale dell'U.S.A., aggiornatissima su tutto quanto aveva fino a quel momento prodotto, in ogni campo, la cultura statunitense. Tale mia frequentazione era necessaria per le consultazioni che servi vano alla preparazione della mia tesi di laurea, il cui tema verteva su un'indagine relativa ai "media" di quel Paese. Ebbene, la sera quando rientravo a casa (allora si camminava soltanto a piedi) mi toccava attraversare la piazza del teatro Massimo; qui si formavano numerosi capannelli in cui nascevano accese discussioni sui temi della campagna elettorale. Ascoltavo per un poco e quando notavo che l'interlocutore democristiano era in difficoltà rispetto a quello comunista, allora non riuscivo a trattenermi (era più forte di me) ed intervenivo, cercando di risollevarne le sorti, con visibile acredine dell'avversario. Seppi dopo, che i protagonisti di quegli incontri, apparentemente casuali, erano regolarmente mobilitati dai rispettivi partiti ed adeguatamente retribuiti.

Alla fine di quella accanita battaglia elettorale, si passò al voto ed il popolo italiano diede a Togliatti quel calcio che costui aveva promesso a De Gasperi; la Democrazia Cristiana conquistò infatti la maggioranza assoluta, portando alla Camera 307 deputati contro i 180 del fronte socialcomunista.

Uno dei primi atti del nuovo Parlamento fu l'elezione del Presidente della Repubblica; infatti, in data 11 Maggio '948, Senato e Camera, in seduta comune come prescriveva la nuova costituzione, procedevano a tale adempimento e dalle urne veniva indicato alla suprema carica Luigi Einaudi, 20 Presidente della Repubblica, dopo Enrico De Nicola che ne era stato il primo su designazione unanime della Costituente.

Il nuovo Capo dello Stato affidava a De Gasperi l'incarico della formazione del nuovo governo, quinto della sua serie e questa volta coalizzato con formula quadripartita con repubblicani, liberali e socialdemocratici; la D.C. rinunciava volutamente al monocolore ed alla gestione unica del governo, pur avendone la forza parlamentare.

La nuova struttura politica, sortita dalle elezioni politiche del 18 Aprile, aveva le carte in regola per meritare la fiducia degli Alleati occidentali, anche se l'U.R.S.S. con il suo veto pervicace impediva l'ingresso dell'Italia nelle Nazioni Unite. Nonostante ciò, gli Stati Uniti applicavano integralmente in nostro favore le provvidenze del Piano Marshall, che consentirono una rapida ripresa di tutti i settori produttivi del Paese.

Intanto io continuavo a frequentare assiduamente la ricca biblioteca dell'USIS che mi consentiva di attingere utili argomenti per la stesura della mia tesi e la sera, come al solito, rientrando a casa, passavo per la piazza del Massimo ed ora, quasi con nostalgia, la vedevo deserta; dov'erano finiti tutti gli accaniti agit-prop che preparavano i funerali della Democrazia Cristiana? Ma i miei transiti serali erano ormai quasi alla fine; il mio lavoro infatti era stato completato ed ebbe poi la sua naturale conclusione il successivo 9 Luglio in sede di esame di laurea.

Già da qualche mese la prima legislatura era partita a pieno regime; fu quella delle decisioni storiche, quella che avrebbe disegnato il volto dell'Italia futura. La prova più ardua sostenuta dalla maggioranza, si presentò nel Marzo del 1949 allorché si svolse il dibattito parlamentare per l'adesione dell'Italia al Patto Atlantico. Vi fu alla Camera una seduta ininterrotta di oltre 50 ore con momenti di inaudita violenza; furono gli estremi tentativi di una sinistra sconfitta dal voto popolare, a cui avrebbe voluto sostituire la violenza fisica nelle piazze e nel Parlamento. Il tentativo fallì miseramente; popolo e Parlamento avevano reagito adeguatamente, memori dell'esperienza fascista. L'adesione al Patto fu votata con ampia maggioranza e così l'Italia entrava, a pieno titolo, nel novero dei grandi paesi democratici. Quello fu il punto massimo della curva ascensionale della Democrazia Cristiana.

Frattanto, terminati gli studi, ero rientrato a Montedoro dove cominciai a svolgere attività lavorativa prima nell'insegnamento e successiva mente nel settore bancario. Ma ciò che soprattutto mi attirava e mi coinvolgeva era la politica. Infatti, dopo i primi anni di attivismo politico nel partito in ambito locale e nella provincia nissena, nel 1952 mi presentati alle elezioni amministrative di Montedoro nella lista della D.C., che risultò vincitrice e quindi entrai nella giunta comunale con la carica di vice-sindaco, conservando però quella di segretario della locale sezione della D.C.

L'anno successivo ebbero luogo le elezioni politiche del 1953; fu quella la competizione in cui venne, per la prima volta, istituito un premio di maggioranza per la lista che avesse raggiunto il 50% dei voti validi. Il meccanismo di quella legge (chiamata dagli avversari "legge truffa") non scattò per una manciata di voti che vennero meno alla D.C., la quale però conquistò ugualmente la maggioranza relativa. Tale risultato però non con sentì a De Gasperi di costituire il suo ottavo ministero per la mancata fiducia parlamentare.

Stanco e deluso il vecchio Presidente si ritirò sulle sue montagne del Trentino, a Sella Valsugana, da cui si allontanò soltanto per fare una fugace apparizione al 5° congresso nazionale della Democrazia Cristiana, che sì tenne a Napoli nel Giugno del 1954 e qui si limitò a dettare il suo testamento politico, che terminava con queste parole: "Ricordate soprattutto che le riforme politiche, sociali ed economiche, le garanzie costituzionali i controlli amministrativi, le stesse sanzioni penali restano inefficaci se non è viva ed operante la coscienza morale". Dopo questo ammonimento, rivelatosi profetico, Alcide De Gasperi ai spegneva quello stesso anno nel silenzio del le sue valli, circondato soltanto dai familiari.

Alla scuola di questi alti insegnamenti, cercando di esserne degno alunno, mi adoprai per svolgere nel miglior modo possibile le funzioni a cui venivo chiamato nell'ambito della giunta comunale, fino alla massima responsabilità effettiva della sindacatura per la totale e permanente assenza del sindaco titolare, impegnato in attività parlamentari e di governo. Anche a livello provinciale mi sforzai di dare il massimo apporto alla vita del Partito, sia in sede congressuale sia in Comitato Provinciale tutte le volte che venni chiamato a farne parte. Questa mia pubblica attività durò per 25 anni; e ciò quando non era neppure concepibile una minima retribuzione o quando la parola "tangente" era usata solo in geometria. Non era neppure pensabile di accedere alle infinite agevolazioni che oggi accompagnano il mandato politico elettivo ai vari livelli della pubblica amministrazione, dal momento che tale mandato veniva considerato come un servizio da rendere alla propria Comunità e non invece, come oggi accade, soltanto una fonte di lucro e di potere.

Quando nel 1977, a seguito di trasferimento in altra sede a motivo della mia attività bancaria, rimisi il mio mandato al Consiglio Comunale, in quella seduta che io presiedevo, ricevetti finalmente il pagamento che mi era dovuto. In quella occasione il capo dell'opposizione comunista, alzatosi per rispondere al mio saluto, mi dava pubblico attestato di non avere mai distratto una sola lira per finalità diverse che non fossero state quelle del pubblico bene. Questo riconoscimento fa parte del mio patrimonio di cui vado fiero.

Da quel lontano giorno non ho più fatto politica attiva, anche se ho sempre nutrito simpatia per lo schieramento per il quale avevo militato; devo però confessare che tali sentimenti si andavano sempre più attenuando, non perché fossero venute meno le ragioni ideali, ma perché il partito mi appariva sempre più distratto e disattento alle motivazioni originarie del pensiero di Don Sturzo e all'opera di Alcide De Gasperi.

Quando alle cose dette si aggiunsero alleanze improprie; quando la brama di potere si sostituì allo spirito di servizio, ebbene, allora la sorte era segnata. Gli accadimenti degli armi '90 furono la naturale conclusione di una struttura politica logorata dall'opera di uomini che avevano smarrito la "coscienza morale" di cui De Gasperi aveva parlato nel suo testamento.

Alfonso Alfano

Palermo 12 Ottobre 2000

 

 

                           

                  EUGENIO CAICO E LOUISE HAMILTON

                                                    di Alfonso Alfano

 

Louise Caico Hamilton nacque a Nizza l'8 febbraio 1861 da Federico Hamilton e da Pilatte Zulmà. Il padre discendeva dal ramo irlandese del casato degli Hamilton; ancora giovane lasciò il Regno unito, per divergenze con i rami scozzese ed inglese del casato, e non volle più mettere piede in patria per tutto il resto della sua vita, rifiutando anche di parlarne la lingua.

Scelse la Francia come sua patria elettiva e fissò la sua residenza a Nizza, dove sposò la giovane Pilatte appartenente ad una famiglia di mercanti marsigliesi.

Dal matrimonio nacquero sei figli, di cui ultima Louise nel 1861. Quando questa aveva appena due anni, nel 1863, il padre decise di trasferire la famiglia a Firenze essendo suo intendimento dare ai figli una cultura artistica ed umanitaria di alto livello d'impronta italiana. Fissò la sua dimora nei dintorni della città e precisamente in una villa chiamata "La Canovaia".

Fu in quello stesso anno che Eugenio Caico, allora dodicenne ed appartenete alla più cospicua famiglia di Montedoro, da quel piccolo comune della provincia di Caltanissetta fu mandato dalla famiglia a Firenze per compiervi i suoi studi medio superiori. Alla ricerca di una sistemazione abitativa e per circostanze che ci sfuggono, Eugenio si trovò ad essere ospitato nella villa degli Hamilton. Tale convivenza durò fino al 1870 quando il giovane Caico, non dimenticando le radici laiche della sua famiglia, preso dall'entusiasmo per la caduta di Roma in mano alle truppe piemontesi, decise di recarsi in carrozza con un gruppo di amici nella nuova capitale d'Italia.

La scappatella non fu gradita dalla famiglia, la quale richiamò Eugenio in Sicilia facendogli troncare gli studi ed avviandolo all'amministrazione dei notevoli beni di famiglia.

Fino al 1880 per il giovane Eugenio fu un decennio di espiazione durante il quale non gli fu consentito di lasciare il paese di Montedoro. In quell'anno finalmente gli fu accordato di fare un lungo viaggio in giro per l'Europa e così, passando per Firenze, pensò d'andare a salutare gli Hamilton, con i quali non aveva più avuto neppure rapporti epistolari.

Recatosi alla villa "La Canovaia" trovò nuovi inquilini dai quali apprese che la famiglia da lui cercata da alcuni anni si era trasferita a Bordighera, dove viveva in una villa di proprietà. Eugenio, senza frapporre indugi, vi si recò e qui, lui ormai ventottenne, trovò Louise divenuta una bella ragazza nel fiore dei suoi diciannove anni.

Fu il classico colpo di fulmine tra il giovane signorotto di campagna e la leggiadra fanciulla che frattanto, oltre alle scuole italiane, aveva frequentato le migliori scuole francesi e londinesi. Si fidanzarono e decisero di sposarsi in tempi brevi. La famiglia di Eugenio però oppose un reciso rifiuto al matrimonio, soprattutto per l'opposizione del fratello Cesare, il quale in quella unione con una straniera vedeva il pericolo di una dispersione del patrimonio familiare.

Eugenio non volle sentire ragioni ed in quello stesso anno (era il 1880) sposò la bella Louise, accettando la pesante penalità dell'assoluto divieto di rimettere piede a Montedoro, anche se la sorella Giulia, di nascosto a Cesare, non gli fece mai venire meno le rimesse di denaro.

I giovani sposi rimasero a convivere con gli altri membri della famiglia Hamilton e fu lì infatti, nella villa di Bordighera, che nacquero tutti i figli di Louise ed Eugenio; il primo fu Franco (morto in fasce nel 1881), a cui fecero seguito Lina, Giulia, Federico e Letizia nel 1892. Frattanto il rigore dell'esilio si era attenuato e gli venne consentito il rientro a Montedoro, ma da solo.

Fu così che Eugenio nel 1894 trovò il coraggio di imbarcare moglie e figli a Genova per raggiungere la Sicilia: giunto a Palermo, al momento dello sbarco, gli venne incontro un messo che gli notificò l'ordine perentorio della famiglia di non presentarsi a Montedoro. A quel punto non poté fare altro che prendere in affitto un appartamento in Palermo e qui, in Via Mazzini, sistemarvi la famiglia.

Passarono tre anni, prima che venisse meno l'opposizione del fratello Cesare, colpito da malattia che presto lo portò a morte; così finalmente, nell'anno 1897, Eugenio poté per la prima volta portare la sua famiglia a Montedoro.

Era quello il periodo di massimo splendore della famiglia Caico: era titolare di vasti possedimenti terrieri, di molte ed altamente produttive miniere di zolfo, di parecchi fabbricati ed aree urbane. Deteneva altresì il potere politico nel paese e vantava potenti amicizie anche a livello nazionale.

Louise Hamilton, ormai divenuta Luisa Caico, venne a trovarsi in questa realtà, nel cui contesto visse dal 1897 al 1913, anche se frequenti erano le sue partenze per soggiorni più o meno lunghi a Palermo, a Bordighera o a Londra.

I sedici anni di vita montedorese furono per la Caico-Hamilton una esperienza esaltante e ricca di interessi; usi, costumi, tradizioni, folklore fecero rivivere nella sua memoria ricordi ancestrali di una civiltà classica scomparsa, che aveva imparato a conoscere ed amare sui libri, ma di cui non aveva ancora avuto occasione di verifica o possibilità di scoperta delle radici.

Fu questo il periodo in cui maturarono nella scrittrice tutte quelle esperienze che lei felicemente tradusse nel libro: "Sicilian ways and days". Quest'opera, forse senza che l'autrice lo volesse, è risultata un quadro pregevole di umanità; in essa però non troviamo nulla che ci aiuti a capire l'autrice nel suo contesto di vita familiare. Il soggiorno della Caico-Hamilton a Montedoro fu infatti ricco di interessi, ma non felice; i rapporti col marito si andavano sempre più deteriorando anche perché in quella realtà ambientale si evidenziava al massimo la diversa estrazione socio-culturale dei due coniugi, i quali finirono col vivere in un vuoto familiare ancor più aggravato dall'assenza dei figli, i quali, prima andati all'estero per i loro studi, avevano poi preferito inserirsi nell'ambiente palermitano in un momento felice della sua esistenza, quando nella città fiorivano i Florio ed il Liberty.

Fu così che la Caico-Hamilton decise di togliere definitivamente le tende da Montedoro nel 1923 per trasferirsi a Palermo per convivere con i figli. Mise casa in Via Isidoro Carini al civico n. 60; qui visse per tutto il resto della sua vita, inserita nei migliori ambienti della cultura palermitana. Spesso la stampa si interessò ai suoi scritti ed alla sua persona; in occasione della pubblicazione del libro "Sicilian ways and days" il Giornale di Sicilia del 19 novembre 1911 pubblicò un'ampia recensione che occupava quasi un'intera pagina del quotidiano.

Aveva una perfetta padronanza del francese, dell'italiano e dell'inglese, scriveva indifferentemente nelle tre lingue e mise a frutto queste sue capacità facendo parecchie traduzioni come "Il tempo sepolto" di Maurice Maeterlinke, "Come essere felici sebbene sposati" di Hardy, entrambi dall'inglese. Pubblicò una sua traduzione in francese di alcune liriche di Leopardi. Nel 1906, per i tipi di Sciarrino, venne pubblicato in Palermo un suo interessantissimo opuscolo intitolato "Per un nuovo costume della donna in Sicilia". Il Giornale di Sicilia pubblicò molte sue corrispondenze di viaggi.

La morte la colse all'età di 66 anni nella sua casa il 7 marzo 1927; la sua salma riposa nella tomba di famiglia nel cimitero di Sant'Orsola di Palermo. Con essa riposano il marito ed i figli Lina, Letizia e Federico.

"Il Giornale di Sicilia" dell'8 marzo 1927, annunziandone la morte, così scriveva: "Si è spenta improvvisamente la nota scrittrice Luisa Caico-Hamilton. Viene a mancare con Essa una delle figure più simpatiche e più interessanti del nostro mondo letterario…..".