Il Delirio

di

Giovanni Piccillo

 

A Gabriella,
quel fiore che da lungo tempo cercavo,
che mi donò un amore vagheggiato
nelle tante ragazze immaginarie e nelle
descrizioni di questa storia, presto
rapita da un Destino crudele e
improvviso, troncando solo in vita un
amore che dura "anche dopo". A lei
un libro concepito in un Tempo di
  speranze e di sole.
        
  Gianni

 

 

 

Presentazione

Un racconto, un delirio, un balzo nel recente passato. Un ricordo di vari episodi richiamati caoticamente nel presente. Brevi fotografie di fatti accaduti. E’ un percorso già vissuto, e quindi non suscettibile di cambiamenti. Quel che accade al protagonista è vero, falso, possibile, verosimile, improbabile e ogni particolare è sbattuto in faccia al lettore senza dargli la possibilità di immaginarne, o conoscerne, il vero perché. Ciascuno può credere quello che vuole, può vivere la vicenda in modo completamente diverso da un altro, ma in ogni caso deve subire la violenza di un testo senza spazi per riflettere al momento, come avviene per Joe (protagonista del racconto), che soffre e basta. Per le varie coscienze e le imposizioni di schemi immodificabili, se non con la morte, e forse nemmeno allora, che la società gli piazza davanti in ogni circostanza. Ma la società non è essa stessa un mondo senza linfa, che aliena e ottunde la vita, seguendo delle leggi e delle forme di volta in volta asservite al momento storico, ad un dato regime, ad uno scopo prefisso, adoperando i mezzi più vari per celebrarne la giustezza e l’attuazione?! Il vuoto (esistenziale di un’intera generazione?) che avvolge il racconto non insegna nulla, ma mette in evidenza la sofferenza che ciascun personaggio, o ciascun uomo, patisce, a causa di una colpa. Colpa che è sempre preceduta dalla punizione ineluttabile del Potere, che, dopo aver agito sempre contro l’individuo, riesce a spiegarne la causa, e a giustificarsi in ogni caso. L’autore va al di là di un pessimismo o di un nichilismo sostanziali. In questo "oltre" s’intravede una tenue forma di "speranza" soggettiva, che viene però amputata sul nascere anche dalla fatalità. A che vale allora vivere, se la libertà è ceduta ad un meccanismo contro il quale non si può lottare, che non lascia altra possibilità di esistenza, se non quella predefinita e sterile, che determina ogni passo di ogni succube schiavo della Comunità?!

Hai mai amato Qualcuno? Se hai trovato per la prima volta nella tua vita qualcuno con cui condividere tutto, con cui sognare, parlare, e finalmente vivere, e poi un mattino di un giorno qualsiasi, alzarti, andare da lei e vederla per terra morta da ore, senza una spiegazione, senza quella paura, pensando che la vita fosse infinita, e scoprire che non è così, allora leggi questo libro. E se tutto questo fosse per te solo un racconto o un incubo di uno in particolare, allora non so che dirti.

L’autore è nato a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Montedoro, paese natio del padre, docente di lingua e letteratura rumena a Catania. Ha studiato, dai quindici ai diciotto anni, alla Scuola Militare della "Nunziatella" di Napoli, dove ha conseguito la maturità classica. Nel 1995 Si è laureato in Lingue e Letterature straniere nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania.

"Chi non ha bisogno di entrare a far parte di una comunità e basta a sé stesso, o è una belva o è un Dio"       Aristotele



 

Era ancora buio quando mi alzai. Alle sei e trenta partiva il mezzo che il prete della parrocchia aveva prenotato per la gita sulla neve. Avevo molta ansia.

Era una delle poche occasioni di divertimento in quelle fredde colline e vallate della mia terra. Il periodo natalizio volgeva al termine, ed io, come tanti miei compaesani, tenevo molto all’avvenimento. La notte la passai a casa di mia nonna Concetta.

Alzatasi prima di me, preparò il latte, mentre nel frattempo io mi lavavo e vestivo; poi, ultimati tutti i preparativi, uscii per recarmi nel luogo prestabilito per la partenza.

Non tutti erano già giunti, ma gli altri arrivarono dopo qualche minuto e comunque in orario. Fra gli ultimi c’era Anna, una mia amica, soprannominata la "Quaglia", splendido animale giovane. Ne ero invaghito, ma siccome era molto più matura, e più grande di me di pochi anni, avevo una certa timidezza nel dichiararle il mio affetto, però lei ne era a conoscenza, ugualmente. Tuttavia ancora non se la sentiva di iniziare un rapporto con un ragazzo più immaturo e bisognoso di essere guidato in tutti i meandri di una non facile relazione. Io non la capivo, soffrivo, non potendo appagare quei desideri, in quel tempo per me conosciuti poco e da poco. Ma questa volta sentivo che un non so che di fatale avrebbe dato una svolta a ciò che allora desideravo immensamente, e lei sarebbe stata mia, e dopo tante attese inutili.

Il nostro attaccamento poteva essere ostacolato sia dalle maldicenze della gente, in quanto lei aveva una cattiva fama, di ragazza scapestrata e di dubbia reputazione, cosa che però non aveva un valido riscontro effettivo; sia dalla mia famiglia, che reputava la sua non adatta borghesemente ad una futura parentela. Per me, queste, erano sciocchezze assurde, che offuscavano e nascondevano una realtà diversa; fatto sta che tutta questa falsità sul suo conto, ossia le dicerie e la non "nobiltà" del suo ceppo famigliare, benché irreale, impediva il mio libero vivere.

Ci sedemmo vicini, io dalla parte del finestrino, entrambi emozionati per questa semplice comunanza di posti. Il mio cuore batteva come non mai, immerso in un sogno ad occhi aperti: finalmente avevo la possibilità di dirle tutto ciò che provavo per lei, lontani dagli accusatori infidi del paese. Anna cominciò a parlare della giornata che avremmo passato insieme, da soli, spiegandoci chiaramente, e dissipando ogni dubbio su quello che era il nostro sentire. Dovevamo avere la forza di dichiarare a noi stessi il bene grande che ci volevamo. Le assicurai che per lei ero disposto a tutto, e che senza la sua presenza sarei stato vuoto ed inutile. Senza la sua dolce esistenza la mia vita sarebbe stata senza senso (il tempo della pubertà…).

Certamente Anna era una brava ragazza, al di là di ogni maldicenza, ma io la desideravo non solo per il suo lato spirituale, buono, ma anche e soprattutto per la sua prestanza fisica, per l’armonia delle forme e per il suo profumo , un odore di fiori ricercati. Era bionda, formosa, splendente nel viso. La sua bocca era calda; le sue dita, con unghie lunghe e rosse, erano agili, anche se non sottili, ed a volte inanellate. Era la realizzazione più perfetta della donna.

Mi prese la mano, la incrociò con la sua, poi mi solleticò la nuca e mi baciò, mentre con l’altra, lontani e nascosti dagli sguardi sonnolenti dei compaesani, si muoveva tra i miei capelli, accarezzandoli con un tocco spontaneo e naturale.

Il viaggio per giungere a destinazione era breve, di poche ore, e con lei mi sentivo proiettato in un’atmosfera senza tempo, come passeggiare in un bosco in cerca del buio, senza meta, soli e gai.

Anna amava la vita in ogni sua forma, sapendo che la gioia dell’esistenza sta racchiusa nelle singole piccolezze del giorno e della natura; inoltre riteneva che bisognasse cercare nell’attimo della fugacità la felicità ed il fine che tanti sognano in una collocazione lontana e quasi irraggiungibile. Vivere nel presente quel poco, e solamente quello, che la casualità porge. Non è facile dimenticare lei, i suoi pensieri, le sue spiegazioni… purtroppo a volte si è costretti a rompere definitivamente, e sino alla fine dei giorni, con coloro che rappresentano in noi sia un punto fermo, anche se ancorato nel passato, sia un malinconico struggimento del nostro cammino tortuoso e di routine.

Tra baci, carezze, parole sussurrate, giochi contenuti, tenerezze, pervenimmo sulle montagne ricoperte dalla soffice ed immacolata neve. Scendemmo con gli altri, percorrendo insieme un tratto di strada; poi noi due andammo al rifugio per posare i sacchi da colazione. Affittammo una piccola slitta, ci dirigemmo verso la parte alta della montagna, tra gli alberi del bosco, e dopo più di un’ora la vetta fu nostra. Il paesaggio e la vista erano immensamente superbi: il cielo azzurro e limpido, l’aria fresca e pungente. In quei momenti mi sentivo padrone della terra, come se nella mia persona fosse nascosto un potere occulto, che solo ora veniva alla luce, con la sua natura distruttiva o creativa, con la sua forza indomabile. Ero troppo fuori di me per aver avuto per la prima volta la donna che volevo. Prendersi tra la fredda neve fu un’esperienza dolce ed inspiegabile; in effetti non avevamo preventivato niente del genere, anche se il nostro intento era chiaramente di allontanarci dalla comitiva, per parlare, progettare, stare insieme, scambiarci effusioni. Ma quando si inizia a dar libero sfogo ai propri sentimenti, non c’è più modo di arginarli nel loro travolgente scorrere. Essi inondavano tutto l’essere, sfuggendo ad ogni tipo di controllo posteriore.

Spesso, da casa mia osservavo Anna che nel vicino campetto da tennis giocava con un cugino od un’amica. Restavo tutto il tempo della partita ad ammirare la sua grazia giovanile, a sentire la sua voce squillante ed ammaliante. Sì, la sentivo presente da sempre. Ecco, lei era viva in me dalla primissima infanzia, quando i ricordi involontari e le conoscenze non hanno una sistemazione precisa e tutto è mischiato senza una linea di distinzione, ed i contorni appaiono sfumati e lontani. Anna era "mia", e non poteva essermi strappata da nessuno senza arrecarmi un dolore lacerantissimo. Il dolore che ancora oggi mi annienta nei momenti in cui non sono distratto dal lavoro, opprimente ed ottundente.

Ma, finalmente, dopo tante attese, tanti desideri vagheggiati, Anna si abbandonava ormai all’appagamento dei suoi sensi, scaraventando via tutti i veri o falsi ostacoli che sorgevano contro di noi. Tuttavia, entrambi sapevamo che la nostra debolezza ci sarebbe stata fatale. I nostri compaesani ci avevano visti "insieme", e presto le voci di una nostra relazione, vera o falsa, si sarebbero diffuse per il paese intero, con la conseguenza che la mia famiglia mi avrebbe intimato di non frequentare più Anna, o peggio ancora, mi avrebbe mandato da parenti abitanti in una località lontana dal paese, senza più rivedere il mio amore, se non dopo moltissimo tempo, quando la malinconia e la sofferenza avrebbero ammalato la mia voglia di lei.

Ma al momento di fare ritorno al rifugio, la slitta imboccò la pista che da una parte costeggiava il bosco, dall’altra il precipizio. Raggiunta una folle velocità, quando Anna aveva ormai intravisto in quella corsa qualcosa di mostruoso, la slitta volò dal dirupo, nel vuoto, e nella morte.

Passai dei mesi in ospedale, con vistose contusioni, in preda a deliri vari, e con gran parte delle mie ossa rotte spezzate dai rami di un albero sul quale ero inaspettatamente atterrato salvando la mia vita, ma non quella della mia sfortunata amica. Al risveglio ero praticamente ancora inconsapevole di ciò che in un attimo di assoluta ebbrezza era accaduto. Era morta! La degenza, in quell’istituto noioso, fu soffocante. Il tedio delle lunghissime ore, passate ineluttabilmente a pensare, ripensare a quella morte, fu ben più atroce di qualsiasi malanno. Soffrivo! La mia mente era assalita dal ricordo di lei: dolce, sincera.

Risposi alle domande con perfetta estraneità, tutto era surreale, ammesso che esista qualcosa di vero e profondo in questo mondo, virtuale e costruito differentemente da ogni testa.

All’uscita dall’ospedale, mi recai a casa, al paesello.

Dopo qualche giorno di riadattamento, notai che tanta gente mi scartava, mi trattava freddamente.

Alle cinque mia madre mi buttò giù dal letto. Non capii. Che succedeva? Dovevo partire, andare via e lontano. Venivo spedito da un parente che abitava molto lontano dalla mia terra.

Il distacco dalla mia genitrice fu insopportabile. Lacrime scesero impetuose, bagnandomi il viso, sino a giungere sul collo, provocandomi una sensazione di formicolio fastidioso. Mio padre, invece, fu inalterabile.

 

Non ricordo più se fosse una giornata di sole, eppure la luce era tanta, tantissima, tuttavia ricordo benissimo quella persona, ancora, purtroppo, presente come non mai. Era di carnagione chiara, bel viso, dall’apparenza dolce ed indifesa. Rimasi a guardarla come chi si vede per la prima volta e si cerca di conoscere – e riconoscere - dai lineamenti della faccia, dal modo di agire, di muoversi, di parlare, di gesticolare. Non era bellissima, però aveva un non so che di strano, di ammaliante che la rendeva accattivante e nello stesso tempo le conferiva una luce particolare, mai vista prima in nessun’altra ragazza. Ancora non so bene se fui io ad invaghirmi per primo di lei, o lei di me; sta di fatto che in noi nacque veloce un sentimento strisciante che definirei come una travolgente attrazione.

Ci trovammo per caso su quello stesso treno che doveva portarci in luoghi diversi sia per distanza che per natura; però, a volte, la difficoltà e l’impossibilità avvicinano due che si desiderano intensamente, non vedendo né barriere né ostacoli, anche se la durata della relazione è per forza di cose destinata a naufragare od a cessare prima che se ne abbia piena coscienza o che se ne veda effettivamente la fine.

Il suo nome, forse, lo ricordo benissimo, ma un appellativo vale solo in certi casi, anzi, ritengo che sia inutile conoscerlo senza sapere alla fine chi è l’esistenza che individua. In quello scompartimento eravamo solo in due: lei ed io. Mi presentai col mio solito: "Ciao, io mi chiamo Joe." Mi rispose un freddo "Salve." Tutto potevo pensare, eccetto il fatto che mi sarei perso di lei (a distanza di anni ritengo che mi sia perso sempre), così insignificante, così taciturna, così glaciale. Ma se il vivere offre qualcosa di bello, è proprio nell’assurdo che bisogna addentrarsi per trovarlo. Se ogni cosa fosse razionale ed individuabile, perderemmo il gusto di proseguire in questo cammino senza meta. La voglia di sapere cosa ci accadrà e come e quando, ci spinge a tenere viva la nostra curiosità, che è la sete della conoscenza, e quindi la molla della resistenza contro le avversità costanti, di un vivere che spesso è destino, a volte coincidenza di azioni e cose a noi esterne, e troppo spesso non si sa cosa è o cosa sia.

Ben presto il lungo convoglio diesel partì, forse in anticipo, ma penso che la mia cognizione del tempo, in quel momento, non dovesse essere precisa come sempre, altrimenti mi sarei accorto che era quasi sera, ed io ero arrivato in città di pomeriggio. Da circa mezz’ora costeggiavamo un litorale che sapevo verdeggiante e mirabile, ma che a causa del buio serale non si poteva ammirare come di giorno; però le luci vaghe della città e dei lampioni stradali permettevano di percepirne ugualmente la bellezza.

Lei era lì, di fronte a me, che fumava una sigaretta, guardando fuori inebetita, come per pensare a delle vicende passate, dalle quali si sta fuggendo o dalle quali si tenta di fuggire, storie lontane o vicine, ma che in fondo sono presenti sempre nella nostra mente, ricordate da una memoria che non ci abbandona e non ci lascia respirare, torturandoci ad ogni occasione con ricordi piacevoli, quindi nostalgici, o con misfatti e delusioni di diversa essenza, quindi oppressive.

Col passare delle ore, il silenzio, che ormai regnava nello scompartimento, cominciò a venire meno, finché entrammo in piena confidenza e parlammo di noi, dei nostri problemi, di lavoro, amicizia; ci raccontammo dei nostri sogni, di progetti futuri, di speranze, di gioie, di dolori, di tutto… e quello che più mi stupisce e che ancora non riesco a capire è il fatto che, da semplici sconosciuti, diventammo altro. E poi tutto il resto. Lei nella sua vita aveva commesso degli errori imperdonabili e irrimediabili, e per questo ancora soffriva delle pene enormi, non dormendo tranquilla, non vivendo che assediata da incubi di difficile comprensione e di drammatica assuefazione. Ne parlava, però, con distacco, sempre restando sul vago: io mi incuriosivo sempre di più, ma non riuscivo a cogliere effettivamente tutte le sfumature dei suoi racconti, anche se era evidente che lei soffriva nel parlarne. Le facevo delle domande precise, ma le sue risposte erano sfuggenti e reticenti, perciò alla fine capii che non era più il caso di insistere, quindi passammo ad altri argomenti. Il nostro colloquio fu interrotto dall’arrivo dell’impiegato del servizio ristorante. Ordinai una bibita ed anche lei. Gliela passai ed in quell’attimo le nostre dita si toccarono trasmettendoci un calore e delle vibrazioni ansiose e vogliose. Ci sedemmo vicini e ci tenemmo per mano, la sua sinistra incrociata con la mia destra, senza dire una sola parola, senza guardarci, tanto l’emozione di quel semplice contatto innocente ci bastava ed andava al di là delle nostre intenzioni e previsioni. La forza che impiegavamo nello stringerci era così eccessiva, che ben presto ci stancammo. Parlammo di futuro, di viaggi, di un nostro nido in cui vivere lontani da tutti – pazzie ad occhi aperti durate una notte o un anno. Progettammo tutto ciò che avremmo voluto fare; sognammo parchi, prati in cui fare l’amore per ore ed ore senza mai stancarci, immersi dentro l’erba alta, immersi nel vento. Ci desiderammo come non mai. Quel rapporto era così stupendo, così completo, sincero, che ancora non so perché sia finito o perché sia iniziato. Eppure io la volevo, ma anche lei desiderava me. O forse questa era un’impressione: un idealizzare ed ingigantire una storia perduta fugace e singolare. Però ero talmente preso da tanto assurdo coinvolgimento, da non capire più la differenza tra sesso ed attrazione.

Il corridoio era pieno di gente che andava da una parte e dall’altra del vagone, pieno di curiosi che cercavano di osservarci nelle nostre effusioni di affetto. Allora decidemmo di continuare in un luogo che ci preservasse dall’ottusità di gente tanto sconosciuta quanto inopportuna e squallida. Ma dove trovare un po’ di pace e di intimità?! Lei mi propose il bagno. E vi andammo. Attraversando il corridoio, si notavano nella semioscurità del mezzo i sorrisi ironici dei guardoni, degli impiccioni che fino a qualche attimo prima ci scrutavano dagli spazi tra le tendine che chiudevano lo scompartimento. Camminammo tranquilli cercando di non curarci delle loro espressioni di ambiguità.

Il bagno era piccolo, puzzolente, rumoroso: invece di ospitare delle persone, sembrava adibito all’andar di corpo delle bestie, visto che tali siamo per uno Stato che in ogni epoca, in ogni dove, ci stritola, e ci macella, appunto come bestie. Ma tutto sommato, a noi andava bene così; l’importante era che ci nascondesse da tutti quegli sguardi. L’aria era satura di odori sgradevoli, ed ancora mi riesce difficile comprendere la forza che ci spinse a sopportare il tutto. Così iniziò tutto ciò che sognavamo di fare insieme. Ci spogliammo lentamente, guardandoci negli occhi ebbri, alla fine ci abbracciammo. Desideravo il suo corpo come mai mi era accaduto in precedenti occasioni. Ed ora, per la prima volta nella mia vita, mi tuffavo in un baratro perdutamente per una che non conoscevo, se non da qualche ora, ed il peggio è che credevo a tutte le fantasticherie che in quella circostanza partorivo senza tregua.

Fummo interrotti all’improvviso da un rumore metallico sulla porta. Si trattava del controllore che passava per obliterare i biglietti. Ci "ordinò" di sbrigarci perché doveva "lavorare." Io non seppi cosa replicare, anche perché ero imbarazzato. Fu lei a rispondere, anzi aprì la porta del bagno, che poi socchiuse, e mostrò candidamente un bel biglietto che estrasse in quell’attimo dalla tasca della gonna che giaceva sul pavimento sozzo. L’uomo andò via. Riprendemmo dal punto in cui ci aveva interrotto. Io ero immerso non so dove, al di fuori di ogni logica realtà, e proprio perciò navigavo con la mente lontano, non riuscendo a discernere la materialità affettiva e momentanea dall’insensatezza che vivevo nelle mie elucubrazioni. Il rumore del macchinario che scorreva veloce mi stordiva e m’ipnotizzava, e l’adrenalina faceva il resto; diversamente la mia compagna, che non subiva questa tortura, sebbene pure lei si trovasse proiettata in una dimensione tutta sua, particolare, in un tipo di estasi ambigua, o falsa. Era stupenda. Parlammo di noi, tra baci e carezze.

Quante illusioni, quante speranze, quanto parlare vano... la mia storia doveva finire presto e male, scontrandosi con lei, essere calcolatore e privo di sentimenti, differentissimo da quello che avevo conosciuto negli amplessi, e fino a qualche attimo prima della sua rivelazione di soggetto perfido ed incomprensibile, almeno per me, che ero stato sempre schietto e leale… Lei non mi desiderava come avevo immaginato, o forse sì, ma i primi ostacoli le tolsero la maschera, o l’abbatterono così seriamente, che non ebbe più il coraggio di resistere alle "tempeste" che si riversarono su di noi. Ci rivestimmo, uscimmo dal bagno e raggiungemmo il nostro scompartimento; nel corridoio non c’era più gente. Tutti erano andati a dormire. Solo noi vegliavamo, guardando dal finestrino le luci di poche stelle. Quella donna non parlava, taceva, forse piangeva, senza lacrime. Non so a cosa o a chi stesse pensando, di certo non a me. Forse non pensava; osservava la notte profonda ed insondabile come le tortuosità del suo animo, e nella notte si smarriva. Avevamo passato insieme delle ore intensissime, lunghissime, ma come tutto era accaduto senza coscienza, repentinamente, così finiva senza spiegazioni. Assurdamente. Restammo nel più completo silenzio, odiandoci, facendoci delle smorfie puerili. Mi pentii di averla ferita. Le dissi: "Come va... stai bene?! Facciamo pace?!" Dopo un po’ mi rispose di sì. Sognammo ancora un poco, ma l’alba stava per spuntare, per dissipare i nostri castelli in aria. La nostra storia sarebbe continuata, così mi prometteva, ma doveva pensarci su, riflettere sugli eventi, per diradare ogni perplessità. Insomma, voleva del tempo per esaminare freddamente quel che era successo tra noi, e non era una cosa semplice, lo riconosco anche io, adesso. A volte il tempo sembra non passare mai, dei momenti ci appaiono un’eternità e viceversa. Ecco, quel viaggio fu una vita intera, capii cose che fino ad allora non mi erano passate per la mente nemmeno lontanamente: ero stravolto. Eppure ero contento di vivere, apprezzavo il mondo in modo.

Eravamo quasi giunti nella città in cui dovevo scendere. Le dissi "Piccola, fra poco io devo andare via... non so quando ci rivedremo, ma sono sicuro che ci terremo in contatto, perché io ti voglio ed anche tu. Adesso devi darmi l’ultima prova del tuo sentire, devi dirmi cosa vuoi fare seriamente, perché tutto dipende da te; io da parte mia farò tutto il possibile, o meglio, l’impossibile per noi, ma devo avere la certezza che tu sei mia. Sei ad un bivio e devi scegliere, se continuare per la tua strada, nella tua vita di sempre, che io sconosco o quasi, o se seguire me: anche se non so quando staremo finalmente e per sempre insieme. Pensaci velocemente e rapidamente dammi una risposta. I nostri momenti più belli non possono essere cancellati con una semplice separazione". Il viso mi si riempì di lacrime. Lei mi sorrise, mi fece una carezza sulla gota destra e mi rispose: "Joe, io voglio stare per sempre con te, non ti abbandonerò. Farò tutto ciò che tu vorrai, tutto, proprio tutto. Ho già scelto, ma ho solo bisogno di tempo; sai, non è facile mollare e tagliare immediatamente col mio passato, che è ancora un presente pauroso e difficile. Devi capirmi, ti chiedo solo questo! Non forzarmi la mano, non tirare troppo questo filo, perché si può rompere. Lo sai che ti voglio bene, che voglio stare per sempre con te, ma se tu mi imponi di sconquassare il mio presente, mi distruggerai e così terminerai la nostra storia. Abbi solo un po’ di pazienza ed aspettami, poiché io verrò da te". La baciai per l’ultima volta, piangendo ancora, credendo che da quel momento nessun impedimento ci avrebbe danneggiato. E mi ritornano in mente ancora quelle sue parole.

A distanza di anni mi accorgo di come le sue promesse, i suoi giuramenti siano stati fatti in sogno; tuttavia ammetto che fu un’esperienza traviante, ma bella, che mai si ripeterà per mia volontà, perché non voglio più soffrire come nei giorni dopo il nostro distacco. E se esiste la possibilità di riprovare le stesse emozioni, l’allontanerò. Continuerò a vedere nella donna solo il piacere, ne cercherò il corpo come un animale, ma non andrò oltre; non vorrò provare sentimenti in cui tuffarmi alla cieca.. Preferisco vivere senza affanni soffocanti, lontano da pericoli troppo profondi ed imprevedibili. O forse un giorno incontrerò un’altra donna che mi farà impazzire e sbaglierò ancora, e già so che ci cascherò di nuovo.

Arrivai nella stazione in cui dovevo scendere. Presi i bagagli, li deposi fuori dallo scompartimento. Quando le chiesi il suo indirizzo ed il numero di telefono, me li diede, però, per il momento, avrei potuto intrattenermi con lei solo amichevolmente. Non era più quella che si era rivelata la notte passata... Era meglio troncare tutto o lasciare sistemare al tempo i nostri futuri rapporti?! Quello che avevamo passato insieme, era stato bello anche per lei, ma ora doveva estromettermi e dedicarsi ad una persona che per me aveva tradito, e ferito nell’animo ferocemente. Io non capii e rimasi a sentire come un ebete. Perché mi aveva mentito fino all’ultimo istante, perché aveva promesso cose che immediatamente si dovevano rivelare false; chi era veramente?! Scendemmo, percorremmo una decina di metri, in silenzio, distanti, soli, come esseri indifferenti. Lei guardò avanti, cercando con lo sguardo qualcuno. Poi, rivolgendosi a me disse: "Joe, mi dispiace, è stato bello... ma tra noi adesso tutto è finito!" Un uomo l’abbracciò, si baciarono. Prese la valigia di pelle della piccola e s’allontanarono. Li seguii con lo sguardo, come uno stupido. Lei si volse indietro, mi guardò, sorrise e mi schiacciò l’occhio. Chinai la testa e me ne andai…come una pecora - grazie per avermi trasformato, non sono più così.

 

Ripresi gli studi classici, che avevo interrotto per qualche tempo (?). Mio padre mi fece frequentare da esterno la scuola del seminario vescovile della città capoluogo di provincia che avrebbe dovuto ospitarmi per due lunghi anni.

In quell’istituto aveva insegnato un fratello di mia nonna, un prete, lo zio Salvatore, chiamato da me appunto "lo zio prete". In portineria papà mi salutò, poi fui accompagnato dal rettore del seminario. Padre Norma era speciale, un vecchio dalla barba bianca, senza capelli, dalla voce cavernosa. Si occupava del convento da più di trent’anni. Mi invitò con una calma serafica ad entrare nel suo ufficio. Mi fece accomodare su una sedia con i braccioli. Poi mi fece questo discorso: "Joe, tu starai in questo luogo per due anni. Con me mangerai, studierai, dormirai, defecherai. Io sarò la tua vita. Per due anni non ti farò uscire, e resterai a mia disposizione completa. Prima di divenire sacerdote, credevo in Dio; ma attraverso lo studio dei testi sacri, attraverso il tempo ho capito che quel Dio non esiste. Il vostro Dio è ciò che un essere inferiore chiama il Nulla. Nel corso della mia vita ho visto troppe nefandezze, troppe atrocità. Uomini patire la fame, altri uccidersi per avidità. E come può un qualsiasi Dio permettere le aggressioni brutali a danno di un intero popolo, di una società, di un singolo individuo?! No, non può esistere Dio, quell’entità che dovrebbe prendersi cura degli innocenti, rinsavire i pazzi, capire i cattivi, perdonare gli errori, guarire i morti. La verità è che non esiste verità alcuna, né del divino né dell’umano, non esista la verità assoluta. Ciascuno di noi è Dio, Destino, Morte e Creatore degli altri. Se io in questo momento decido di ucciderti, divengo la tua morte, se decido di riversare il mio affetto in quel corpo, contenitore della tua vita, divengo il tuo protettore. Ciascuno di noi agisce, perché altri agiscono per noi. Ogni uomo è legato con una corda al collo di un altro, a tutti gli altri. Proprio in questo attimo, mentre io ti parlo, l’alito delle mie parole smuove degli atomi e questi degli altri, causando una reazione a catena lunga infinitamente, che diverrà una tromba d’aria in America, vento favorevole per le vele dei pescatori delle Indie, energia che spinge un gattino dal corpo della madre verso la vita. Ma per te non è altro che il fiato, il fetore di un vecchio pazzo. No, non esiste quel Dio. Iddio sono io! E come tale devo essere venerato ed ubbidito dalle mie creature ossequiose. Essendo Esso, ho ogni potere sui tuoi compagni; e ciecamente tu, anche tu sei mio! Non riceverai visite da parte di nessuno, non scriverai a nessuno. Anzi, voglio essere sconvolgentemente buono. Ti do il permesso di avere corrispondenze epistolari. L’unico destinatario delle tue missive sarò io. Scriverai a me, usando la dicitura Deus. Non avrai spiegazioni di alcun tipo sugli ordini impartiti. Prima di coricarti dovrai recitare la preghiera della buona notte, che è questa: "Non esiste al mondo altra divinità, fuorché quella che mi protegge e mi conduce in queste tenebre diurne, Deus, assistimi!" Adesso sai già abbastanza. I tuoi compagni ti istruiranno. Puoi uscire." Per tutta la durata del discorso non riuscii a capire niente. Avevo a che fare di sicuro con un folle. Un pugno mi colpì sul naso. Qualche ora dopo mi ritrovai in infermeria. Un compagno mi aveva colpito perché avevo, già, disubbidito agli ordini del Deus. Ma in cosa consisteva questa insubordinazione? Non l’ho mai saputo.

L’infermeria era situata al terzo piano del palazzo. Dalle finestre si osservava uno splendido giardino, pieno di alberi di ogni tipo. Tra l’edificio ed il muro esterno ci stava il cortile. Alcuni ragazzi vi passeggiavano, altri giocavano a rincorrersi, altri ancora facevano il giro del piazzale in ginocchio. Probabilmente pagavano per qualche marachella. Il prete infermiere era straniero, forse tedesco, forse svizzero, giacché non riuscii a capire una sola parola di quelle che diceva. Fui dimesso. Uscendo dall’infermeria, scesi giù per le scale all’interno della Torre che portava abbasso. Nessuna finestra, nessuna luce illuminavano il mio percorso (forse adesso…sì, ma è durata un attimo). Tutto era oscuramente invisibile. Camminavo già da mezz’ora, ma non arrivavo mai. Continuavo a scendere all’infinito. Avevo persino perso cognizione del tempo, perché vagavo, vagavo finché non inciampai in qualcosa che mi intralciò il cammino. Mi chinai, tastai e nello stesso tempo odorai. La puzza era insopportabile. Proseguii, fin quando un muro non mi fermò. La Torre non aveva via d’uscita (per Pattyangel era un labirinto, quello del suo angelo cieco). Tastando tra le pietre, alla ricerca di un qualsiasi congegno magari costruito per l’apertura di una possibile porta, trovai un tubo. Da lì gocciolava dell’acqua. Avevo sete. Bevvi. Era buona. Un piccola apertura mi permise di inserirvi una mano, un braccio. Qualcosa di carnoso, una specie di budello rigido, venne afferrato nella mia ricerca. Allentai la presa e strinsi, ma non capii. Il tatto non mi rivelava niente. Sconfitto dall’inutile esplorazione, dal non trovare un passaggio, risalii.

Il sole brillava come non mai, ed il campo di grano splendeva immensamente. Anna era sdraiata al mio fianco, gli occhi chiusi, i capelli sparsi sul suo petto. Ripensai a quel sogno che un anno fa mi aveva sprofondato per alcuni giorni nella tristezza di un animale braccato dai cani. Non fu facile riacquistare la gaiezza perduta a causa di una notte maledetta; un’intera, folle insania che ottenebra chi incatena. Ancora mi tormento per quello che avrei perduto se tutto fosse stato vero. Ma l’onirica deviazione sensoriale, mentale, è capace di modificare la realtà in tutte le dimensioni possibili. Per fortuna era stato solo un pezzo di esistenza non vissuto veramente, ma vissuto come vero. Adesso però Anna era accanto a me. Avremmo passato insieme ogni attimo, avremmo goduto felicemente i frutti di un’esistenza senza frontiere, che aveva attraversato un periodo buio, solo nel mio incubo, ma che proprio per siffatta causa aveva acquistato nuova forza, trionfando finalmente nella giusta meta (altari, abiti bianchi, fotografi, e gente che ti butta il riso… per fortuna era un incubo).

Il fiume Gallo Aureo scorreva silenzioso ai nostri piedi, e gli uccellini volavano a stormi per i cieli, all’intorno. Da ogni parte il mondo mostrava l’allegra natura ridente, in quel vallone silente e immerso nel sole della mia campagna siciliana.

Non so perché, ma qualcosa di strangolante mi annebbiò la vista. Persi i sensi.

Padre Norma mi aveva trovato svenuto nella Torre. Sì, stavo ancora vivendo quel sogno! Mi ero davvero sbagliato, ed ora mi trovavo in pieno sbigottimento, senza possibilità di sfuggire ad altre complicazioni labirintiche della mia fantasia, di quel mio passato fittizio, di questo presente disperato, che non mi davano tregua.

 

Francesco, Ludovico e Piervito mi accompagnarono in camerata. Il mio posto letto era nella terza fila della colonna degli eroi. I miei compagni erano vestiti di verde, come se indossassero una tuta mimetica, da combattimento, di quelle che si usano nell’esercito. Feci una domanda ad uno di loro. Mi rispose: "Ma come, Joe, sei qua, con noi, In accademia! Il colpo alla testa che hai ricevuto cadendo giù per le scale, ti ha rincoglionito?" "Ma che cazzo succede, dov’è padre Norma? E chi siete voi, io non vi conosco." Mi rispose Ludovico "Joe, ma sei sicuro di star bene, o ci prendi per il culo?" Non sapevo cosa rispondere, cosa pensare. Forse stavo rivivendo, in quei sogni, tutte le vite possibili che avevo vissuto, o che avrei potuto vivere. Ogni possibile combinazione, ogni biforcazione, ogni diramazione della mia esistenza (o di quella di altri), io l’avrei imboccata. La sovrapposizione delle altre vite, che si intersecano a nostra insaputa, si ficcava nella mia consapevolezza… O forse stavo ancora sognando?!

La Scuola era stata fondata circa duecento anni addietro – se v’interessa, nel 1787. Illustri combattenti vi erano stati formati e addestrati. Eroi ed uomini comuni che avevano reso splendida la patria coi loro meriti. Per entrare a far parte della Scuola, bisognava sostenere degli esami di cultura generale, delle prove psicoattitudinali, dei saggi ginnici.

Arrivai in città con mio padre alla fine di settembre. L’ardente sole del meridione rendeva la città ancora calda ed addirittura soffocante. Il mare era cosparso a perdita d’occhio da battelli e natanti. Bagnanti si divertivano a giocare tra le onde, ragazzini correvano sulla spiaggia. Bambine si strappavano i capelli. Donne ed uomini prendevano il sole, e il sole prendeva loro. Io li osservavo dall’unica finestra della pensione in cui alloggiavo.

Di primo mattino, era lunedì, ci recammo in Via Generale Parisi. Davanti al portone della scuola stavano già altri figli ed altri padri. Tutti i ragazzi dovevano sostenere come me degli esami, che si distribuivano in tre giorni.

Mi ero preparato per circa tre mesi, studiando e ristudiando tutti i testi sui quali sarei stato interrogato. Alle ore nove i militari fecero entrare solo noi aspiranti allievi, mentre i genitori furono fatti accomodare nel parlatorio. Ovunque c’erano cannoni d’altri tempi, obici, alabarde, spade, sciabole, medaglioni e trofei e coppe che adornavano delle teche. Mitragliatrici e fucili moderni stavano in armeria, dove era custodito anche tutto l’altro materiale bellico moderno. Molte le divise indossate da manichini, che testimoniavano l’evoluzione dell’abbigliamento da libera uscita, da combattimento, da tempo di pace, da occasioni particolari che nel corso dei duecento anni di vita della Scuola, aveva caratterizzato essa e l’esercito sotto i vari regni, regimi, forme diverse di governo. L’evoluzione: quel processo che permette ad un uomo di sopprimere, un tempo con la spada, un tempo col fucile, un tempo col totale controllo di ogni esistenza, e poi, niente più.

Superai discretamente le prove della giornata. I professori del concorso erano stati gentili nei confronti di tutti gli aspiranti. Però tanti furono scartati ugualmente. La maggior parte di coloro che avevano fatto domanda per il concorso era stata decimata alle visite mediche preliminari. Ritornai in albergo. Ero esausto ma contento. Di sera con mio padre andammo a mangiare in una locanda del quartiere. Una cameriera cogli occhi a mandorla, mi chiese: "Ma tu sei Joe, vero?" "Sì, sono io... tu come fai a conoscermi?" "Mi chiamo Osanna e sono la sorella di Ludovico, oggi vi siete conosciuti durante le prove orali. Io ero là. Ludo è qui in cucina che sta studiando, ora te lo chiamo subito." Questi venne da noi; lo presentai a mio padre, poi si sedette al nostro tavolo e mangiammo insieme. Da quel giorno diventammo amici. Dopo cena ritornammo nella pensione. Ma non trovammo più l’edificio. La fogna sottostante aveva ingoiato ogni mattone di quella costruzione. La padrona e i suoi ospiti giacevano ormai tra la melma e i ratti, come i miei vestiti. Passammo la notte nella galleria parallela alla cavità che aveva inghiottito la casa. Da lì i pompieri scavavano per recuperare i morti e i nostri indumenti. Martedì sostenni altri esami. Passai anche quelli. Finalmente arrivò il terzo ed ultimo giorno, quello decisivo. Fui ammesso in accademia con un punteggio abbastanza alto. Fra tanti aspiranti, mi ero classificato ventunesimo nel mio corso.

Forse non ho provato, durante la mia giovane vita, gioia più grande, di quando lessi il mio nome fra i vincitori. Mio padre era contentissimo (il suo superometto di quindici anni, la sua creatura extraordinaria… Ero perfetto). Tornammo al paese. Presto la notizia fu di dominio pubblico. Tutti i miei conoscenti, gli amici, i parenti si congratularono con me. Ero felice. Non vedevo l’ora di rimettermi in viaggio, di entrare a far parte, gloriosamente, della Scuola. Stetti in ansia sino al giorno della mia partenza definitiva.

Il commiato dagli amici fu molto sofferto. Al porto mi accompagnarono mia madre, mia sorella e i parenti più stretti. Non mio padre, che in quel periodo si trovava in Romania. Alle otto di sera la motonave partiva; mi imbarcai. Dal ponte guardavo le piccole figure che aspettavano sul molo. Pian piano, salpammo. Salutai per l’ultima volta i parenti. Lacrime bagnarono ancora il mio viso di fanciullo. Mio cugino Franco, un ragazzo morto a ventisei anni, qualche mese dopo che ero entrato in quella Scuola, si prese cura di me per tutto il viaggio, sino all’arrivo a Napoli, dove sbarcammo con la sua sempre viva Fiat 500 arancione. Capii cos’è la morte quando appresi della sua prematura scomparsa. Lui era un ragazzo buono e tranquillo e non pensavo potesse morire. Per me allora morivano solo i cattivi (avevo quindici anni… adesso invece penso che prima muoiano i buoni!). In quel punto cominciò a vacillare il mio credere qualcosa giusto o ingiusto, bene o male. Lì capii che ciò che accadeva era sottratto alla bontà, o agli uomini. Morì la mia fanciullezza.

L’indomani, alle ore sei e trentasette la nave entrava in porto. Ero arrivato. Andammo in direzione della Scuola. Al portone d’ingresso, Franco mi lasciò e se ne andò. Lo rividi dopo un mese, per l’ultima volta, quando mi portò gli ultimi dolci che mangiai con Ludovico. Attraversai il cancello che dopo il portone centrale apriva la via all’interno. Un ragazzo di circa diciotto anni mi condusse nella mia camerata. Mi diede del "lei" ordinandomi di stare in attesa lì. Avevamo superato il concorso in centodieci, divisi in due tronconi: settore umanistico e settore scientifico. La sveglia era alle sei e trenta, tranne la domenica, in cui ci si poteva alzare alle ore otto. Mezz’ora prima era vietato levarsi dal letto anche per andare in bagno. Ed in ogni caso non ci si poteva preparare prima dello squillo della tromba. La giornata era così suddivisa: ore sette studio obbligatorio in classe; ore otto adunata in piazza d’armi per l’alzabandiera. Alle otto e cinque c’era la colazione, alle otto e quindici l’inizio delle lezioni, che duravano per tutto il mattino sino alle ore tredici. Alle tredici e cinque il pranzo, sino alle tredici e quarantacinque. Poi c’era l’addestramento particolare, ma alle ore sedici e quarantacinque si ritornava in aula a studiare. Alle diciannove e quarantacinque c’era l’ammainabandiera in cortile, poi sino alle ore venti e venticinque la cena. Dopo cena ci si poteva recare in sala-convegno, oppure in aula, per lo studio libero. In quello obbligatorio si dovevano studiare i testi scolastici; in quello libero si poteva leggere dell’altro; o scrivere lettere, ecc. Insieme con i miei camerati o compagni di corso, fui sottoposto all’apprendimento della disciplina. Imparai a marciare, sparare, ubbidire.

La Scuola divideva i cadetti per anzianità: quelli che frequentavano il primo anno (cioè le reclute), quelli del secondo anno, e quelli del terzo, cioè gli "Anziani." Il rapporto che si instaurò fra noi del primo corso e quelli del secondo fu pessimo, però dovevamo rispettarli in quanto più anziani di noi. Il comandante di squadra era chiamato "istruttore" (la squadra costituiva l’unione di circa dieci, undici persone) e di solito era un allievo del secondo o terzo anno; lo "scelto" comandava il plotone, formato da tre o quattro squadre, ed era unicamente del terzo anno; la compagnia era comandata da un "caposcelto" del terzo anno. Ciascun caposcelto, tre in tutto, eseguiva gli ordini del caposcelto di battaglione, formato da tre sole compagnie: la Prima, la Seconda e la Terza, ciascuna corrispondente inversamente al grado di anzianità. I militari del terzo anno erano i nostri veri padroni; ogni volta che ci si rivolgeva a ciascuno di questi, bisognava specificarne: il nome, il cognome, premettendo: "Lei è il Divinissimo Anziano Maturando, allievo..." E posponendo: "Del Gloriosissimo nonché Carismatico", poi seguiva l’anno di studi e la sezione del Corso. Schiaffarsi sull’attenti e dire: "Comandi", come avviene del resto nell’esercito. Ciascuno di loro poteva fare della nostra persona quel che gli passava per la testa, naturalmente nei limiti del legale, ed a volte dell’illegale. L’assoluto rispetto dovuto era parte integrante del trattamento inumano, cui la nostra domata volontà era sottoposta. In sala convegno ci si plasmava alla resistenza passiva, creandoci automi pronti ad eseguire gli ordini ciecamente. Naturalmente, gli ufficiali addetti alla nostra formazione generale, fingevano di non sapere niente di tutto ciò che avveniva di nascosto. Questi, d’altronde, si servivano dei cadetti più anziani per impartire ordini e disposizioni legali, ragion per cui il "Cappellonaggio" era dichiarato od occultato come inesistente, o, in ogni caso, ridimensionato. Il "Cappellonaggio" era la preparazione occulta, la dipendenza gerarchica, la forza di corpo, il rispetto delle regole esoteriche, dettati e messi in atto tra Anziani ed allievi del primo anno. Infrangere queste regole significava essere considerati indegni, spie del sistema militare legale. La spia veniva isolata da tutti, soprattutto dai compagni di corso, considerata vile, costretta ad abbandonare la Scuola. Gli anziani la ritenevano persona "non esistente", maltrattata e sottoposta a soprusi regolamentari dagli istruttori e dagli scelti, capi effettivi e leciti del militare della squadra o del plotone, o della compagnia in questione. La sua vita: un inferno nell’inferno. La soluzione: chiedere il nullaosta per abbandonare con tutto il disonore la scuola. Resistere significava vincere. Vincere, significava essere veri uomini. Dopo alcuni mesi di frequenza, resistenze fisiche e mentali, torture, acquistai in quel regime, duro ed esasperato, una vigoria mai avuta prima. Una sera, mentre stavo sistemando i miei capi d’abbigliamento nell’armadietto, secondo uno stereotipo affisso in bacheca, un anziano venne e mi disfece i capi piegati, per pura spavalderia. Io gli dissi: "Ma in questo modo mi mette in difficoltà col tenente che passerà per il contrappello. Vedendo i vestiti non piegati perfettamente (per la qual cosa impiegai un’ora), mi punirà ed io non potrò andare in libera uscita." Quello mi rispose: "Lei è un coglione! Si schiaffi sull’attenti quando parla con me, alzi la testa, divarichi le punte dei piedi, tenda le braccia." Strillava come un esasperato; poi mi ordinò la "corsa sul posto." Obbedii per circa mezz’ora, poi stanco dissi di non farcela più e mi fermai. Non l’avessi mai fatto… dovevo essere pronto a quei trattamenti che erano normali a tutte le ore del giorno. La mia ribellione fu considerata grave. Due anziani mi si avvicinarono. Uno di loro mi pose una domanda: "Lei vuol fare l’eroe o il comunista forse?" "No", risposi io, "Però trovo ingiuste tutte queste assurdità." Quello che mi aveva disfatto l’armadietto gridò: "Io le spacco il culo terrone." Gli risposi: "Lei mi provoca solo un’eiaculazione." Pugni mi colpirono da tutte le parti, fui calpestato come un verme. Alla fine mi ruppero la testa contro l’armadietto. Ecco, adesso ricordavo, i miei compagni avevano giustificato le ferite alla testa ed al corpo, dicendo che ero caduto per le scale. Avevo passato quei due giorni all’infermeria. Appena tutto mi fu chiaro, ritornai a condurre la vita di sempre. Marce, adunate, lezioni, regolamenti di disciplina militare, ecc. Durante lo studio, Massimo, di nascosto, mi disse di andare in cappella perché lì mi aspettava un compagno. Con una scusa dovevo uscire. Chiesi al professore di potermi recare in bagno, perché avevo mal di pancia. Acconsentì. Uscii, mi recai verso la cappella.

 

Padre Norma, che si trovava nel corridoio volle sapere dove stessi andando. Gli risposi "in cappella" per pregare Dio, cioè lui, di aiutarmi, di intercedere per un’interrogazione. La costruzione sacra non era che una sala qualsiasi all’interno del seminario, con tanti bei dipinti ed alcune statue. Due file di panche erano sistemate in perfetto allineamento coi muri. Nella parte centrale dell’altare la croce con una scultura riproducente padre Norma, si stagliava imponente. La porta della sacrestia si aprì ed io entrai. Si richiuse, ed una mano, nell’oscurità, prese la mia. La sua aveva delle dita sottili, le unghie lunghe e curate, una pelle liscia, come una donna. Gli chiesi: "Chi sei?" La persona non mi rispose, ma mi accarezzò la guancia sinistra, poi la fronte. Alla fine ci baciammo e continuammo per un po’. Però, era bello, od almeno mi piaceva. Placato nei miei istinti di pulsione sessuale, ritornai in classe. Prima di rientrare mi accorsi che Teresa usciva dalla cappella, si imbatteva in padre Norma, e veniva aspramente rimproverata. Lei non aveva il permesso di entrare in chiesa, come tutti d’altronde, senza l’autorizzazione del professore. Quella sera ricevette dieci frustate in più. Alle ventidue, prima di ritornare nelle nostre cellette, passammo dal frustatoio, una camera che si trovava negli scantinati. Ci svestimmo, ed ad uno ad uno ci facemmo frustare. Dopo quella punizione, andammo nelle nostre camerette. Il corridoio del quarto piano, che portava alle scale per accedere al quinto, era illuminato da candele poste in dei candelabri di ferro battuto, ciascuno a dieci metri dall’altro. Salita la scaletta, fummo a destinazione. Teresa dormiva nella cameretta attigua alla mia, cioè a destra della finestra centrale. Ogni notte, io l’andavo a trovare e parlavamo del mondo libero, della morte, di musica. Lei aveva avuto una storia con un ragazzo del suo quartiere. Lo amava. Si chiamava Eugenio. Il loro sentimento era nato molto tempo fa, quando erano ancora bambini. Giocavano, stavano insieme tutto il giorno; come compagni di scuola frequentavano lo stesso istituto. Insomma, erano in piena sintonia; differentemente da quanto avveniva tra i loro padri, che si disprezzavano ipocritamente. Da giovinetti, quando i sentimenti evidenti fra i due giovani stavano per causare qualcosa di irreparabile, la famiglia di Teresa decise di prendere una decisione sul da farsi immediato. Ma l’animo della piccola era oramai tutto votato alla persona del suo amante. La vita e la morte erano per i due la medesima cosa. Niente infatti li avrebbe separati. Solo una formazione particolarmente dura avrebbe potuto modificare il carattere ed i sentimenti della dolce ed influenzabile ragazza, e il tempo avrebbe avuto senz’altro un effetto di lontananza e dimenticanza sull’indole. Arrivò in seminario due giorni dopo di me. Era molto fragile, timida ed indifesa. Padre Norma la trattò fin dal primo colloquio con estrema crudeltà. Il vecchio infatti non aveva pietà per nessuno. Era di pietra, insensibile e apatico, preso solo dal culto della sua persona, della sua fantomatica divinità. Povera Teresa, non sarebbe sicuramente sopravvissuta ai tormenti fisici e psicologici di quell’infame sistema schiavizzante; per cui, solo la solidarietà, l’amicizia di noi confratelli riuscì a sostenerla nel suo cammino ignobile. Inoltre il nostro rapporto fraterno, che divampò ben presto in qualcosa d’altro, valse a darle un coraggio inaspettato. Dimenticò persino il suo vecchio amico, al quale però fece pervenire di nascosto l’ultima lettera, l’ultimo segno di ciò che era esistito fra di loro. Epilogo amaro per una storia che avrebbe avuto un altro esito, se le tristi vicende dei rapporti interpersonali non subissero ogni giorno, e sempre costantemente, delle contrapposizioni e delle ingerenze dettate dalla morale, dall’interesse, e da ogni egoistica sopraffazione. Io ebbi la possibilità di leggere questa lettera. "Caro Eugenio, ti sto scrivendo dopo lunghi mesi, lunghi tormenti indescrivibili. Di tutto ciò che mi è accaduto, non ti farò alcuna menzione, anche perché ti sembrerebbe falso e inattendibile. Se solo ti parlassi chiaramente, senza nasconderti nulla, se solo ti dicessi delle punizioni sarei presa per pazza, mentre è la pura e semplice realtà. E, credimi, in questo caso la Verità non è molteplice, non è soggettiva, perché la punizione è tale, anche se per me è vissuta come sofferenza e per altri come piacere. Si tratta sempre di un’imposizione! La mia famiglia ha ritenuto che il nostro sentire degenere, e tu sai di cosa parlo, non sarebbe stato compreso. Questa gente dedita unicamente alle apparenze è proprio incapace di valutare il non ordinario. Lo straordinario. Forse è stato un bene, forse no. Di sicuro, ho la sensazione che saremmo finiti male. Qualcuno da qualche parte avrebbe scoperto qualcosa e ci avrebbero ammazzati. Inoltre qui, dove tutto è possibile nelle eterne notti, nelle oscure segrete, nelle silenziose stanze, ho la facoltà di vivere immensamente, per sempre protetta dalla comunanza di idee ed affetti che ciascuno di noi nutre per il proprio compagno. La vita ristretta crea dei sentimenti che anche tu, anche tu che sei stato mio non riusciresti pienamente a condividere, se non di presenza. L’amore è un dono del destino. Un giorno forse ci incontreremo, forse no. Sicuramente so che la vita senza di te è bella ugualmente, è la mia vita, ed è incantevole anche qui, che è il luogo più lurido di questa terra. Fra noi poveri amici regna la complicità, e ciò mi basta e mi ripaga di tutte le pene lunghe in cui quasi soccombo. Joe è il ragazzo che mi sta accanto, che mi aiuta, e del quale mi sono innamorata. Sì, adesso penso di dedicare ogni attimo, ogni memoria, ogni pensiero, alla straziante e piacevole sensazione che questa creatura provoca in me. Sarò per sempre sua e mai l’abbandonerò, dovessi immolarmi per lei, dovessi uccidere per lei, dovessi sopprimermi per lei. La adoro pazzescamente e non so staccarmi da questa gioia immensa neanche per un solo attimo. La morte, cos’è la morte, al pensiero di essere vissuta veramente, di avere amato, di essere stata una delle poche conoscitrici di un mondo così diverso da quello che mi ospitava un tempo?! Sai, c’è stata un’epoca in cui il mio attaccamento alla vita è stato grande. Adesso però si è accresciuto, perché vivo soprattutto per il mio amante. La notte, e il giorno, parliamo per ore ed ore, sogniamo, pensiamo insieme, guardiamo la luna che illumina il nostro mondo solitario e invisibile agli altri. Quelli che conoscono, conoscono solo ciò che gli è concesso conoscere.

A volte andiamo sui tetti, e nel freddo dell’inverno ci spogliamo e ci riscaldiamo, stretti come due animali in simbiosi. Ed il cielo, luccicante di stelle, o nero come il dolore, avvolge il nostro amplesso, nascondendoci da losche presenze che si aggirano silenziose, spiandoci, imitandoci. Non riceverai più da me alcuno scritto, e questa considerala una lettera d’addio. D’altra parte, sarebbe impensabile un nostro futuro rapporto. Io, appartengo adesso ad un altro! Ti ho amato, sei stato il fedele compagno della mia fanciullezza e della mia prima giovinezza. Ma circostanze imprevedibili e ineluttabili hanno modificato le mie scelte iniziali, distogliendomi da tutte le esperienze passate, slegandomi da tutte le corde che mi tenevano legata ai ricordi. Un giorno capirai... forse non ce ne sarà bisogno. Però sappi che, vuoi che io sia ancora nel tuo cuore, vuoi che non vi sia più, io ti ho amato! Perdonami! Vivi la tua vita, come io vivo la mia. Ciascuno appartiene a chi ama. Addio, Teresa."

Eugène non ricevette mai la sua lettera. Era partito due mesi dopo l’allontanamento di Teresa dal paese. Dove scappò, nessuno lo sa. D’altronde la famiglia lo cercò invano lontano. Poi chi avrebbe dovuto interessarsene?! Teresa lo ha lasciato, e gli amici abbandonano sempre dopo qualche tempo dal lutto o dalle ultime separazioni. Siamo soli, e lo sappiamo. Fingiamo di non essere tali, perché, il giorno in cui ci abbandonassimo a quel destino che attimo dopo attimo ci accompagna da soli alla morte, prenderemmo coscienza che la vita è una pura illusione del presente. E c’impiccheremmo.

Morti i veri cari (ma il grande amore esiste!), tutti gli altri sono portati via dalle disgrazie e dalla morte. Chi penserà a noi? Un ospizio che ci rimbambisce, un parente che ci sopporta, un amico che ha ipocrisizzato per tanto tempo, uno Stato che ci mantiene miseramente?

Io che ora so d’essere vivo e amato, so che ora sono inesistente. Guardo una porta davanti a me. E’ chiusa la stanza. Al di dentro io esisto perché io mi vedo. Al di fuori non sono, perché nessuno mi vede.

 

Finita la scuola, nei primi giorni di giugno mi recavo ogni mattina da lei. Insieme stavamo tantissimo. Se io, adesso, volessi fare un’analisi delle nostre discussioni e dei suoi ammaestramenti - era più grande di me di ventiquattro mesi anagrafici, quindi l’aria e la disinvoltura affettate di una donna nei riguardi di uno più giovane - non saprei cosa risolvevano veramente, anche se mi davano una certa sicurezza davanti alla mia inesperienza. I miei dubbi erano a lei confessati e da lei risolti senza un mutamento della sostanza.

La semplice ammissione di un fatto, di un comportamento, di una confidenza, bastava a muovere delle connessioni di accadimenti che conosceva, ma che solo ora ricostruiva in un contesto più chiaro. Lei così capiva e sorrideva. Sebbene i suoi denti e la sua bocca non fossero modellati come avremmo desiderato, a me mostrava ugualmente quell’apertura ad altri non concessa. Pochi potevano affermare di averla vista socchiudere le labbra, se non quel tanto che bastava alla voce per uscire. Io ben presto vidi anche dell’altro.

Dall’abbaino della mia mansarda, in certe ore pomeridiane da noi concordate, salivo sul tetto rosso di casa e mi mettevo in una posizione favorevole, stando attento a non scivolare nella terrazza che si allargava sotto. Con un vecchio binocolo rumeno, di ottone o rame, recuperato da mio padre in chissà quale circostanza da quella terra remota (ero bambino) durante uno dei suoi tanti viaggi, iniziavo a perlustrare il cielo poi le case all’intorno. Quindi dirigevo l’attrezzo in direzione della villa di Brina, che a circa duecento metri s’innalzava su uno spiazzo a metà tra uno più alto e uno più basso. Dalla strada maestra del paese si vedeva questa costruzione che, circondata da un recinto in muratura, costringeva un passante non distratto a guardarla. E la sua riflessione: "Chissà quanto sarà costata?!" Appena lei si accorgeva di me, posava il suo binocolo sulla scrivania della stanza, che era visibile anche a occhio nudo dal punto in cui stavo, apriva la porta del balcone e socchiudeva la persiana sinistra, spegneva ogni luce, girava la chiave nella toppa della serratura della porta interna della camera, e creava quel giusto spiraglio adatto solo alla visibilità di un cannocchiale. Il mio. Allora si scioglieva i capelli neri dietro la schiena e iniziava a liberarsi dei tre bottoni della solita camicetta color di fragola, indossata come rituale del nostro rituale pomeridiano. Di quei bottoni un giorno ne strappai uno, affinché l’amica fosse più veloce nel togliersela. La buttava a terra, si toglieva le calze e a piedi nudi vi ri-posava. Adesso era il turno dei pantaloni che toglieva flettendo il busto in avanti, abbassandoli. Si piegava, si sedeva e nuda restava sulla camicia di fragola. I miei occhi sebbene stanchi e grondanti di sudore resistevano a fatica a quella figura che si muoveva lentamente, che si girava e ondulava. Brina iniziava una danza scolpita in ogni sequenza da un movimento impercettibile, così che non mi accorgevo del passaggio da una figura alla successiva. Il mattino seguente ero di nuovo da lei. Approfittavamo dell’assenza dei suoi, che andavano a lavorare, per vivere delle ore agognate, diversamente da come nella conoscenza dei familiari erano credute. Poteva esistere un’amicizia tra due giovani che hanno bisogno di altro che di casti scambi di intimità orali? Potevano due vite avide di sapori appagarsi solo dell’odore che si sente nella primavera che è la giovinezza, quando tutte le fragranze sembrano appartenere ad un unico fiore? Fu lei a portarmi nel limite fertile del non candore. Quando una passeggiata in bicicletta si trasformò in escursione, ebbi la certezza che lei era più di una semplice cugina. Non eravamo parenti, ma per vezzo affettivo ci chiamavamo "cugini". La camminata era circoscritta e si svolse per più di mezz’ora attorno alla villa tra i muri della casa e quelli della cinta. Brina mi fece sedere sul sellino mentre lei si adagiava sul metallo che taglia orizzontalmente in due la parte centrale della bici. Raggiunto un equilibrio, lei pedalò. Le sue gambe sprigionavano una forza magnifica, mentre la parte bassa della sua schiena si spingeva contro di me, alternando una pressione profonda ad una separazione placida. Il giro c’inebetì. Lei non parlava, procedeva meccanicamente, coi capelli che le coprivano gli occhi e il busto proteso in avanti, seguendo come pista non lo spazio di fronte o il selciato, ma i solchi che dividevano una pietra dall’altra. Di colpo si fermò. Scendemmo, mi fece una carezza sul viso, mi prese un dito e mi accompagnò in casa. Lei davanti ed io dietro salimmo le scale fino al suo studio. Lì si sfogò, poi pianse. Chissà perché, forse per la sfinitezza che procura un nuovo piacere che si è ricercato senza raggiungerlo per tanto tempo, forse per l’appagamento soggettivo che si diversifica da ogni altro.

Facemmo un bagno. Io ero sudato e lei tutta appiccicosa. Ci adagiammo nella vasca prima di riempirla d’acqua calda. Il mio viso era a circa un metro dal suo. Troppo. Ci avvicinammo.

Il vapore che saliva annebbiò la stanza e i nostri sensi. Ci svegliammo quando un movimento inconsulto di una delle nostre mani fece cadere un contenitore di vetro da una mensola vicina. Era tardi. Ci asciugammo.

Un giorno le annunziai l’intenzione di partire. Per diversi anni ci saremmo rivisti solo allo scadere di un certo periodo. Non capì. Le donne non capiscono mai, o forse capiscono troppo prima. ‘Ste stronze!

Come spiegarle questo desiderio, questo sentire la mancanza degli astri o questa sfavorevolezza del quotidiano? Non siamo senza futuro quando la ripetizione di gesti programmati momento dopo momento, ricalca un passato che è vissuto come futuro, un futuro come passato e un presente che non lo è? Dove le prospettive per chi vuole sganciarsi da un contesto che sente come insoddisfacente, per cui deve seguire una pista non suscettibile di essere mutevole se non nel già prestabilito dalla comunità che sostenta ma che rende vane le speranze soggettive di essere altro; da quello percepito da punte massime e minime di uno schema?

Ci si illude di cambiare vita, accettazione, ci si illude di trasformare la percezione che una società ha di noi, quando da un paese ci stabiliamo in un altro. Ma non troviamo che lo stesso recinto ad accoglierci, forse con atteggiamenti peculiari, ma con stereotipi chiusi.

Siamo noi individui singoli a dover cambiare noi stessi?! Non possiamo attenderci che sia la comunità che ci accoglie che sia diversa o che ci diversifichi dall’alto.

Mio padre, che apparteneva al genere immutabile di chi nascendo mette le radici usuali – lui mi scrisse un giorno la quercia - nella propria circoscrizione temporale, un giorno, quando mi trovai in un altrove, mi inviò uno scritto che mai mi sarei aspettato da un albero di quel giardino: "Caro Joe, purtroppo non mi è possibile venire da te prima del giorno ***, come avrei desiderato (e forse non venne più… ma adesso posso dire che ci riuscì ugualmente, del resto era quasi un essere superiore). Di ritorno da quel viaggio ho trovato qui, naturalmente, un complesso di cose che si sono accumulate. Ho seguito l’andamento della tua richiesta, e mi meraviglia che le tue versioni differiscano sensibilmente da quelle che provengono dalle mie. Esiste o non esiste la clausola finale relativa alle mie indicazioni? E perché hai fatto contemporaneamente due interrogativi? Ad ogni modo, benché questi dinieghi giungano inattesi, cosa vuoi che ti dica? La spunteremo! Tutto si risolverà. Io, come già saprai, sono tornato visibilmente impressionato del trattamento che mi è stato riservato. Ho scoperto che, lontano da quel mondo, ambiente riservato ormai ai ricordi di una vita che avrebbe potuto essere normale, esiste un’altra realtà, in cui uno si presenta nuovo, in cui la gente non chiede nulla della tua esistenza, all’infuori di quello che sei in grado di dire sugli argomenti che proponi. Ci ritornerò poiché non desidero vivere questi tempi nel buco del paese di ***, in cui la realtà è ferma e i giudizi degli uomini sono immobili. Tuo padre."

Ecco, io mi avvedevo di una profonda novità in lui: l’illusione del nuovo, l’illusione di un nuovo contesto. Fino ad ora aveva convissuto con la volontà di essere l’artefice del proprio vivere e del proprio ambiente, ma passati mutamenti imprevedibili avevano lavorato fino a condurlo alla comprensione, o non, che è impossibile alterare il destino, che è impossibile voler andare via per essere come eravamo in passato per coloro che oggi ci vedono solo come sembriamo essere, e non come siamo. O no?!

 

La giornata in seminario trascorreva come sempre, monotona se considerata dal punto di vista della ripetitività; cruenta da quello della effettività; gaia se interpretata da quello della follia o della passione. Vita: costante passione dell’incredibilità.

Ciascuno di noi aveva un nomignolo, affibbiatoci da noi stessi, da usare di solito quando la comunicazione segreta di un qualsiasi messaggio, di una certa gravità, rendeva necessario il non intendimento ai non interessati. I preti, gli altri in genere. "Teresa" era appunto un nomignolo. Non nascondo che nel suo caso fosse vitale per tante cause particolari usare questo rimedio, per non cadere in ancora più tragici episodi di colpa, e relative punizioni.

Era notte, forse le due, le tre, le quattro, le cinque. Udii uno strillo, poi un altro. Non mi ero ancora addormentato, anzi stavo sdraiato insieme con Teresa sul suo letto. Dopo qualche secondo dal primo vociare, questa volta, udimmo in due dei gridi, forse delle grida. Qualcuno si lamentava. Gli altri confratelli erano impauriti, giacché le torture che avrebbero dovuto provocare di sicuro quei tormenti, erano ammesse soltanto di giorno. Non la notte: la notte era sacra e come tale dedicata a diversa occupazione. Stranamente però qualcuno sembrava martirizzato. Ciò poteva essere, tuttavia, solo un’impressione, una percezione elaborata in maniera errata o inesatta. Nulla infatti negava che il presunto soffrire non fosse tale, o fosse quello di una bestia. Mi feci coraggio e incitai anche la mia ragazza, anche se in me non ero davvero certo di questa sicurezza. Alla fine cercai di infondere un alito di reazione istintiva a ciò che era soprattutto incertezza anche generale sul da farsi. Comunque, mi armai della stampella di legno di un ragazzo zoppo che dormiva nella celletta attigua, e mi diressi verso la fonte di quello strazio. Il continuo soffrire proveniva dai locali dell’infermeria e lì mi recai. Nessuno volle seguirmi, rifacendosi a quel pensiero che consiglia di lasciare agli altri le sofferenze che patiscono, soprattutto se provocate da un agente esterno che non conosci e quindi non puoi fermare.

Padre Norma aveva un potere illimitato e nessuno si sarebbe permesso di causare un dolore qualsiasi se non avesse ricevuto un suo ordine esplicito, o se non fosse rientrato nelle punizioni ordinarie. Il Bene e il Male erano di completa amministrazione del "Deus." Questi, oltre ad arrogarsi assurdi poteri, si vantava anche di essere "magnanimo."

Mi addentrai sino alla Torre, dalla quale non ero quasi uscito, quando per caso mi ero spinto incautamente al suo interno.

Il lamento monotono proveniva dalla parte inferiore. Un essere vi veniva colpito senza sosta da qualche oggetto, causandone la risposta dolorosa. D’un tratto, il tutto cessò e il silenzio più tenebroso salì da lontano, fino a trasformarsi, e a divenire impercettibilmente rumore. Passi trascinati.

Trascorse qualche attimo e dalla scala giunse a me una presenza.

Impietrito, legato, stordito dalla paura incomprensibile che mi aveva portato lì, non ebbi il tempo e la forza di scappare. Ma quale non fu la sorpresa, quando, vinto dallo stupore della mia codardia, vidi Maurice porsi davanti ai miei occhi. Nudo e visibile alla luce della luna che lo penetrava dalla finestra dell’infermeria, frustato a sangue in ogni sua parte del corpo, si abbatté su di me, lordandomi interamente. Aveva ancora in mano il nerbo con cui si era punito.

Il perché di quel castigo lo appresi quando, dopo alcune settimane di cure amorose da parte del padre infermiere, seppi che un brutto voto in "Storia della natura umana", lo aveva spinto al sacrificio straordinario dell’autoflagellazione.

Padre Norma, in seguito, escogitò una punizione adatta a coloro che si fossero macchiati di autopunizione. La dolorosa lacerazione delle carni, i logorii psicologici, erano infatti un’esplicita direttiva del Deus, e come tali dovevano essere intesi. Perciò adoperati solo dietro dichiarazione diretta di colui che ne poteva ordinare l’esecuzione. La colpa per autopenitenza divenne esecrabile, e perseguita come infame. La sanzione fu ignominiosa. Consisteva nel prendere il reo di forza, bendarlo, imbavagliarlo, trasportalo nelle segrete. Lì veniva "trattato", per due ore al giorno, per due settimane, nel modo previsto dalla pena. La Pena.

 

L’esistenza in un’istituzione statale, militare è particolarmente strana, inusuale, ma in quella Scuola, era davvero credibile.

Chi può capire se non ha provato, se non ha patito una siffatta esperienza. Ma a quindici anni, quando un ragazzo esce dallo spazio ordinario in cui solitamente si muove, agisce, vive, essere inserito in un ambiente completamente diverso, impensabile, ma nello stesso tempo, totale, formativo, è molto difficile riuscire a individuare qual è la realtà estraniante da quella che non la è. E se c’è una realtà. Fuori e dentro.

Ecco, io mi trovai in un contesto così organizzato, così perfetto, così veritiero in ogni esposizione a suo favore, preciso nella giustezza della regolarità, così perfetto nella sua istruzione, che tuttora non riesco a fare un paragone con la vita normale di uno che ha vissuto diversamente, e la vita che vissi per anni.

E se fosse stato un lungo e ininterrotto sogno, durato appena poco tempo, ma vissuto verosimilmente come tanti anni?! Per cui, ciò che mi sembrò vero, sarebbe un sogno, e ciò che mi sembrò un sogno, sarebbe vero. Come posso ristabilire la verità? Come posso mettere ordine e chiarezza nella confusione che travolge tutti i ricordi, tutti i pensieri che affollano una mente? Non so più dove inizia la fantasia, dove la pazzia, dove il passato effettivo. E se si tratta di un passato. Anche il futuro è causa di scompiglio nella visione caleidoscopica che mescola l’intera consapevolezza. Sono un essere pensante o sono gli altri che pensano in me?! In questa incoerenza di rielaborazione, di sovraesposizione dei fatti, di tutto quello che provo, che sento, o che mi appare, nella mia tangibilità di uomo e di identità particolare, o di identità conviventi, non ho più la facoltà sincera di discernimento che caratterizza qualsiasi altra stabilità.

Ho unicamente una certezza: soffro, perché so che non sono più un io. Colui che un tempo fui o non fui, si è perso nella ricerca di sé stesso, nella volontà esasperata di conoscersi e riconoscersi. Senza sbocco. Nei pochi attimi di lucidità in cui piombo casualmente, mi consolo guardandomi in viso allo specchio. In detto momento mi esamino, mi amo, mi ritengo ancora un "io univoco", e così facendo mi ammiro. Vivendo sono un eroe. Sono sopravvissuto a me stesso!

 

Lo spirito di corpo che nel passare dei mesi si era venuto a creare tra noi del corso, divenne un qualcosa. Ci sentivamo forti, degni di tutto l’onore possibile. Ci stavamo trasformando. Il culto del cameratismo stava cominciando a prenderci, a impadronirsi delle nostre persone, per privarci della capacità di agire individualmente e trasformarci in macchine, in carne da macello, in uomini forti, in schiavi dello stato. Ci si addestrava alla vita come alle armi, sebbene la preparazione militare e scolastica non fosse ben distinguibile da tutto ciò che mentalmente era vissuto come totale. Non c’erano incertezze, non c’erano perplessità, la causa giusta era la nostra. Credere nella patria, nelle istituzioni, nella forza dello Stato basata sull’esercito. I civili erano disprezzati, odiati come placidi borghesi, gente dedita alla famiglia, all’allevamento dei bambini, alla coltivazione delle rose. Mentre noi eravamo gli ultimi o soli eroi del nostro tempo. Ed eravamo tutti belli. Bambini che avevano sacrificato il caldo del focolare, la protezione della famiglia, le coccole delle madri, per immolarsi per la salvezza prossima di tutti. Eravamo pronti a morire per una qualsiasi azione, degna di nota, risaltabile o non, che mostrasse la virtù di noi indomiti guerrieri. Ecco, eravamo dei combattenti senza pace, in tempo di pace, in cerca di guerre in cui dimostrare lo spirito di sacrificio inculcatoci nell’edificio senza contatto con il mondo. Lottavamo contro il vento delle nostre illusioni, contro i fantasmi creati dai comandanti. Guerreggiavamo contro il nulla.

Gli orari erano la parte fondamentale della vita in istituto. Una trasgressione del minuto che sanciva l’inizio o la fine della lezione in corso, costituiva causa di punizione. La consegna inflitta era degna di biasimo da parte degli ufficiali; degna di lode da parte dei camerati. Avere tanti giorni di consegna semplice, o meglio ancora, di rigore, costituiva considerazione particolare. La punizione impediva la libera uscita, lo studio, qualsiasi cosa di impegnativo, encomiabile dal punto di vista del Comando. E questo perché ogni tot di tempo, la tromba squillava per l’adunata-puniti che riuniva i consegnati della Scuola in cortile per l’appello, ostacolando in tal modo il concentrarsi nell’attività.

Per quanto riguarda il comportamento verso il Comando, ci si spronava all’ossequio. Ma l’ufficiale in se stesso era visto come entità a parte. Il gruppo, la forza, il battaglione, la macchina da guerra, eravamo noi allievi.

Io avevo più di centocinquanta giorni di consegna semplice, nonché cinque di rigore.

Gli allievi del terzo anno si creavano una commissione segreta d’organizzazione cui prestare ascolto nella preparazione delle tradizioni non consentite. Erano queste delle messe in atto di particolari azioni all’interno dell’istituto, da eseguire contro gli allievi subalterni, contro gli ufficiali: atti di ricorrenza particolare da mettere in esecuzione in determinate date dell’anno. Nella più esasperata, chiamata "incursione", si bloccavano tutti gli accessi alle camerate della prima compagnia. Le vie di ingresso erano chiuse da barricate erette per l’occasione: panche, fil di ferro, catene, schiumogeni, armadi. E ciò per bloccare il servizio di guardia dei militari di leva capitanati dall’ufficiale di picchetto. Per non essere riconosciuti, ci coprivamo il viso, incappucciandoci con maschere da scherma, o con calzamaglie da donna. Poi si andava nelle camerate, delle reclute, le quali erano da noi distrutte; si scassavano gli armadietti, si demoliva ogni oggetto abbattibile, si picchiavano gli allievi.

L’azione veniva eseguita di notte. La si preparava qualche settimana prima, comprando l’occorrente all’esterno della scuola. La "Coscu" era il gruppo che si occupava di queste tradizioni illegali. Il "Comitato squaglio", che organizzava le "uscite" notturne dalla Scuola, ovviamente di nascosto, era composto da cinque, sei persone, alle quali erano legate, in dipendenza gerarchica, due o tre "spalle." Queste erano il nucleo operativo principale, gli elementi della squadra che detenevano i compiti organizzativi più pericolosi, e delle attività, coloro che si esponevano in prima linea, che potevano essere sorpresi con più facilità dalla sorveglianza del picchetto. Durante una di queste tradizioni, io, che facevo parte del gruppo, venni sorpreso una sera dal tenente, soprannominato "Trinchetto", a chiudere con una catena ed un lucchetto il cancello che dava accesso alle nostre camerate. Mi puntò il fucile e mi smascherò. Riuscii ugualmente ad avvertire i miei compagni dell’arrivo dell’ufficiale, ma non tutti ebbero la possibilità di scappare, e così, io e altri quattro espiammo la pena generale. Un processino interno, davanti al comandante di battaglione, presieduto dallo stesso, ci condannò con la "rigore." Non ci fu per noi nessuna possibilità di difesa, perché accettammo di essere puniti, pagando pure le colpe degli altri compagni. La Coscu agiva a scadenze predeterminate, seguendo un calendario puntuale tramandato dal capo-coscu del corso precedente. La struttura era a vertice, ed il capo era stimato, ascoltato, ubbidito. Era una figura carismatica.

Accanto alle tradizioni non consentite, ci stavano quelle consentite, che consistevano in parate militari, caroselli, sfilate con evoluzioni di bravura e di grande preparazione tecnica e stilistica. A questi erano invitate alte personalità dell’esercito e dello Stato, e persone esterne, civili, nonché le nostre famiglie. La particolarità di queste prove di esibizione stava nel fatto che ci preparavamo per esse con estrema dedizione e sacrificio.

L’esercito porta ad una comunanza di cose, oggetti, legami, affetti, amicizie molto stretti. Ed è logico che sia così, giacché troppo tempo viene passato con i camerati. La situazione è aberrante. La presenza costante degli altri ti soffoca. Questo comunismo, queste compressioni coatte di persone nel medesimo luogo, spingono nello stesso tempo alla creazione di amicizie totali e all’annullamento di spazi completamente privati e individuali. Facevano parte degli allievi del Collegio diverse categorie di ragazzi. Chi apparteneva a famiglie benestanti, chi a casate nobili. Ma i più erano figli di militari.

 

Di primo mattino andai a sedermi nella stanzetta di Teresa, ai piedi della branda. La destai. Le raccontai del sogno che da tempo mi assediava. Le assicurai che questa volta, forse, avrei chiuso per sempre con questi tormenti notturni, o diurni, causati dall’Accademia. Ero certo di avere intravisto, nelle ultime sequenze del delirio, alcune immagini ingarbugliate, come l’intero incubo del resto, che sottolineavano il congedo del mio Corso. Eravamo rimasti in pochi, forse ottanta. Il mio punteggio, nell’esame finale era stato intermedio: né troppo buono, né il contrario. Ma ora che avevo portato a termine questo progetto, non avevo ancora la certezza che tutto ciò che di militare era in me, avesse per sempre una fine. Anzi l’esperienza era piuttosto viva, e avrebbe interagito con le mie altre forze, nel dettarmi dei comportamenti particolari. Ingenti potenze non manifeste consciamente si sarebbero combattute per condurmi nel prosieguo dei miei accadimenti...

La messa del mattino fu ancora più lunga e più squallida del solito. La venerazione divina dovuta a quell’impostore, e al suo seguito di fuori di testa, era cosa nauseante e oltraggiante, sia per l’assoluta sfrenatezza, quanto per l’incomprensibilità del perché tanta disumanità continuasse imperterrita. Come mai questa lordura non era stata ancora smascherata?! Perché lo Stato, la Società, e gli Ordini supremi ecclesiastici continuavano ad occultare i misfatti che si perpetravano senza sosta?! Possibile che tutto questo dovesse continuare senza sosta? O forse coloro che lì ci avevano abbandonato, avevano acconsentito a tutto questo, magari sottoscrivendo una qualsiasi dichiarazione di cessione delle nostre persone? Non so se sbaglio, ma penso che fosse impossibile una consapevolezza e un avallo di questo tipo da parte dei nostri cari. Quindi solo due possibilità ragionevoli si offrivano come spiegazioni soddisfacenti: o i nostri genitori ne erano proprio all’oscuro; o la soluzione stava nel fatto che tutto fosse vero, l’intera vita pure, però inquadrata nell’incubo, nel percorso alternativo, che prontamente nel sonno mi trascinava in un’esistenza concorrenziale, lacerandomi. Ormai stanco di vivere o di immaginare malamente, mi decisi. Dovevo scappare, scappare da tutti i luoghi, istituti, caserme, sogni a occhi aperti, che non fossero scelti da una mia volontà precisa. Avevo sempre accettato passivamente le imposizioni, anche correttrici, di persone da me amate, e di fantasie incontrollabili, che tuttavia mi portavano senza illusioni in situazioni abnormi e travianti.

Non ne potevo più. Non sarebbe stato facile andar via, e neanche rintracciare il mio destino, eppure dovevo farlo, dovevo creare una scia che fosse scavata e percorsa unicamente dal mio volere. Di nuovo, in quello che avrei fatto adesso, c’era una determinazione prima inesistente: la volontà di cambiare, di essere io a modificare o a inventare me stesso. Mi ero improvvisato, o riscoperto, combattente.

Con Teresa organizzammo un piano di fuga, che avvenisse possibilmente di notte, quando l’organizzazione clericale fosse già ottenebrata dal velo del sonno. Volevamo coinvolgere nel nostro intento anche gli altri seminaristi, che non erano certo favorevoli alla coatta permanenza in simile posto. Non fu facile architettare la nostra "uscita", ma la necessità ci avrebbe aperto ogni porta. Purtroppo, gli amici non ebbero la forza di seguirci, vuoi per insicurezza, vuoi per paura dei parenti, vuoi anche per il terrore che avevano dei preti. Erano animi succubi della potente ignominia interna e vittime della propria debolezza. Teresa approvò ogni mia decisione. D’altronde ratificava tutto ciò che proveniva da me. Timida sì, ma guidata dall’amore che la nutriva era, diventava forte come un uomo.

In ciascuno di noi c’è una forza che non conosciamo, se non al momento in cui scaturisce impensabilmente nella difficoltà estreme. E’ la gioia di vivere.

Quella notte fredda dell’inverno corrente, ci calammo da una finestra del nostro piano, adoperando delle corde legate con delle lenzuola. Giunti nel cortile, ci riposammo un attimo. Ci abbracciammo e stemmo un poco accoccolati. Dopo qualche minuto ci dirigemmo verso il muro di cinta. Cinque metri di mattoni lisci ci separavano dalla libertà. Avevamo bisogno di tutte le nostre forze e di una grande agilità per superarli: l’impresa non era di facile esecuzione. Scendere dalla finestra era stato facile ma adesso eravamo bloccati. Mi venne in mente un’idea. Se il muro era invalicabile, la botola della fogna accanto al grande albero di pino della scuola era pur sempre aperta. Bastava accedervi, e dopo qualche giorno al massimo, saremmo riusciti ad uscirne. Teresa, impaurita e timorosa come sempre, aveva diverse preoccupazioni. Perdersi in quelle gallerie, significava morire di stenti, fame, sete. Ma tra l’improbabile capacità di oltrepassare il muro, e l’eventualità di uno sbocco all’esterno tramite le fogne, scegliemmo quest’ultima. Teresa mi seguì. Entrammo nel tombino che, posto accanto alla Torre, portava abbasso. Non si vedeva niente, ed ogni fuoco che ci illuminasse il cammino, ci era precluso. Io scesi per primo, la ragazza mi venne appresso. La puzza era insopportabile, e i rumori degli animali immondi ci incutevano sospetti non piacevoli, ma nello stesso tempo ci tenevano compagnia. Teresa aveva fame, voleva che gli procurassi del cibo. Ma dove? Di colpo, un’idea malsana mi illuminò. Afferrai con due mani uno dei grossi conigli che ringhiavano all’intorno nel buio. Il pelo corto era liscio. Lo accarezzai, mentre l’animaletto con la testolina cercava di farsi largo per uscire dalla stretta morsa in cui era tenuta dal pollice e dall’indice della sinistra che lo strangolava. Fui morso. In preda alla rabbia soffocai l’immondo, poi, con calma, lo feci a brandelli. Un pezzo lo porsi all’amica, dicendole che era carne cruda rubata dalla dispensa della cucina. Lei, affamata lo divorò rapidamente; dal rumore che faceva la mascella si sentiva la sua voracità di animale bramoso. Da sola masticò ogni cellula del pasto. L’acqua che scorreva sporca e melmosa tra i piedi, ci bagnò prima le scarpe, poi, quando raggiungemmo un percorso calante, ci arrivò alle ginocchia. Odorava di merda e lerciume. Dopo ore di continuo camminare, sentimmo un suono. Da qualche parte, in qualche galleria qualcuno gridava. D’improvviso il silenzio. Eravamo esausti, e Teresa lo era più di me. Ci fermammo nella parte destra della galleria. Presi da un’insensata voglia di noi, avvinti dai nostri sensi, che ci fecero scambiare la stanchezza con la voglia di stare insieme, di godere di questa sofferenza spastica, fummo costretti, per la nostra concupiscenza, ad amarci in quella sozzura. Il rumore, che prima ci era sembrato un suono o un chiamare, ricomparve. Un’ondata d’acqua ci sommerse e ci trascinò via, impetuosamente, sbattendoci tra le pareti e le sporgenze interne della galleria.

Al mio risveglio, un energumeno, calvo, dal collo enorme, mi accompagnò da un vecchio individuo. Dietro una scrivania nera con delle carte in mano cominciò a parlarmi. Era una figura tetra e logora. Una specie di codice vivente.

Io, col mio atto di ribellione avevo rotto una convenzione schiavizzante. La colpa: non aver subito e patito le pene discrezionali del direttore dell’istituto con estrema dedizione e sacrificio della mia persona. Non aver accettato il sistema nella sua interezza. Aver voluto salvare la mia vita, e peggio ancora quella di un’altra persona - dimostrando così solidarietà ed umanità nei confronti degli uomini (e delle bestie), contro il volere delle istituzioni -, distogliendo il potere universale affidato dalla nostra schiavitù alla "Entità direttrice", riprendendomi in tal modo la mia personalità, asservita e ceduta al Potere. Avere agito con la presunta consapevolezza dei vantaggi che ne sarebbero derivati alla mia persona e alla mia complice, a danno della comunità addomesticata. Il mio gesto avrebbe potuto gettare le basi di altre ribellioni. Avrei potuto evitare la pena pronunciando una semplice formula di contrizione e di trasferimento corporale: "Ciò che io ho commesso e verso cui da tempo ho assunto una posizione critica, è sì grave, ma tale resterà per sempre, non avendo l’uomo la possibilità di rimediare agli errori del passato. Però, poiché io lo riconosco, dimostrerò agli operatori della mia redenzione e a me stesso di non essere più lo stesso, ma di essere cambiato in positivo. Riconoscerò sempre le mie colpe, farò resipiscenza, parteciperò alle attività riqualificanti, aggrappandomi a quella mano tesa dalla giusta Entità." E così sarei stato ceduto alla mia famiglia. Ma rifiutai. Mi dichiarai puro. Lontano da queste accuse infami. Ero sì fuggito da quel manicomio, ma ne avevo tutti i diritti, diritti che mi provenivano dall’incondizionata volontà di essere "mio", senza alcuna dipendenza da altri a me esterni, senza alcuna cessione della mia persona nella sua completezza al Potere. Io non rispondevo a nessuno delle mie azioni e della mia volontà, se non a me stesso, e non delegavo tale determinazione. Mi sarei ribellato per sempre alle sopraffazioni, ed alle forze repressive di creature, ed entità. Dissi di essere l’amico di Teresa, di non averla mai costretta a compiere sacrifici da lei non voluti, di non avere mai condizionato le sue scelte. Che ogni suo atto era stato da lei voluto senza spinte e imposizioni. Lei mi aveva seguito liberamente. Inoltre affermai di non riconoscere la nociva "Giustezza" del loro Potere. Io appartenevo solo a me stesso e non ad altri. Avrei dovuto passare un periodo di riassoggettamento e di espiazione nell’ente, dove apprendere: l’ordine, la disciplina, la morale, l’obbedienza, la cecità. Sarei stato omologato nuovamente. Avrei dovuto subire gli insegnamenti correttivi (da parte di individui incapaci di valutare umanamente le colpe o le non-colpe, esperti solo nel seguire degli schemi prefissi, o degli stereotipi, piatti e chiusi. Mentalità preconcette).

 

 

Era estate inoltrata. Il caldo asfissiante del 1989 penetrava dappertutto, abbattendo la solidità di uomini, animali, opprimendo con i suoi strali senza lasciare via di fuga. Dormivo per terra, nudo, confortato dal freddo refrigerante del marmo del pavimento. Accanto a me spesso si sdraiava il mio grosso gatto bianco (Pucci I). Si allungava, si rigirava, brontolava, vittima anche lui della canicola. La mia camera era abbastanza grande: le pareti dipinte da poco, il letto posto all’angolo, quasi dirimpetto alla porta che dava sul balcone, dal quale mi affacciavo un tempo per osservare e studiare Anna.

Sullo scaffale a muro tra il letto e la parte del balcone, erano sistemati dei libri scolastici, dei romanzi, delle enciclopedie, ed oggetti di altra natura. Il caos che vi regnava, era riconvertito all’ordine dalle cure metodiche, dalle pulizie assillanti di mia madre. Ma dopo un po’, lo scompiglio del mio desiderio di disordine ritornava a ristabilire la confusione mutata.

Una ragazzetta era ospite a casa mia già da qualche giorno, e ci avrebbe trascorso diverse settimane, probabilmente tutta l’estate. Fra due giorni ne avremmo festeggiato il compleanno. Diciassette anni: tuffo senza veli nel mare mormorante delle speranze, di quelle esperienze ancora oscure. Era timida, schiva, un fiore che sbocciava. Non mi rivolgeva quasi mai la parola, perché ogni qual volta l’avesse fatto, sarebbe arrossita, non riuscendo a mascherare in nessun modo quel pudore che è proprio delle persone più sfrenate e più ardite quando prendono coscienza di quel loro essere, della loro vocazione, della loro voluttà. Ero io che la stimolavo, che rompevo il ghiaccio, cominciando con delle domande innocenti e ordinarie, di una semplicità elementare e di un’insensatezza chiara. Volevo esplicitamente farla diventare rossa, godendo di quel visino, che bianco o pallido, si accendeva come una fiaccola, fino a sconvolgersi completamente. A tal punto, lei, martire del panico, cominciava a ridere, contraendo tutti i muscoli della faccia e del corpo, fino alla perdita di ogni controllo. Era invaghita di me – ma sei durata tre anni. Forse pochi, forse tanti, comunque… grazie.

Tutte le mie parole, tutti i miei sguardi, tutti i miei lievi sorrisi, e ogni mio fuggente ammiccare, erano per lei principio e causa di turbamento. Me ne resi conto, quando al suo arrivo, mia sorella, primo anello di unione tra noi, ci presentò. Lei nel guardarmi, benché timida, mi immortalò in un ritratto istantaneo, che nascose nell’intimo dei suoi desideri. Da parte mia ci fu un veloce interessamento istintivo, un’incalcolabile bramosia. Un giorno dipinsi la giovinetta in una tela che poi andò distrutta: il volto era pallido, quasi diafano, a volte smunto; occhi castani risaltanti come bagliori di fuochi fatui, capelli neri, voluminosi, sparsi dietro le spalle. Una pelle selvaggia. Agile corpo, simile nella sua altezza slanciata a quei fiori che si affacciano per primi nel caldo della non ancora rovente primavera. Le poche volte che, rivolgendosi a me, scandiva con la lentezza di un orologio le sillabe brevi, sfumando quelle lunghe, io porgevo l’orecchio per percepire fino in fondo la sua timidezza; inoltre, le circostanze in cui era per così dire costretta a rispondere, a chiedere, o a manifestarsi con le parole, usava una precisione, dei costrutti limpidi, dei vocaboli talmente caldi, che anche un misogino ne avrebbe apprezzato la tenerezza, l’amabilità. Mia madre preparò, per il giorno del suo compleanno, una torta al cioccolato, ricoperta di panna montata, con le diciassette candeline variopinte, che sembravano affermare l’esultanza, lo schiudersi veemente di una creatura nell’aperto germogliare dell’esistenza adulta. Le luci della stanza furono spente, le tende furono calate, affinché ogni infiltrazione diurna di visibilità fosse evitata.

Io attizzai lo stoppino delle candele e dissi a lei: "Adesso puoi soffiare, ma mi raccomando, fallo pensando ad un desiderio che in queste occasioni festose è solito essere richiesto. Pensa e chiedi al tuo Futuro ciò che tu vorresti, e sii sicura e coraggiosa. Il Destino ti aiuterà!" L’avevo spinta a richiedere ciò che entrambi volevamo, incitandola a rendersi più disponibile e chiara nelle sue intenzioni affettuose, ammonendola, per agire quando opportuno, per renderci noto il nostro comune sentimento, palesandolo, in modo da estirpare ogni dubbio. Spense agevolmente tutte le luci, non prima però di avermi scambiato un’intesa complice. Festeggiammo allegramente, come si conviene in siffatte circostanze, poi andammo in giardino a giocare coi gatti. Diverse giornate trascorsero, spensierate e calde, tra gite in campagna, escursioni in grotte del circondario, passeggiate tra la natura lieta dei prati, bagni nel ruscelletto del paese.

Il mondo, quel mondo, pareva sorridermi, tuffandomi nell’incoscienza della gioventù, quando tutti gli odori, i sapori, i sogni, gli eventi dovrebbero davvero essere eterni nella loro dimensione. Un pomeriggio, mentre mia madre e mia sorella dormivano, andai nella cameretta di lei. Bussai. La sua voce mi disse: "Avanti." La porta che non era chiusa a chiave fu aperta ed entrai. La richiusi alle mie spalle. L’amica si distese sul letto. Indossava reggipetto e mutandine rosa sulle quali spiccava un fiocchetto vermiglio. Tutto il resto era carne viva. Dissi: "Scusami se mi sono permesso di entrare così quasi furtivamente, ma non avevo altra possibilità di stare insieme con te senza la presenza turbante degli altri. Penso che non ci sia bisogno di esprimerti ciò che è nato in me nel momento in cui mi sei apparsa per la prima volta. Però... ecco, io... tu mi piaci... Anche tu, forse, anzi, ne sono sicuro, provi un qualcosa per me." Lei disse solo: "Sì, vieni." Diedi un colpo alla chiave della porta, coprii il buco della serratura per impedire che qualcuno ci scoprisse e mi avvicinai al letto. Lei, la giovinetta dal candore immacolato, la vergine dal mantello velato, senza alcuna paura, senza alcuna ritrosia, si adoperò per svestirmi velocemente. I nostri due corpi si fusero nell’amalgama, nell’ondulante passione, gemendo e deliziando dell’entusiasmo senza limiti che ci menava nell’ebbrezza, nello stordimento dei sensi. D’un tratto dei tocchi, rumorosi assassini, ci svegliarono dal torpore in cui ci eravamo, addormentati. Mia sorella intimava ad Ale di aprirle, di farla entrare. Io in preda al panico, mi misi solo le mutande, raccolsi gli altri indumenti, aprii la finestra e mi lanciai nel vuoto. Fortunatamente il primo piano era alto solo quasi venti metri, e quindi non mi ruppi nessun arto. Però nell’atterrare, appoggiandomi con la mano nel muretto divisorio dell’aiuola, mi graffiai le dita e mi ruppi un’unghia. Andai a vestirmi di corsa nella rimessa. Ma fui preso dallo sconforto, quando, guardando per puro caso le mutande, mi resi conto che erano tutte sporche di sangue. Nell’amplesso, il frenulo mi si era lacerato, ed adesso che ero cosciente e desto, avvertivo un forte bruciore nella regione più sensibile del membro. Era una sofferenza insopportabile. Indossati tutti gli indumenti, mi precipitai da un amico, il quale mi consigliò di recarmi da un dottore. Accettai. Mi accompagnò. Il medico, che era un amico di famiglia, mi cucì, dandomi tre punti; mi assicurò di non rivelare nulla ai miei. Non volevo che sapessero che avevo preso Ale a casa, senza rispetto per niente e per nessuno. Potevano, infatti, sospettare o credere che il nostro giacere insieme non fosse stato fatto per volontà espressa di entrambi; bensì che io, approfittando dell’inesperienza dell’amica, avessi influenzato le sue decisioni. Ringraziai il dottore (scusami se ti ho detto bastardo e figlio di puttana, ma l’operazione era dolorosa) ed andai via, da quella casetta in campagna, circondata da alberi di mandorle e di pini, in cui ero arrivato con un dolore e delle fobie insensate. Feci ritorno a casa. Nessuno si era accorto di quanto era successo nel chiuso di quella stanzetta. Grazie al sangue freddo di Ale, mia sorella e gli altri erano ancora all’oscuro di tutto. Potevo rassicurarmi, continuare a mantenere un comportamento normale, dissimulante. I fatti sentimentali, amorosi, carnali tra me e lei, restavano celati nel profondo della nostra conoscenza, nel discreto scambio di occhiate consapevoli e piacevoli. Fummo così discreti, spontanei, gioviali, distanti agli occhi degli altri, che anche se ci fosse stato un testimone presente all’atto, volendo denunciarci alla punizione reverenziale dei miei, non avrebbe potuto giurare sugli eventi intercorsi tra noi. Essere stato con lei quelle poche ore, in intimità totale, costituiva l’appagamento più completo dei progetti che avevo fatto all’arrivo di Ale. D’altronde anche lei era soddisfatta della felice conclusione, o inizio, della relazione. Infatti, chi può più di un animo femminile, godere, cullarsi, fantasticare di una vicenda sincera, che può porre le fondamenta per l’ascesa all’empireo, alla passione futura?

Descrivere il moto delle sue aspirazioni, la propulsione dei suoi vagheggiamenti, il conflitto delle sue decisioni, l’incessante sua costruzione e ricostruzione del nuovo e non, è per me adesso infattibile. Lei era fuori di testa.

Era talmente incoerente nel succedersi delle valutazioni, che cambiava da un momento all’altro intreccio e finale della storia. Prima si fidava ciecamente di me e delle mie promesse (mai fatte seriamente fino allora); poi si lacerava interiormente, come se io l’avessi tradita, come se io l’avessi illusa. In seguito si riconfortava, e tornava ad amarmi come doveva. Mi perdonava, o si perdonava. Alla fine cadeva vittima nuovamente di se stessa e delle sue elucubrazioni. E ricominciava da capo.

Queste meditazioni non scaturivano da una giustificazione reale, e non avevano nessuno stimolo oggettivo che le potesse motivare. Accadevano fantasticamente solo nella sua mente volubile e malinconica. In realtà io non la ingannavo, non andavo con altre ragazze, non facevo nulla che potesse darle un semplice sospetto di tradimento e crudeltà nei suoi confronti. Tutt’altro. Io l’amavo e la contemplavo come una donna pia adora una statua dell’Arcangelo Gabriele. Avrei voluto trascorrere con lei ogni attimo della mia esistenza, parlare insieme per ore ed ore, fare dei monologhi logorroici sulla sua bellezza, sulla sua dolcezza, sul suo viso capriccioso. Come poteva minimamente pensare che il suo adulatore potesse anche per un solo baleno di tempo, distogliere la sua attenzione da lei, o peggio ancora abiurarla?!

Un’estate intera fu vissuta spensieratamente. Il nostro rapporto crebbe. Tante occasioni ci furono offerte per stare insieme e ne usufruimmo. Adesso, nessun dubbio, nessun velo. Nessuna trepidazione, gettava lei, o me, nell’abbattimento, nelle insicurezze. Un giorno, quando i miei famigliari si recarono in visita nel paese di *** dalla nonna Lina, che stava male, ebbi a disposizione delle lunghe ore per vivere con Ale, che non andò con la scusa di essere indisposta, di avere un malore, mensile. Fu creduta. Mi feci prestare un cavallo da un vicino di casa, un contadino. Persona di gran bontà ed esperienza ("u zi Pitrinu"). Il baio era imponente e splendente. Magnifica creatura. Aiutai Ale a montare sulla sella, quindi presi posto anch’io dietro di lei. La sfolgorante "Dromedaria" partì al galoppo, bruciando la terra con gli zoccoli lesti. Dopo un centinaio di metri, la fermai e ripartimmo al trotto. La mia amica, nel saltellare nobile della cavalla, fu presa da un’indescrivibile sensazione. Si sentiva estasiata, come se quel ritmo ascendente e discendente, la lanciasse in un’euforia danzante. Volle prendere lei le redini. Gliele passai. La bestia fu spronata nuovamente al galoppo, questa volta però le fu imposta una velocità esasperata, e ad ogni curva la viuzza di campagna sembrava restringersi pericolosamente. Dissi ad Ale di rallentare. Non mi ascoltò. Le ordinai di fermarsi, ma questa, sempre più ardita, proseguiva. L’entusiasmo del possesso animale e della velocità l’aveva ipnotizzata, e lei rispondeva adesso solamente ad un istinto di sfracellamento e di morte. Svegliai l’amazzone con un pugno sulla testa. Gridò. Poi svenne. Racchiuso tra me ed il collo di Dromedaria, cinto dalle mie braccia e dalle mie mani che tiravano le redini, il suo corpo non cadde a terra. Mandai il cavallo al passo, sia per farlo riposare, sia per essere sicuro che Ale non smontasse inavvertitamente. Arrivammo alla stradella che dà accesso alla campagna paterna. Il luogo impervio e isolato, sito su alcune colline distanti qualche chilometro dal paese, era chiamato Cappiddru d’azzaru. Nessuno lo frequentava o vi passava. Forse qualche cacciatore in rare battute di ricerca di selvaggina. La piccola altura principale sovrastava il circondario; fichi riempivano grandi chiazze di terreno; rocce pitturavano di bianco e grigio la zona. La ripida arrampicata durò circa dieci, undici minuti. Dromedaria ci portò dinanzi al muro della casa monolocale che, nascosta tra pietre a guisa di muraglia, si ergeva su un terrapieno naturale. Smontai. Presi tra le mie braccia Ale, salii su per gli scalini del rialzo, girai a destra, percorsi cinque metri di selciato, raggiunsi l’entrata di quella casetta sognata da mio padre come eremo estremo, costruita lentamente e nel corso degli anni. Da piccolo con lui giocavamo con i Lego progettando quella villetta che noi volevamo fosse edificata. Adesso, la casa è lontano, disabitata, incurata: ma è sempre mia.

Misi a sedere l’amica sui gradini antistanti la porta. L’aprii. Sollevai la ragazza e la posi sul letto. Di fronte all’ingresso stava una finestra di ferro, chiusa. Il letto si vedeva accanto ad uno scaffale di legno, sul quale erano dei romanzi (forse ci sono ancora i racconti di Edgar Allan Poe) tra la finestra ed un grosso armadio militare. Dirimpetto alla mensola: un fornello, una stufa in ghisa, un bacile in metallo arrugginito. Nel centro della stanza: un tavolo. Svegliai la mia amante con delle dolci carezze in viso, dei baci voluttuosi sul collo e sulla bocca. Lei si riprese, come se niente fosse successo, come se l’eccitazione cavalleresca non fosse mai avvenuta. Disse queste parole: "Ma dove siamo?" La rassicurai, rispondendole che era svenuta sotto il sole logorante, strada facendo. Non ricordava niente della folle corsa, quasi fosse un frangente di tempo mai vissuto. Il sorriso cominciò a manifestarsi sull’espressione del volto assonnato, fino a diventare desiderio voluttuoso di piacevole complicità. Spensi la luce della candela, che irradiava vagamente certezza nell’oscurità della stanza. La cecità degli occhi non impedì al tatto di palesarci, abbracciati. Ci spogliammo e ci muovemmo sul materasso di piume. Spossato, privato di tutte le energie impiegate nel nostro interagire, mi alzai, accesi la bugia. Un urlo disumano di Ale mi scosse. Mi voltai di scatto verso di lei. Quale non fu il mio orrore, quando mi accorsi che, sulla parete della mensola, una marea di tignusiddi popolava ogni centimetro. Lei si buttò su di me, abbracciandomi, strillando, piangendo, dicendo: "Ti prego, portami via di qui! Scappiamo!" Nudi, uscimmo da quella casa infestata dagli animaletti, che con le luci zampillanti degli occhi ci guardavano quasi sorpresi. Avevamo paura. Eppure i tignusiddi sono piccoli, simpatici rettili, sebbene facciano un po’ di sensazione con quel corpo tozzo, la pelle a squame verrucose e gli occhietti vivaci. In ogni caso, non sarei stato felice di essere aggredito da loro, accorsi in massa, perché attratti dall’odore della nostra carne. Dovevano essere affamati. Non recuperai i nostri indumenti. Ma non potevamo fare ritorno al paese svestiti. Aspettammo così il buio della notte. Alle dieci di sera salimmo su Dromedaria e coi nostri corpi a contatto sulla sella di cuoio ci incamminammo per il paese. Il nostro calore vitale bastò a tenerci nella giusta temperatura, coadiuvato dall’arsura delle notti estive. La luna ci fece da faro nella discesa da Cappello d’acciaio. Eravamo, adesso, perfino allegri, immersi in quell’atmosfera solitaria e sentimentale, circondati da oscure parvenze semoventi, che altro non erano che ombre danzanti nell’effetto del chiaroscuro della zona, sotto il cielo lontano. D’un tratto, Dromedaria si arrestò. Cominciò a scalpitare. Ale ebbe paura. Perché fermarsi d’improvviso in quella località non certo amena di notte? Cosa aveva atterrito la cavalla? Cosa o chi aveva intravisto o sentito o preavvertito tramite i suoi sensi primordialmente pronti? Spronai imperterrito la bestia. Niente! Ritentai. Non ci fu verso di smuoverla. Una sensazione di paura avvolse la zona, circondando le poche cose visibili, oscurandole col tremore del non conosciuto, col brivido dell’inattesa sorpresa. Eppure, io non vedevo niente, la mia amante si rifiutava di guardarsi intorno, abbracciandomi, nascondendo gli occhi nell’appoggiare la testa sul mio collo. Che fare? Andare avanti, per controllare la causa della sosta non voluta? Scivolare coi piedi nudi per una strada accidentata, piena di pietre taglienti, magari incorrendo in un pericolo reale e nocivo? Non sapevo proprio cosa fare. Non ero un vile, per cui volli cercare nel buio lontano delle frasche l’origine dei sussulti del mio animale. Da una guaina, nascosta nella sella, estrassi un lungo pugnale, che, nelle giuste considerazioni del mio vicino di casa, o delle mie, sarebbe potuto servire in situazioni particolari. Quella era una situazione particolare. Feci arrampicare Ale su un albero e le intimai di non scendere. Se io non fossi tornato dopo un minuto, sarebbe dovuta salire su Dromedaria e avviarsi velocemente a Cappello d’acciaio, rinchiudersi nella casa, e aspettare un soccorso che sarebbe arrivato sicuramente l’indomani, quando i miei parenti, non vedendoci rincasare, avrebbero chiesto in giro, venendo a conoscenza della richiesta fatta al nostro vicino, il quale avrebbe rivelato la destinazione della scampagnata. Ma Ale non voleva ritornare nella casa. I tignusiddi erano sicuramente ancora ad attenderla. Stabilimmo che, passato il minuto, sarebbe balzata sulla sella e si sarebbe lanciata dentro l’oscurità del mio non ritorno, tentando la fuga. Andai adagio per la stradella. I cespugli erano mossi con forza immensa da un non so che di enorme. Alla mia destra, degli alberi erano stati abbattuti. Mi trovavo in pericolo. La massa sconosciuta si mosse verso la mia persona. Due fari enormi si fermarono. Mi osservavano. La Biddina con un balzo si avventò su di me, mi buttai per terra, rischiando di cadere nel burrone della valle. Fortunatamente fu essa a finirvi. Lo spostamento dell’acqua dello stagno sottostante causato da quella mole, mi avvertì della piccola occasione che mi si prospettava per scappare. Non feci in tempo. Quei dieci metri di lunghezza si mossero velocemente, uscendo dall’acqua; ancora più velocemente risalirono la scoscesa altura. In men che non si dica erano già di fronte a me. Non sarei sopravvissuto! Ci guardammo, ci studiammo. La Biddina mi aggredì. Prima di rendermene conto piantai il lungo pugnale nel suo occhio destro, lo girai e lo rigirai sino a scavare un’apertura così profonda da affondarvi il mio intero braccio, che a fatica riuscii ad estrarre. La Biddina si abbatté sul fianco. Urli scossero la vallata. Ritornai di corsa da Ale, la chiamai, scese dall’albero, salimmo su Dromedaria, che, incitata coi talloni e con pugni sul collo, partì come un fulmine estivo. La Biddina, che ancora si dibatteva e rantolava, fu superata con un salto del mio prodigioso animale. Mi voltai, come per vedere se, nella più insperata delle ipotesi, si fosse rialzata per inseguirci. Vidi però che, nel suo atroce soffrire, cadeva giù nello stagno, vicino a Bellanova, da cui era uscita. Giungemmo a casa inosservati; entrammo colla cavalla dal cancello sempre aperto del giardino. Smontammo. Legai Dromedaria al pilastro del terrazzino, poi, attraverso la rimessa arrivammo alle scale interne. I miei non erano ancora ritornati. Mi alzai alle prime luci dell’alba con un forte mal di testa.

 

Fra qualche periodo sarei dovuto partire. L’Ente amministrativo aveva accolto la mia richiesta di trasferimento. Ale promise di venirmi a trovare, e di stare insieme con me, non appena fossi giunto a destinazione. Finalmente il giorno della tanto agognata partenza arrivò.

Salutai tutti i compagni che per anni avevo frequentato. Ben presto scrissi da quel luogo alla mia amata. Ma nessuna risposta mi pervenne. Capii, con mia profonda tristezza e inquietudine, che lei non sarebbe mai venuta, e che niente avrei potuto più sperare da lei, così dolce, così bella. Nella mia comprensibile delusione, ebbi la forza, o lo sfogo amaro di un mesto, di inviarle un’ultima poesia, un ultimo gesto. Da parte di colui che, avendo sempre amato con passione e con sincerità, sa o capisce che il suo gesto non servirà a niente. Forse potrà solo placare un animo sconfitto, alleviarne i patimenti, ma nulla di più.

A colei che non verrà mai: "Attesa. Lunghe attese deluse, sotto il cielo nero, lugubre e insincero; volano diffuse nubi angosciose, sulle case ignominiose. Altro non si vede, altro non si ode; che una speranza che rode, che una mente che chiede. Una rosa sul davanzale, due occhi assenti, lacrime scure, tutto fa male."

E il Tempo si è sovrapposto al passato. Ale non mi ha più pensato. Io non so più niente di lei, tranne che si è sposata ed ha un figlio. Va bene così. Del resto ognuno deve vivere il proprio percorso, individualmente, e come meglio crede. Tutte le esperienze, tristi o amabili, danno la certezza che il loro ricordo sarà presente perpetuamente, in ciascuno, non smettendo mai di soffrire, di gemere, patire i mali propri dell’esistenza. Ma anche la certezza che, prima e dopo il dolore, e forse anche durante, la vita è nell’amare.

 

I giorni trascorrevano lenti e inesorabili, inesorabili come un meccanismo autodistruttivo che è concepito solo per finire. In questo altrove maturai esperienze nuovissime, e tutto ciò che un tempo costituiva una certa fonte di conoscenza, diveniva ora quasi inutile, obsoleto. Ciascun attimo del presente era un nuovo capovolgimento di apprendimenti e ammaestramenti passati, ma passati di pochi minuti. Mi rendevo conto di come era insufficiente ogni forma di comprensione. Non potevo capire veramente ciò che volevo capire. Del resto ogni sicurezza era un simulacro di confusione. Il sole che mi illuminava, il sole che mi accecava, adesso era scomparso, per lasciare il posto ad una nebbia onnipresente. E la vanità che mi strutturava iniziava la sua veloce trasformazione, uno schermo consapevole della mia (e di tutti gli altri) incapacità di essere cosciente. Nel mio delirio avevo una fioca rappresentazione di una qualche esistenza reale, e questo mi demoliva ancora di più. Ero a metà strada tra la visione totale della fine e un’autorinascita parziale. Mi stavo innalzando con delle ali pesantissime, più grandi di quelle che una mente sana sarebbe in grado di partorire, per sorvolare dal cielo opaco una terra popolata di macchie. Ma tanto più in alto andavo, tanto più soffrivo. Stavo divenendo un dio.

In questa feroce decomposizione ultraumana, uno schiaffo mi svegliò dal vero. Frequentavo allora un corso di aggiornamento, iniziato dopo aver lavorato per diverso tempo per una ditta particolare. Un giorno, il nostro direttore ci propose di seguire, come lui desiderava, un percorso che ci avrebbe indirizzati verso nuovi campi, utilizzando tecnologie recenti, atti all’avvio di attività spazianti. Accettai. Le informazioni che acquisii nei primi mesi valsero solo a farmi cadere in uno stato di apatia e di pentimento: le prospettive sembravano peggiori di come le vivevo. Lì avrei imparato solo a lottare contro le ore più lunghe della mia vita. Chi sarebbe dovuto essere l’insegnante di un nuovo sapere, era invece il destinatario dell’apprendimento. Venivano solo per raccogliere quel pane quotidiano che un essere supremo avrebbe dovuto garantire da tanto tempo ai suoi stupidi schiavi. Eppure, eppure forse andava bene anche così. Non so quanti furono reclutati, quali furono le prove superate, probabilmente non c’era nessuno che tastasse la loro preparazione, o sì, ma questo non importa. Evidentemente arruolarono per bisogno, vicendevole. E poi, a che servono gli esami, se non a far star male e a imparare pedissequamente delle stronzate che bisogna ripetere come automi, che spesso poi si dimenticano un’ora dopo?!

So che parlammo tanto, troppo, che non concludemmo nulla, che alcuni restarono fermi, come morti inchiodati alle proprie croci, che le volute espressioni servivano solamente a dei soliloqui. Sbraitavamo come cani, con la bava che inondava la sonorità di una stanza atona, e a turno ciascuno diceva quello che aveva letto in qualche manuale scolastico, alcuni traendo spunto da passate vicende ideologiche per cui avevano sprecato un’intera vita (e chissà, se avessero vinto sarebbero stati diversi dalle squallide ombre che ora apparivano; ancora adesso, nonostante la disfatta, sprofondati in una torre che va verso l’inferno degli schemi unidirezionali, scendendo una scala a chiocciola che mai porta a qualcosa). Taluni si ergevano come maschere senza costume a recitare una parte di un non so che di inodore, riversando secchi di parole gracchianti nell’aria a testimonianza di un proprio valore, diversamente da chi invece era lì, pecora di un gregge vastissimo, come per qualche caso che vuole accoppiare esseri subumani e maestri di qualche logora generazione. Io ero solo. A volte confortato da una tigre stravagante. Spesso reagivo, intervenivo, ma subito dopo mi rodevo il fegato. E chi me lo faceva fare?! Perché amareggiarmi io che non volevo più niente, io che non sentivo più niente di bello, io che non potevo capire quello che era indecifrabile. Senz’anima. Io che non volevo più niente delle cose che gli altri non erano in grado di offrire. Poi, un giorno di primavera, comparve lei. Fuori posto senz’altro, come tuffata lì per una strana volontà, da demiurgo amico, con la sua sigaretta che spandeva un odore lontano, con quell’aria quasi smarrita da studentessa (o altro, che dire non voglio) parigina, con la sua borsetta selvaggia, rubata in chissà quale fiera, a me ora tanto cara, con quella giacchetta marrone, che per prenderla in giro dicevo esserle stata prestata dal papà. Eppure le donava tantissimo, come la borsetta. Tutto in lei era straordinario, anche quegli occhi castani che a volte, in tempi trascorsi, ricoprì di altro colore solo per apparire più bella. Non era bella. Era qualcosa di più. Piaceva. Caddi come un coglione ai suoi piedi, ma alla sua seconda venuta. Prima non mi accorsi della sua esistenza. Gli altri insegnanti erano stati vani, ma lei addirittura sembrava vacua, e forse lo era. Una tabula rasa. Lo so, lo so, sono uno stronzo e un bastardo…

Cominciò a parlare, con quell’aria stanca e svogliata di chi sa tanto, di chi tanto ha vissuto, o così vuole far credere, di chi ti dà un po’ di confidenza perché è costretta da un’entità a concedertela. Ma non disse poi tanto. Quattro racconti per il ruolo che avrebbe rivestito. Quale, ancora non l’ho capito. Diritti, doveri, prescrizioni, leggi internazionali, trattati del cazzo, cosmopolitismo fittizio, barlumi di messaggi rubati qua e là, animalismo ideologico, sociologia degli escrementi, sedi governative micenee. Lei era questo e più. Le poche volte che la stavo ad ascoltare, pensavo di avere a che fare con una sognatrice, e probabilmente lo era, poi scoprii la sua utopia: avere una funzione importante da qualche parte in Europa o nel Mondo. Lei idealizzava tutto: pure i vermi della terra erano gloriosamente consegnati a quella Natura che difendeva come un’amazzone la sua libertà guerriera. Ascoltava e basta, sebbene delle volte si alzasse da quella sedia che simboleggiava il trono di un potere e si muoveva per aprire bocca; spostava la sedia o ne cercava un’altra e si piazzava nuovamente. Era una confabulatrice. Come me. Come tutte le altre delle lezioni, non mi suscitava nessun interesse, lei rappresentava un qualcosa senza confini precisi. Ma era una bona e me la sarei fatta, ma niente di più di questo.

Il suo insegnamento finì presto. Finalmente un dì arrivarono i mezzi meccanici per il lavoro: quegli attrezzi per cui avevo richiesto di partecipare al corso. Nuovi docenti, nuove lezioni, questa volta più interessanti. Al nostro primo incontro non mi stupii più di tanto. Fui contento perché i miei occhi avrebbero potuto vedere un corpo ben modellato sebbene non troppo. Un giorno il caso volle che mi si sedesse, per caso, di fianco, svolgendo la sua funzione di umanizzatrice dei derelitti. Parlò col mio collega. Per me non esisteva. D’un tratto per rispondere ad una sua domanda mi voltai verso i suoi occhi. Affascinavano! A pochi centimetri dal suo viso, rimasi senza parole. Lei sembrava un’altra donna, e lì caddi nella solita rete. Soffrire notte e giorno, qui per una che non conoscevo nemmeno. Tentai vanamente di non dedicare il mio Tempo a lei, a questa nuova colpa in cui la mia sincerità cedeva. Persi. Iniziai una lenta contemplazione, con gli occhi e con la mente, finché un giorno le dissi apertamente ciò che provavo. Reagì con molta falsa educazione e con molto tatto, con la giusta consapevolezza di chi forse ha sofferto e fatto soffrire, di chi sa. Fu gentile, e non si scompose. Era melliflua. Non mollai, neppure adesso, però cominciai a trattarla come un’amica, anzi posso dire che mi ci affezionai. Riscontrai nel suo corpo quei tratti appartenenti ad alcune ragazze di un tempo. Lei mi ascoltò e mi compatì. Ma tutta la sua superbia non le aveva ancora svelato, tuttavia, che nella vita non si raggiunge mai lo scopo prefisso, in quanto non esistono scopi, ma solo velleitarie ricerche e tentativi di parvenze momentanee se non per un fugace istante (e spero che un giorno lo capisca, altrimenti soffrirà ancora più del consueto) e che le tecniche di contenimento e di circospezione non sono sempre efficaci. E che le certezze e le stabilità sono effimere. Il mio cavallo di battaglia.

Si apriva poco, era insondabile, anzi, lasciava che fossero gli altri a confessarsi, per cui dovetti trovare da solo delle piccole informazioni su di lei. Ben presto però lasciò vedere un casuale varco, grazie al quale potemmo parlare più liberamente. Forse mi diede un poco di confidenza, forse si fidò… e chi lo sa, sta di fatto che la mia pulsione da sessuale nei suoi confronti divenne altro: la stimai. Lei, incomprensibile, oscura, vanitosa, saccente. Quando dialogavamo, sentivo che di fronte a me ci stava una compagna, ed io ero... anzi sentivo di essere qualcosa di più, un mentore. E volli smaliziarla. Doveva saper che il Male raggiunge un passante, un obiettivo da qualsiasi parte e con qualsiasi mezzo. Il mondo è popolato dalla malvagità, da individualisti (come me), che lei non è un’eccezione, che tantissimi sono disposti a sprofondare pur di non vedere un altro sopravvivere.

Le dipanai la Verità: quella molteplice varietà di entrate ed uscite, l’indifferenza, la pietà. Ancora adesso non so quanto abbia capito sul serio e quanto mi abbia ascoltato. Il mio labirinto era come un tunnel che va verso il fondo, senza un fondo. Lei era un ingenua, benché si desse quel sussiego da donna mondana, viaggiatrice turca, collegiale inglese o lesbica da lupanare giapponese. Ma se anche una sola parola dei nostri fraterni colloqui fosse stata compresa veramente, avrebbe potuto allargare i suoi orizzonti limitati. Tutte le più luride esperienze totali, reali e mentali, erano state già da me allora attraversate e superate. Io sapevo quanto mi facevo schifo, per come ero e per come erano gli altri. Volevo che lei, unica amica contemporanea stesse attenta. Ma non capiva. Una boriosa che non mi credeva. Per illuminarla di prepotenza avevo varcato la sua privacy. Mi rendevo conto che non ero autorizzato a comportarmi così, ma volli farlo. Non so ancora come feci ad uscire da quella situazione, non so ancora se ne uscii.

La Gioia, già da tempo dissolta dal mio infinito animo, dalle elucubrazioni maestose, ritrovata in lei – come in tante altre - effimeramente, stava per cessare ed io lo intuivo. Speravo solo che avesse visto in me più dell’ordinario. Ma lei era fredda e lontana. La mia missione era terminata. Contro tutti i tormenti psichici e fisici, era necessario distaccarmi e glielo scrissi, e glielo dissi. L’avrei trattata come un’ombra, l’avrei schifata, l’avrei offesa. Sarebbe dovuta essere inesistente. Il Tempo stava per finire e l’abitudine alla sua visione era da cancellare. Altrimenti ci avrei impiegato dei mesi a dimenticarla, come per le altre, e alla fine, come tutte, non l’avrei dimenticata.

La fine di tutto avviene ben presto, e spesso non lo sappiamo. Unica consolazione è l’amore o l’amicizia per qualcuno che ti vuole bene, ma che tralasciamo; e facciamo invece scorrere i giorni e le ore, insensati, tuffandoci in giochi che riteniamo eterni, in credi che scivolano viscidi, per non avere né inizio, né cessazione, ma tutto in continuo svolgimento. Una droga che ci offuschi la mente per far sì che la nostra resistenza non diminuisca, per far sì che la nostra debolezza ci aggrappi a varie illusioni. Ed io che non credevo in niente, io che soffrivo per questa infelicità, io che non avevo più sogni vani da realizzare, io che morivo in un amalgama di nichilismo e di fango, io che avevo un gran bisogno di vivere, che fine avrei fatto dopo la lacerazione di questo nuovo supplizio. Glielo confidai. Le rivelai che dovevo retrocedere. D’altronde, la mia volontà di potenza, la mia qualità di superuomo, la mia singolarità, mi avrebbero sorretto. Io ero – per me e solo per me - il migliore fra gli uomini, ero quel dio che avevo eletto ad unica ragione di esistenza.

La ragazza non poté concedermi quella stima che riversavo in lei. Ero soltanto un nome senza volto, uno che provava sentimenti unilateralmente.

Cosa mi resta adesso di tutti quegli struggimenti, di quell’aspettare ogni giorno che il rumore dei suoi passi oltrepassasse la porta, per sentire la sua voce delicata e soave, per vedere quella statua enigmatica, riempire di tanta luce una ripetitività oscura di cicli meccanici e ordinari. Non mi resta niente, solo un numero e pochi codici di una donna sfumata e idealizzata, ben presto sparita. Il suo nome era Elisa, chiamata "Frumoase". La mesta Frumoase dai lunghi capelli.

 

Ecco tutto questo è ciò che sarebbe raccontato da una mente delusa, frustrata, stanca, incapace di saper distinguere i veri accadimenti dai sogni e dalle immaginazioni. Ma la verità è un’altra. Lei era eccelsa. Ero amareggiato da quella triste situazione che mi vedeva abbattuto prima ancora di poter prendere le armi. Non avevo nemmeno la possibilità di agire. Ero legato da funi statali e altro. Altro che non poteva, se non con una volontà ferrea e lungimirante, sciogliere. Lei poteva liberare me e la mia vita. Ma per capire a fondo la difficile prospettiva, lei, aquila dalle grandi ali si sarebbe dovuta innalzare e volare in alto, come le spettava, guardando da monti elevati lo spazio all’intorno; non più il circoscritto che attualmente percorreva. I suoi orizzonti, al contrario di quel che io le rimproveravo, erano illimitati, davvero, e se solo avesse saputo spiccarsi in volo, se solo avesse preso coscienza al più presto di queste sue qualità, che solo una mente superiore poteva vedere, avrebbe già potuto da tempo ascendere... lontano dalla sua malinconia, lontano da ciò che ancor era. Nel frattempo, benché in potenza potesse, si abbandonava a degli stati d’animo comuni, soffriva le stesse pene che avvolgono ogni uomo quando non riesce a controllare le circostanze che girano e imbavagliano senza essere tenute a freno. Si tormentò negli ultimi periodi che passai a volte accanto a lei per queste sofferenze: delle pene che io e lei conoscevamo, e che qui è inutile specificare. Le fui accanto, come un osservatore esterno e amico che può consigliare, quando non si ha sgombra la visuale, quando il nostro pensiero è costretto a non uscire da quel giogo tortuoso. Si rimproverava il suo preteso egoismo, si metteva in discussione. D’altronde la realtà a volte è frutto di azioni passate, a volte di un agglomerarsi di vicende che girano ineluttabili e senza controllo. Lei non aveva nessuna colpa. Era innocente. L’accaduto era tale e immodificabile. Quindi, perché struggersi, perché non piangere e poi basta, perché non guardare avanti e ricominciare a costruire dal punto in cui si era fermata?! Queste esperienze le sarebbero servite in futuro, ma adesso, adesso la realtà era tale e non altra. A che valeva non dormire, non essere allegra, non mangiare, a che valeva non vivere? Doveva godere di ciò che aveva, e aveva tanto. Doveva lottare e prendere il presente. Il mea culpa non le si addiceva. Il riconoscere i propri errori, ammesso che fossero errori, era la debolezza di un uomo inadatto alle proprie azioni. Un uomo che si pente di ciò che ha deciso, di quello che ha fatto, mette in discussione se stesso. Per cui crisi di esistenza e balle varie ...solo pensieri per chi è infiacchito! Un amalgama di cattive considerazioni che la attanagliavano, come forse il sentirsi cattiva, egoista, di essere una fallita, una donna che, sebbene faticando, non sortiva nessun effetto duraturo e stabile. E questo alla sua età, quando altre erano già affermate.

Non credo di sbagliarmi. Dalla propria interiorità le cose appaiono diverse, se non si esce e ci si osserva da fuori. Io la osservavo da fuori e da dentro. Da dentro gli accadimenti sembravano darle ragione, per cui sarebbe stato giusto considerarsi una nullità. Obbiettivamente invece, fotografata nelle sue potenzialità, lei era superiore. Intelligente e di un’apertura mentale che notai effettivamente negli ultimi tempi, quando caddero gli schemi: era emotiva, era solo umana. Lei valeva. Tanto. Ma per estrinsecarsi doveva considerarsi, amarsi di più.

Mi addormentai, per giocare coi sogni, per andarmene qualche ora dal presente che io non ero in grado di cambiare. Una persona, per trasformare la sua realtà, ha bisogno solo di se stessa, e ci riesce e diventa ciò che è in grado di diventare. Ma per cambiare insieme ad un’altra, ha bisogno che l’altra divenga insieme a lei.

Sognai altri tempi, sognai altre vite, sognai. Come un fiore che sboccia e pensa che la sua esistenza è il sole, il giorno, la bellezza. Poi comincia a venire la sera e le prime ombre lo atterriscono. La notte cade silenziosa e lui si spegne, lentamente. Per questo ti dicevo che "i fiori, nel pieno della loro bellezza sono amati da tutti, ma quando appassiscono, e tutti appassiamo, sono amati solamente da coloro che li hanno amati veramente" – un pensiero che feci risuonare in quel luglio caldo e arido durante la messa per il funerale di Gabry. L’amarezza di uno scritto passato che si sovrapponeva ad un giorno reale e inaspettato, quando ogni mio sguardo attraversava solo oggetti ormai privi di vita. La contemplazione della morte dell’amata ha questo di tragico: attorno a te tutto tace e non vive più. E ogni colore ha lo splendore funereo dell’eternità dei fiori di plastica. E la scrittura passata si sovrapponeva al futuro già scritto.

 

Diversi mesi, forse anni erano passati da quella mattina, ed io mi ero risvegliato in una notte che era più scura che mai, dove quel sole non sarebbe mai riapparso, dove tutto aveva le sembianze dell’angoscia. Termine che appresi solo allora.

Al mio risveglio questa volta non c’era la speranza del futuro, ma solo la sconfinata certezza del dolore, del ricordo: un passato che mi avrebbe accompagnato per non so quanto tempo. E forse era giusto così. Ma tutto sarebbe trascorso perdendosi nel mare.

Troppi anni avevo passato in solitudine per non capire che la mia vita era ormai segnata dal rimpianto, e ciò che mi circondava era passeggero o irraggiungibile. E solo luride parvenze di miseri vermi mi strisciavano accanto in maniera soffocante e straziante. O forse tutto mi appariva così.

Trovare in questa vita una nuova ragione di esistenza sarebbe stato troppo facile per uno come me, ma non era quello che cercavo. Del resto, io aspiravo a un qualcosa che non esisteva più; forse il ritorno del passato, forse un rivivere emozioni già provate, forse una luce che mi accecasse, fino al punto da farmi obliare ogni cosa, ossia tutto ciò che ero.

Avrei dovuto buttare tutta l’esperienza ottenuta a caro prezzo dalla finestra, e non era possibile. Non potevo rigettare come un vomito gli uomini e le cose che avevano costruito un essere superiore: io non ero un semplice frutto del Caso. Intere vite avevano sacrificato i loro aliti, affinché io potessi esistere nella maniera in cui adesso ero. La loro vitalità si era spenta affinché io vivessi così, affinché mi trasformassi in quell’essere alato, capace di amare come mai altri, di spaziare attraverso la mente, il lutto, la gioia, come in questo momento riuscivo a fare.

La mia volontà di potenza era giunta sino a questo punto solo perché dopo avere analizzato le mie – o degli altri - continue morti e rinascite, ero pervenuto alla conclusione che io ero la continuazione dell’Amore che altri avevano riversato in me e solo per me. E in questo mio procedere ogni titubanza sarebbe stata schiacciata al fine di distruggere tutto ciò che si frapponesse al mio compito. Solo allora avrei potuto riposare.

So che gli amici, e gli armenti da gregge, che mi tenevano compagnia, non potevano capire, nemmeno in minima parte, perché mi ero innalzato talmente lontano che loro non erano in grado di seguirmi, né con lo sguardo, né con la mente. Erano animi vaghi, o forse comuni.

Negli ultimi tempi, diversi possessori generici di anima si erano affiancati a me, per poi sparire repentinamente, e da loro, come un virus, avevo tratto un nutrimento passeggero. Fra questi, delle donne avevano deliziato il mio corpo, e forse altro.

Giorno dopo giorno sprofondavo in una malinconia altalenante, e ciò mi avrebbe accompagnato per sempre.

Accanto a me era ritornato Lo Sciacallo, col suo carattere schifoso e schizzoide, impossibile da capire, e per questo non mi sforzavo più di tanto. Non ci sarei riuscito.

Come nel continuo ritorno dell’uguale, ci ritrovammo a lavorare e a vivere insieme. A lui il merito di avermi messo in guardia da due profonde delusioni in cui mi ero fatto male: Frumoase e… Ma io come al solito, e sfortunatamente per me, non lo avevo ascoltato. Ma non si sbagliava.

Quella mattina in cui mi accompagnò nella nuova sede di lavoro, sentivo nell’aria qualcosa di nuovo, di fulminante, di affascinante, ma pericoloso, e non potevo percepire cosa mi sarebbe accaduto.

L’edificio era enorme, quasi kafkiano, le stanze dislocate senza uno schema preciso, le persone sciatte, senz’anima, pregne di sé, meccanismi piatti e semplicissimi. Esili piante senza bellezza.

Lo Sciacallo mi presentò alcune di queste varie macchine da lavoro, poi ci rintanammo nel nostro ufficio. Dopo un po’ uscii per andare in bagno. Al ritorno passai da una stanzetta (ogni ufficio è una stanza di casa con la sua vita) aperta per conoscere degli altri colleghi.

Lei era seduta col culo enorme su una scrivania, con dei pantaloni tigrati e scoloriti dalla candeggina che sembrava dire: "io sono una tigre e mi accuccio e balzo dove voglio". Si presentò stranamente: "piacere… S." La sua mano pasciuta strinse la mia con una vigoria da uomo, mentre i nostri sguardi s’incrociavano in un punto a metà strada tra le nostre teste, per poi buttarsi negli occhi.

Restai qualche secondo a fotografarla, per studiarla e analizzarla. E lei, purtroppo, fece la stessa cosa. Vediamo cosa analizzai.

Il suo viso era simpatico, affascinante, e lo guardai come quando si osserva un bel serpente velenoso da dietro una teca, avvolgersi nelle sue spire ed ergersi bello nella sua fierezza.

Aveva dei capelli lunghi, e soffici come un purosangue; i suoi occhi, e non i miei, come spesso mi diceva, sembravano di plastica o forse gelidi, ma io mi ci tuffavo per perdermici. Le guanciotte erano piene e in carne. Il naso regolare e ben proporzionato. Il sorriso oserei dire "simpatico". E il corpo? La natura le aveva dato tutto, abbondando, o quasi… il seno era piatto come un pavimento di marmo. Ma ciò che io preferivo era quell’evidentissimo… culo.

Lei, benché odiasse dirmelo, analizzò anche me. Credo che ci piacemmo al primo sguardo, altrimenti non saremmo arrivati a "quel" punto. La intrigavo e lei suscitava lo stesso effetto in me.

Voglio dire fin da subito che la intuii tremenda, di un carattere veramente impossibile, di un’aggressività unica e irremovibile.

Però con me non era ancora stata stronza. Altrimenti l’avrei subito evitata come un essere pericoloso.

Benché fosse spavalda, troppo spavalda, e si credesse furba e bastarda, la verità è questa: il mondo le aveva mostrato soltanto l’inferno e lei conosceva solo questo! Tutto le sembrava quasi falso e doppio, nocivo; tutto cattivo e ogni uomo malvagio. Alla fine, non si sbagliava di molto. Ed io potevo essere un’altra prova dell’esistenza del solo male, forse la prova migliore e più viscerale.

Però, adesso dipendeva da lei cosa volesse dalla vita, dal destino, e quindi da me. Potevo essere una primavera, o un autunno triste. Ero un camaleonte.

L’amore, se da qualche parte esisteva in lei e lo volesse, anche se le sembrava un sentimento ancora oscuro, inesistente, possibile, ideale, doloroso, sarebbe scaturito fuori. Tigretta ne avrebbe dovuto prendere solo coscienza e desiderarlo. Io ero l’unico essere amico che il Destino aveva concepito per lei.

Adesso doveva imboccare una strada sconosciuta e diversa, ma comunque libera, o girovagare ancora, inutilmente e senza via di scampo, per le stesse piazze e vicoli già attraversati, nelle fogne come un ratto, e nella melma come un tempo. Ma questo doveva deciderlo solo lei, donna eccezionale e dolcissima, come solo io sapevo che era.

 

Nei primi giorni che passai nel mio nuovo ufficio ebbi il tempo di pensare poco, anche perché ogni istante che avevo a disposizione era rivolto a Barby. Cercavo di capire se lei provasse qualcosa, e mi sforzavo di passare al setaccio ogni minimo suo gesto, una postura, un sorriso, un qualcosa che mi desse la possibilità di capire se le fossi simpatico, se avesse un qualsiasi interesse per me.

Durante le varie pause che facevamo io andavo nel suo ufficio per chiamarla, e lei faceva la stessa cosa. Insomma, capii che qualcosa tra noi esisteva, anche se non ero certo di cosa. E forse nemmeno lei. Di certo mi attraeva tantissimo, mi piaceva il suo sorriso, il suo modo di fare scatenato e ribelle. Sembrava una cavalla imbizzarrita, difficile da domare. Ancora, non sapendo nulla di certo continuai a cercarla, da compagno di lavoro, ma noi non ci vedevamo per farci compagnia, o per bere un caffè, o fumarci una sigaretta. Noi ci cercavamo e basta.

La notte e il giorno ormai li passavo, ancora adesso, a pensare a quel viso, a quelle mani che a me piacevano tanto, alle sue battute, agli sguardi che rivolgeva furtivamente verso il mio viso, e forse verso il mio fare.

Parlammo tanto, o meglio, parlai tanto, e lei mi stava ad ascoltare come per percepire qualsiasi sillaba del mio essere. Memorizzava i miei movimenti, osservava le mie pause e il mio corpo. Gli piacevo. Ma non avevo la certezza completa. Finché non mi decisi a buttarmi: non ce la facevo più a vivere una situazione amorfa. Volevo capire. Se fare un passo avanti o uno indietro. Perciò era necessario che le parlassi apertamente. Quel venerdì, mentre il suo compagno d’ufficio non c’era, un tale da noi chiamato Taigeto, andai da Barby e cominciai a parlare. Le dissi che mi piaceva tanto, e volevo sapere se lei avesse la mia stessa impressione. Mi disse di sì, però non voleva andare oltre (le solite risposte, quando o si vuole di più, tanto di più, o quando si vuole recidere ogni rapporto: lei invece voleva andare ancora più in alto, dove brilla il sole, e dove la luce non ti lascia più vedere le cazzate). Le chiesi cosa le piacesse di me. Mi rispose il cervello. Io scoppiai a ridere, anche perché era intuibile. Ma non a tutti davo la mia mente, solo che ancora non aveva avuto la possibilità di acchiapparlo interamente. Il mio essere era talmente multiforme ed esteso in profondità, che se avesse scoperto le mie possibilità spazianti non mi avrebbe più mollato un istante. Del resto era pericoloso manifestare tutta la mia natura grandiosa in poche settimane (tuttora sono modesto), così decisi di scoprirmi piano piano, e lasciai pochi spiragli di comprensione.

Dopo il suo rifiuto ad andare oltre, le scrissi una lettera: le spiegai che io ero tutto ciò che lei desiderava e altro. Alle tredici e trenta di venerdì diciannove, l’assedio fu portato a termine e da quella breccia nella muraglia penetrai nella sua mente. Posso dire che non fui io a creare la breccia, ma fu lei, a bombardarsi dal di dentro, affinché io, visto lo spiraglio di luce, potessi entrare. Davanti ad un bicchiere di caffè, la guardai negli occhi e le dissi: "se ti sto vicino cosa provi?" Lei mi rispose: "un qualcosa di terribile, mi fai quasi paura…" Allora le presi la mano tanto agognata e dissi: "e adesso?" Senza più capire nulla ci baciammo e ci stringemmo in un rituale, che sembrava che non facessimo da secoli. Io avevo sete di lei, e lei fame di me: ci saziammo, per come in quel momento ci era concesso. E poi il resto.

Il resto avvenne in un luogo particolare, dove una sedia e un tavolo erano il nostro unico sostegno, ma a noi andava bene anche così, l’importante era prenderci e vivere tutto quello che ci potevamo permettere.

Barby riuscì a farmi lavorare nel suo ufficio, visto che Taigeto era stato dirottato ad un’altra mansione. I giorni adesso volavano e il tempo era come se non esistesse. Non riuscivamo a capire come mai ci era dato tanto. Io provavo per lei un sentimento che era un misto di passione fisica, di voluttà, e altre cose che non saprei spiegare. Un uomo qualsiasi avrebbe subito allontanato una persona con un carattere così schifoso, orribile, esasperato (lei era esagerata in tutto), ma io sentivo invece che sotto quegli aculei, e dietro a quei denti rabbiosi, a quel volto ringhioso, c’era un sorriso interminabile. Il mio compito era quello di togliere la buccia, e portarne alla luce il frutto, che io sapevo essere succoso e dolce, come ogni tanto l’assaporavo.

Ben presto però la mia durezza e la sua vennero allo scontro, ed io le diedi un ultimatum che lei non voleva accettare e mi maledisse.

Le chiesi di abbandonare tutta la sua vita passata, di fare tabula rasa col suo vecchio mondo, di tagliare le corde che la legavano alla maledizione che l’aveva trascinata nel fango. Di annullarsi di recidere ogni ignominia, di abbandonare un mondo dove tutto era prestabilito, e tutto era fango. Per rinascere sarebbe dovuta morire, per crearsi si sarebbe dovuta distruggere. Questo lei ancora non lo capiva, o non voleva accertarlo. Era troppo doloroso, ma l’unico modo per fermare la cancrena era amputare. Capisco che non era cosa facile, e forse sbagliai a manifestarglielo così presto. Ma io parlavo e vivevo così. Se non ero capace di insegnarle qualcosa, dovevo retrocedere o passare oltre (cioè, detto secondo un tipico pensiero di Nietzsche, e se tu non sei capace di insegnargli a volare, spingilo, affinché cada più presto… Nietzsche e Schopenhauer, i due filosofi che mi porterò sempre appresso).

Lei non poteva esaudirmi in quello che io le proponevo e mi chiese un accomodamento, solo che io rifiutai categoricamente e la lasciai. Mi odiò e andò via.

Non vedendola ritornare, mi misi a pensare in tranquillità, riflettei tantissimo e maturai una decisione: io l’amavo, dovevo ritrovarla.

Dopo essermi recato in vari uffici, la trovai. Era seduta sul davanzale di una finestra, in preda al Demonio, che piangeva. Provai ad avvicinarmi, ma lei cominciò ad urlare come una dannata. Era inavvicinabile. Per paura che cadesse giù la raggiunsi, e dopo vari discorsi di rappacificazione l’agguantai per il corpo e la trascinai via dalla finestra. Si mise a fare come una pazza e si avventò su di me colpendomi coi pugni sul petto. La lasciai fare, e stringendola forte e teneramente, l’accarezzai (era una belva), tranquillizzandola. Il sorriso comparve sulle sue labbra e l’amore ebbe il sopravvento.

Dovevamo ricominciare da capo e dimenticare quel maledetto giorno. Del resto io ero un lupo paziente.

Barby era una donna cresciuta in fretta, o forse una bambina che si era all’improvviso risvegliata madre, non passando da quegli stadi che dovrebbero segnare il limite di un’età e l’inizio di un’altra. Il destino l’aveva acchiappata per il collo e sradicata alle gioie di una bimba comune. Così, invece di crescere tra bambole e giochi, gesti di teneri affetti, baci di fanciulli, si era trovata improvvisamente a lottare in una giungla piena non già di animali feroci, bensì di creature feroci: gli uomini e la vita. Ciò che si capisce da grande, o forse mai, lei lo trovò davanti a sé, dietro, dappertutto. Allora le unghie si trasformarono in artigli, le mani in zampe, e da docile colomba diventò un rapace. Non più i sorrisi degli amichetti, le coccole dei parenti, ma solo sguardi infingardi, caramelle dal sapore amaro, anni trascorsi nel buio della notte. E come se questo non bastasse, conobbe me.

La cocciutaggine, la cattiveria, il tornacontismo, la brutalità, la forza di carattere, perciò non erano innati in lei, li aveva trovati girovagando per l’infinito, dove non esiste una meta, dove non è possibile avere un nido. Dove non c’è il riposo, a meno che non ci si ferma per essere sbranati. Io però non sto descrivendo un animale immondo e pericoloso, anche se lei era tutto questo, come se si trattasse di una bestia feroce da sopprimere. Del resto non era colpa mia se Barby era così. Anzi io la volevo proprio perché era così. Solo che bisognava ricondurre ogni sfumatura del suo essere in una forma meno superficiale e incontrollabile. Lei era un essere allo stato brado, selvatico, ma proprio per questo era il miglior animale da combattimento, la migliore compagna cui affidare la veglia del mio riposo, la donna che giustamente indirizzata non avrebbe avuto pari ovunque. In breve, era rara e ineguagliabile, un essere sovrastante. Ma da domare, da ammansire affinché fosse capace di tenerezze e di sicurezza, come già a volte era. Avrei dovuto lavorarci e limarla di continuo, ma con dolcezza, perché se se ne fosse accorta, se avessi adoperato l’ostinazione e gli ultimatum, non sarei riuscito in niente, se non a litigarci. E litigare con Tigretta era facilissimo. Bastava una virgola posta male, e lei me l’avrebbe rinfacciata. Dovevo essere l’uomo più paziente che io conoscessi, dovevo starle appresso, per darle me stesso. Non si trattava di un compito facile, ma era il mio compito di quel momento.

Una cosa sola le chiedevo, di darmi una mano, di cominciare a non essere più istintiva con me, di fidarsi: io le ero anche amico. Se lei mi sbranava ai primi pasti che le portavo, non sarei riuscito più a entrare nella sua gabbia per accarezzarla e poi montarla. Ogni belva vuole essere accarezzata, e poi montata. Se non c’è lotta, non c’è gusto, ma se il domatore viene sbranato, la belva che fine farà?

Con lei feci tantissimi discorsi esistenziali, forse troppi, avrei dovuto agire di più, perché Barby capiva solo la gestualità. Certo, quando le parlavo, si ipnotizzava come un serpente al suono del mio discorrere, ma era solo un attimo. Quando si svegliava ritornava ad essere lei. E ricadeva diverse volte in quello che io non sopportavo.

Era di una furbizia e di una memoria estreme. Memorizzava tutto quello che io facevo e dicevo.

Un giorno, dopo uno dei miei tanti discorsi sulla vita sull’amore e sulla morte, dopo varie parole partorite per convincerla di una cosa, mi disse: "non ti preoccupare… io sono una lupa paziente". Che potevo fare, l’adoravo.

Ma non potevo permetterle di narcotizzarmi, dovevo ricominciare a lavorarla. Il tempo era poco, e lei era un materiale pericoloso. Se non fossi riuscito ad addolcirla nel giro di poco tempo, non ci sarei riuscito più. E questo era nocivo per me e per lei. Sarebbe perita nella giungla, ed io sarei volato via. Sarebbero volate le uniche ali che il Tempo, il Destino, la Nemesi, avevano confezionato a misura per lei.

Quei giorni erano belli in ogni caso, perché eravamo insieme, e non importava la tristezza o l’allegria, eravamo io e lei.

Ma ciò che più mi importava e che ancora non avevo capito, e non so se ci sarei riuscito, era cosa veramente provasse (l’ho capito adesso: non provava nulla). Mi addentravo in questa ricerca disperatamente, perché Tigretta era insondabile, forse per paura di esporsi troppo, forse perché voleva procedere con lentezza al fine di non sbagliarsi, forse… non so. Eppure io sapevo che lei voleva delle risposte, delle sicurezze, dei passi da analizzare. Credo che non volesse sminchiarsi, e allora andava cauta verso lo schiudersi. Ed io ansimavo, aspettavo, analizzavo, mi perdevo in qualche fantasticheria, elaboravo a tempo pieno, perché la mia mente non riusciva a darsi nessun tipo di rilassamento. Era attiva a macinare frasi su frasi, gesti su gesti, e alla fine scandiva tutto quello che provenisse da lei o da noi, e persino da me. In questo stato non era difficile andare fuori di testa anche per un singolo movimento inteso e acquisito in modo erroneo. Ma che ci potevo fare, ero fatto così.

Un giorno ci fu data la possibilità di passare diverse ore nella più totale intimità, in un luogo dove non dovevamo stare attenti alle ostilità contingenti. Tigretta mi venne a trovare e potemmo stare insieme a mangiare. Conobbe i miei amici "Il Pelato" e "Mu" e tra una battuta e un pezzo di carne arrostita venne l’ora di raggiungere il monolocale che avevo designato a rifugio per quel giorno. La stanza aveva pochi arredi, due letti, una cucina con frigo, un armadio, un tavolo e qualche sedia, ma a noi serviva solo il letto. E se non c’era ne avremmo fatto a meno, del letto.

Ci spogliammo velocemente, del resto gli abiti erano solo un impaccio, anche perché non dovevamo scoprire niente di nuovo sotto i vestiti: entrambi sapevamo come eravamo fatti, dentro e fuori.

Ci adagiammo sul letto sotto la finestra, che, per non sporcare le lenzuola, rivestimmo di carta "usa e getta". Iniziammo con qualche coccola, in completa rilassatezza, ci baciammo, ci scaldammo, e poi cominciammo la battaglia. In quei momenti posso affermare che possederla mi dava una grande potenza, poiché solo allora potevo disporne come volevo, e lì si lasciava dominare come difficilmente in altri contesti mi era permesso fare. Del resto io ero un maestro, e forse, cosa ancora migliore un treno ineguagliabile a lunga percorrenza. E lei lo sapeva e mi lasciava fare. Premetto che io non ero uno che aveva in mente solo il divertimento fine a sé stesso, ma riuscivo meglio nella mia arte solo perché io provavo qualcosa di diverso dall’attrazione fisica per lei. Sì, mi piaceva anche fisicamente, nei suoi lineamenti, nel corpo, nel godere e nell’ansimare, mi piaceva quel culo prepotente. E mi piaceva domarla. Tigretta non era un sacco di patate, che potevo sbattere a destra o a sinistra, o poggiare a mio piacimento, sta di fatto che il mio passato era molto più profondo del suo, in ogni senso, e in ogni caso le stava bene così. Entrambi eravamo soddisfatti, anzi entusiasti, e non avevamo bisogno di stare a ragionare sul da farsi: ogni cosa ci andava a genio. Forse l’amore riusciva ad estrinsecarsi in noi solo allora, senza bisogno di stare come sempre sulla difensiva? E allora perché se nel darci passione eravamo così distesi e spontanei, non lo facevamo sempre?

Quanti dubbi, tormenti, lotte, se io e Tigretta eravamo fatti l’uno per l’altra, dovevamo ancora attraversare? Questo io non capivo.

 

Il pomeriggio lo passammo in estasi, prendendoci e facendo tutto quello che ci passava per la mente, tutto quello che il nostro istinto richiedeva. Stare sdraiati l’uno nel corpo dell’altra era semplicemente celestiale, ma anche in quel caso passeggero. Accarezzare i suoi capelli, le guance, guardarla negli occhi infinitamente, era un desiderio maestoso. Era bella, di una formosità e un’irraggiungibilità spaventose. Parlammo come al solito di amore, di un prossimo nido, ma ciò che più mi dispiaceva in questo tanto sperare e fantasticare, era che lei spesso e volentieri mi demoralizzava, mi rimpiccioliva, rendeva minuscolo quel qualcosa che forse provava per me. Ed io quasi mi sentivo in secondo piano, come probabilmente era, e non lo sopportavo. A stento acconsentivo con un ragionamento dialettico e irreale alle sue dichiarazioni, credo spontanee. Ma la verità era che io non volevo essere di secondo interesse per nessuno. Io desideravo con tutto l’animo, con tutta la ragione di essere il primo essere esclusivo degno del suo amore, e questo ancora non avevo voglia di dirglielo. Se meritavo di essere amato sovrumanamente, ciò doveva accadere per sua libera vocazione. Del resto io che me ne facevo di una che vedeva in me solo un rimpiazzo, una spalla secondaria.

Nelle mie ultime teorie sulla Vita e sull’Amore mi piazzavo al centro dell’esistenza, e tutto il resto, egocentricamente, ruotava attorno, secondo varie importanze e gradi. Per cui, se davo a una donna una parte importante in me, io dovevo essere per lei l’oggetto principale della sua esistenza, la cosa più importante: senza di me sarebbe stato preferibile morire o non essere mai nato.

Ci avevo messo tanti anni, lunghissimi e interminabili come l’inferno, per riuscire a sopravvivere in questa merda di mondo, con disgrazie che mi erano entrate spontaneamente da sotto per poi uscirmi dalla gola fino a strangolarmi, ma non del tutto. Se ero riuscito a ritornare in vita con un vigore maggiore e con una perfezione raggiunta grazie alla sofferenza, ciò era dovuto alla mia Volontà di Potenza, di andare Oltre. E se lei era un ostacolo alla crescita delle mie ali, io l’avrei aggirato, lasciandola (alla sua vita libera e minuscola). O le avrei insegnato a salire molto in alto con me, dove l’aria è più pura e la terra è lontana e destinata solo al moltiplicarsi degli armenti.

Dopo quel sabato non la vidi per una settimana, e il non sapere cosa le fosse successo, era per me causa di rabbia e di apprensione. Che le costava darmi una qualsiasi notizia, trasmettermi una sillaba affinché capissi se era viva, se stava male, se mi pensava, se tutto andava bene. Invece, niente! La stronza non mi faceva sapere niente. Se le avessero amputato le mani o le avessero cucito la bocca, o peggio ancora, se le avessero imbalsamato il cervello, allora avrei capito. Ma così, senza una ragione, senza una sua comunicazione, mi veniva da impazzire. Tigretta, stava tirando troppo la corda. Forse voleva questo?!

Venerdì la trovai al lavoro. Non sapevo se incazzarmi, maledirla, schifarla, mandarla a fare in culo, dirle che era una bastarda. Provai a fare il duro, ma di tutto il discorso che di giorno e nelle notti insonni avevo preparato per lei, riuscii a dirle solo "ti odio". Poi ci abbracciammo e ci baciammo. Averla lì con me annullava ogni mia sofferenza, ogni rabbia passata, ogni sentimento di screzio. Come un polipo appiccicoso non la mollai un attimo, per tutto il giorno. Cominciai ad accarezzarla, a scodinzolarle attorno. Ero felice che era vicino a me. Che era presente. Barby non poteva capire cos’è l’assenza e la privazione di una persona che si ama. Almeno questo pensavo. Ma forse stavo cominciando ad essere troppo ingiusto con lei, forse volevo troppo. Ma questo era il mio modo di amare. Amare troppo o non amare niente. Senza vie di mezzo, senza accomodamenti, in modo totale ed esasperato. Dei due in vero, il fuori di testa, la mente malata, l’esasperato, l’animale da allontanare e rinchiudere in una caverna, ero io. Non volevo solo distruggere una creatura bella e istintiva. Solo che questa volta non ce la facevo a fare un passo indietro, perché io avevo bisogno di lei. Del mio compito. Come spiegarle che io ero una creatura bestiale, un essere indegno, senza più anima, un vomito uscito alla luce dalla cloaca? Chissà cosa l’affascinava di me, che interesse potevo suscitare?

E’ vero, ero l’evoluzione di un qualcosa di superiore, di estremamente irraggiungibile, quasi inafferrabile (e infatti mai mi raggiungesti, e alla fine non era poi così impossibile: bastava cambiare un po’, o, meglio, capirmi una lacrima, solo capirmi. Ma a te interessava solo l’apparenza, non solcare la mia profondità), e sono convinto che anche per questo le piacevo. Ma si era accorta veramente di come ero fatto? Sarebbe riuscita a sopportare il mio essere, pesante, strano, lunatico? Quanto tempo avrebbe resistito alla vista di tutte le mie non comuni paradossali vastità? (vasto nel senso di senza fondo, senza sorriso, amaro nella visione di ogni futuro, benché io mi sforzassi di apparire gioioso e speranzoso). Sapeva Tigretta che ero in continua evoluzione, senza meta, senza riposo, lontano da prati fioriti e gaiezze spensierate? Potevi fermarmi, ma ti dovevi fermare con me. Aprire la mente e valutare senza schemi, con uno sforzo non consueto, arduo per altri, e forse incosciente.

Sapeva che non riposavo più nel mio letto tranquillo? E che il suono di una chitarra, strumento per me di solitudine estrema, non era la musica dolce di un allegro fanciullo, ma solo la vibrazione acutissima e il pianto di uno che si contorce per terra?! Forse secondo lei suonavo per felicità, ma io tutte le volte che prendevo una chitarra, lo facevo perché… la chitarra era la Solitudine. Eppure la chitarra poteva diventare espressione soave di due animaletti in simbiosi. Non era difficile fare cip con me.

 

Spesso me lo ripetevo ad alta voce, o lo dicevo al Pelato e a Mu: "raga’, che mi crediate o no, io adoro Tigretta! Mi piace, le voglio bene, sento qualcosa di forte. Ma che cosa posso fare, so già che è difficilissimo pensare di poterla cambiare, di riuscire a farla diventare una donna riposata e tranquilla, dedita alla famiglia, al lavoro. Io vorrei che cambiasse, che mitigasse il suo carattere aspro. Ma non vuole. E a me tante cose so che non andranno giù, perché non posso ingoiare situazioni e modi di fare che non posso concepire. Non posso inghiottire un intero mondo già confezionato e dire che lo accetto e mi sta bene così. No, ciò è impossibile. Se non cambia, non posso fare altrimenti. O meglio, io e lei non possiamo fare altro che lasciarci, altrimenti soffriremmo malamente in due".

Spesso quando le parlavo e le spiegavo qualcosa, lei se non mi credeva, o non era convinta, o se si imbestialiva con me, faceva come una bimba, quando vuole un giocattolo e la mamma non glielo vuole comprare: quando, forse da piccola, volendo una bambola si piazzava davanti alla bancarella e non si muoveva di lì finché non veniva accontentata. O peggio ancora, se non riuscivo a convincerla di una cosa e le dicevo "fai come vuoi", alzava la voce, o mi lasciava sbattendo la porta.

Tra quello che non potevo accettare c’era la "dispersione" e l’"ostinazione".

"Barby, io non sopportavo… forse troppe cose, ma in fondo non era proprio così. Se io volevo starti accanto tutte le volte che potevamo, senza disperderci con altre persone, era perché sapevo e so che la vita e la possibilità di amarsi hanno una durata passeggera: dietro l’angolo c’è sempre il tempo che ti porta via tutto senza accorgersene.

Se inorridivo quando tu mi parlavi dei tuoi amici, del tuo essere legata a certi ambienti della tua vita. Se m’incazzavo in certi discorsi che rubavano tempo a noi, era perché non volevo che tu sacrificassi il nostro rapporto per altri: ti volevo solo per me. Forse egoisticamente, ma io e te. Un giorno o l’altro avresti capito che negli altri si trova solo un passatempo, mentre il ponte proiettato lontano è solo quello che si costruisce e si attraversa per e con la propria famiglia. Io volevo questo per noi. Sapendo che alla fine si resta soli, e l’amicizia e le conoscenze, dopo un periodo che sembra lungo, ma che passa velocemente, ce le troviamo nel culo, come tutti. E tu, sempre alla scrivania a lavorare, impegni vari, cagate di appuntamenti. Ti accorgerai che il lavoro stimola e trasforma una persona, ma esso non è tutto, ma solo una piccola parte di vita. Tu non facevi l’impiegata, tu "eri impiegata"; tu non facevi questo o quello, tu "eri". Invece, tu "eri" svariate cose, ma ti immedesimavi nella tua professione al punto da non vedere altro. Come mio padre, come tutti. Cosa mi ricordo di lui adesso? Che sulla tomba sta scritto prof. ecc.?! O mi ricordo invece dolcemente che lui adorava i gatti, mi cucinava la trippa con salsa piccante, che nel giardino aveva le galline per le uova fresche, che parlava come Demostene, che la sera quando rientrava a casa mi portava i cioccolati Duplo, che guardavamo i film di Antonio De Curtis, che mi picchiava – questo era un po’ meno bello - quando litigavo con Selene, che al ritorno dai viaggi in Romania mi portava sempre libri e vocabolari?! Questo era mio padre… non la sua professione. E mia madre capirebbe. Diceva sempre che era ambizioso, e che il lavoro per lui veniva prima di tutto.

Ci sono voluti tre decenni per capire tanti sbagli, tante impressioni negative, tante sofferte esperienze, ma alla fine so che sono un uomo migliore, semplicemente un uomo, ma migliore.

Non ero cattivo con te, e non lo sarei mai stato. Volevo farti solo capire, quello che io ho capito dopo le esperienze negative, amaramente e ricevendo una bastonata.

Sai cosa era pure difficile per me? Quella tua ostinazione a non voler lasciare un mondo popolato di esseri che forse sì ti avevano aiutato, ti avevano tenuto compagnia, ti avevano consigliata nelle ore più buie che avrai attraversato, dove la luce era solo il conforto di una parola amica, ma che ora erano solo un impaccio alla tua vita, erano un legame brutale col passato, e da questo si doveva fuggire via. Ti disperdevi facendo "la consigliera", "l’ausiliatrice", allungando le braccia nel vuoto, dove non c’era niente da afferrare. Nella nebbia di esistenze disgraziate e già rovinate. E avresti continuato a rovinare la tua (e tu non lo capivi, nemmeno con me che te lo spiegavo).

Ero un lupo paziente, ma non un lupo demente.

Forse l’errore più grosso con te, era stato temporeggiare e aspettare il miracolo, ma se non lo volevi tu, era impossibile."

 

Parlerei di più di Tigretta, molto di più, pagine e pagine, ricordo infatti i minimi particolari, i sorrisi captati al volo, gli odori (ti ricordi che ti dicevo che annusavo il profumo della tua tuta lasciata sulla sedia quando tu non c’eri?), però ciò mi fa perdere in una dimensione bellissima e particolare, nell’abisso (perché lei era veramente un abisso) di un qualcosa che è solo mio e suo. E in questo do ragione a lei. Avrei voluto di più, avrei voluto darti di più.

 

Un anno era passato da quando avevo messo piede in quell’edificio dal quale ancora non ero riuscito ad andar via. Il lavoro mi logorava quanto non saprei spiegare, un lavoro di archiviazione di documenti inutili, un lavoro inutile. Ma che alla fine era pagato. E questo era per me l’unica cosa importante.

Sentivo di percorrere un periodo di transizione, dove una nuova prospettiva mi si sarebbe aperta, una luce che poi sarebbe diventata buio, come prima, come sempre. Come ogni luce. Ormai non c’erano trasformazioni che io non conoscessi, che amassi.

In questa fogna lurida e oscura non potevo maturare se non un desiderio di andarmene, una fuga verso un mondo nuovo, che sapevo ugualmente non esistere. Ma volevo partire. Sentivo la stanchezza del consueto, l’ordinario che ti logora giorno dopo giorno. Gli stessi visi stanchi e inespressivi, se non nella loro morte tediante.

Ormai avevo abbandonato persino la mia stanca ricerca di cibo e di riproduzione, per far posto solo alla mia rotazione lenta che mi portava verso un fondo sconosciuto. Ero stanco.

Non so che giorno fosse, non so se fu il sorgere di un nuovo calore.

Entrò nell’ufficio scannato dalla calura estiva con un’aria frivola e disinibita, con quella ostentazione di un corpo sensuale e una grazia pericolosa. La sua aria giocosa e capricciosa contrastava con la severità del luogo, col sussiego arido del gregge relegato in un contesto pubblico da uno stato - misero e vile.

"Ciao, io sono Deborah… posso socializzare un po’ con voi?" E socializzammo.

La sorpresa nacque dalla sua natura totalmente estranea. Estranea a qualsiasi cosa. Notai sinceramente un bel corpo agile, non ancora corroso dal tempo, con i suoi arti che si slanciavano in una danza gesticolante alla ricerca d’un qualcosa mai trovato od ormai perduto. Il sogno di ogni giardino fertile destinato a produrre, ma mai arato, mai amato.

I suoi occhi avevano lo splendore di una cascata azzurra e verde in una grotta grandiosa ed esplorata solo da pochi ricercatori. Una grotta nascosta. Affascinanti, intriganti, lontani e ancora accecanti. La luce sinistra di una belva che piange.

Le sue mani affusolate si muovevano con la delicatezza strana del ragno che passeggia non a caso sulla tela. Eburnee e laceranti, con tutto ciò che afferravano, ma anche calde e sinuose con tutto ciò che avvolgevano. E come diceva lei "zampette" da accarezzare, zampette da stringere e avvinghiare. Zampette con cui giocare.

Cominciò a parlare di sé, del mondo, di orizzonti ricercati e da lei raggiunti, di spiagge calde nel dolce far niente. Un mondo dove il sole ti nutre con una terra carica di frutti spontanei e con un mare che aspetta solo te. Un mondo che non c’è. Ma lei c’era ed era reale, almeno quanto lo è un sogno che puoi raccontare. Il giorno dopo e i giorni a venire.

Notai la fanciullezza felina della donna che ripercorre il passato e recita se stessa, in un copione ormai logoro nella sua ripetizione, ma sempre fresco e accattivante per un animale rapace e acuto. Mi stupì. Lei così ancora bella, così ancora sensuale, così ancora di un succo dissetante e…

Di lei non sapevo alcunché, e quello che seppi dopo si rivelò solo come un riscontro di ciò che avevo immaginato. Cioè il gioco di un animo alla continua ricerca dello stupefacente, tuffato nell’affannoso ardente anelito irraggiungibile di un mostro che ti uccide sempre, un mostro chiamato Amore. Lei, sensibile e dolce voleva l’amore. E lo cercava, lo inseguiva, a volte lo acchiappava, e sempre le sfuggiva. Con la sua scia succulenta e velenosa, di un sogno che mai si raggiunge, se non quando sta per svanire, potente e doloroso come ogni sogno bello. L’amore, gioco amaro, ma il solo possibile.

La rividi in circostanze occasionali, accompagnata spesso da un’amica, una collega o qualcosa di simile. "Trezzulella". Sua coetanea. Appariscente anche lei, giovinastra anche lei, sensuale anche lei. Ma con delle tonalità più scure o più marcate, le stesse che separano una pantera da una gatta, un’aquila da un chioccia, una cavalla araba da una quadrupede sarda. Il giorno e la notte, la luce e le tenebre, il sì e il no. Ma simpatica anche lei. Comunque diverse.

Ancora non sapevo la sua età, almeno quella certificata da una burocrazia che archivia e analizza tutto. Il tempo invece me l’aveva già rivelata. Ma questo non importa, non importava a me che non valutavo la bellezza secondo dei parametri omologati e convenzionali, operazioni riservate solo a chi non ha pensieri propri.

Aveva quarant’anni. Cioè un numero che ti dice tutto quello che può spaventare o attrarre. Un numero che mi spaventava e mi attirava. Ma solamente un numero. Il resto, la rimanente totalità era sovrastante, come tutto ciò che dice "io sono ciò che non hai mai bevuto". Le Colonne d’Ercole. E quindi mostri o una nuova terra?

Avventurarvisi era pericoloso, ma la sete di conoscenza era tanta. Troppa per uno che aveva conosciuto solo galline, cavalcato somare, allevato gattine domestiche.

Non è facile descrivere lei, una che conosci solo riflessa da uno specchio, quello del suo ideale… tuttavia comincerò dal ricordo frammischiato al vero, dalle percezioni rielaborate senza ordine di tempo.

Per avvicinarmi a Deborah le regalai un libro, che poi avrebbe raccontato anche di lei. Ed era questo. Un libro dagli spazi bianchi, da riempire, fatto di sangue e dolore. Una vita.

Passarono dei mesi e lei forse era scomparsa in quell’estate che allontana chi è vicino, e avvicina chi è lontano. Le migrazioni degli uomini che cercano il proprio passato, lasciato chissà dove e ogni tanto riesumato, o che cercano chissà cosa, e se lo inventano con palme e pescecani, con religioni che aspettano solo noi, testi sacri in cui affondare l’analisi di un’introspezione che ti rivela finalmente tutto, quello che hai sempre voluto, per dirti "io sono il tuo dio, io sono la tua verità", quel logos che finalmente aspettavi. Un’altra metafisica, un altro desiderio di chiarificazione dell’esistenza. E per dirlo brevemente: ancora delle stronzate.

La ritrovai abbronzata come lei voleva: bella e solare, fresca e sorridente, con le rughette nascoste da uno strato di sole. Al bar, sola, o forse in compagnia di un signore pingue, di quelli che non hai mai visto in giro, se non seduti dietro ad una tavola, con le bretelle rinforzate che a stento tengono su dei pantaloni fatti su misura, un bel boccale di vino rosso, e nel piatto gli avanzi di una bestiola sbranata da poco.

Lei stava mangiando un panino pugliese, stretto tra le manine che l’offuscavano. Ci teneva alla vita snella, alla pancia che non aveva, ad una forma che controllava ovunque ci fosse uno specchio, una bilancia, un misuratore di bellezza. Sì, così era bella, come forse mai prima, e sicuramente mai più dopo. La stasi tra l’imperfezione e la decadenza.

Mi salutò con un bacetto da compagna di scuola, due vecchi amici che si son perduti per sempre e all’improvviso si son ritrovati in un posto qualsiasi, in un anno qualsiasi. Le chiesi: "Deborah, mi puoi togliere una curiosità?" Lei mi esaudì. Mi disse la sua età. Se avesse avuto dieci anni in meno mi avrebbe amato. Risposta postuma ad una domanda postuma.

Cos’ero allora per lei?! Un corpo ben modellato da guardare? Un viso giovane da carezzare? Un’energia da incamerare? Un tempo da ritrovare? Un cervello laureato da portare a spasso e alle feste di vecchie donne ristrutturate? E chi lo sa. Magari un frutto immaturo da riscaldare, in una nuova serra pregna di un fertilizzante sicuro di sé.

Domande, tribolazioni, nuove interrogazioni, pensieri soavi e peccaminosi in quest’unica esistenza, dove il dubbio e la ricerca oltrepassano l’impossibilità del fermarsi e del godere quel che non si può mai tenere in pugno. Questa era la mia vita: non racchiudere dei sogni in una gabbia. Ma sperimentarli e amarli, già sapendo che l’effimero è dietro il sogno. E che il sogno è solo un attimo che si intravede, e si perde nel momento stesso che lo hai sfiorato. E se te lo ricordi ancora, forse è ancora peggio.

Io e il Pelato andammo via (eravamo rimasti soli, senza il nostro Mu. Gli avevano tagliate le ali).

La rincontrai innumerevoli volte, soliti saluti, baci, lavoro, fidanzate, incidenti, soldi che non bastavano mai, freddo e nuove pianti. Adesso aveva letto il libro, tormentoso, angosciante, carico di vanità, interessante. Le piacque. Quel ragazzotto triste dagli occhi di plastica, un po’ vanesio e un po’ puerile, quel ragazzotto dieci anni più…

Parlammo, tanto, ridemmo, in un gioco dolciastro. Ci cercammo. Così, sospinti dal vento. Mi presentò a varie creature sue colleghe, giù per le scale in labirinti fatti da stanze piene di polvere, lerciume, fogli e plichi accatastati. Labirinti viventi. Volevo conoscere ciò che era, dietro quella maschera, quelle trecento maschere. Mi sembrò circondata da strani tipi, donne rovinose, impalcature semoventi, ratti con capelli biondi, un miscuglio di demoni e divinità sotterranee, dove si ringhia col sorriso di bocche maligne. Tutto accanto a lei era tetro, buio, avido di sangue fresco. L’immortalità del pipistrello e del vecchio. Lei no. Sapeva di eterna bambina.

Deborah, nomignolo o altro che ancora non ho capito, era di una vanità superiore alla mia, ma mentre lei era alla ricerca della conservazione io ero all’inizio – forse qualcosa più in là – del mio annullamento come essere dozzinale, in quella continua trasformazione che fa sì che un essere raro si spogli delle sue normalità, per far posto a ciò che è: il sublime, il fragile, l’irraggiungibile, e quindi l’impossibile.

Tra noi l’attrazione era un fatto estetico: ciò che fu bello e ciò che sarà bello. E in questo divenire ci sarebbe stato un attimo, una breve esitazione della natura, dove anche il lontano e il vicino si attraversano e trattengono il respiro. Un attimo: il bacio dell’aquila allo scoiattolo.

Dopo tanti sorrisi, caffè dolcissimi, fioriti passi l’uno accanto all’altra, venne il tempo delle domande che cercano l’anima, la profondità di quella macchina che muove la bocca, il pensiero, gli occhi che scandagliano.

Deborah accese il suo motore diesel, avanzando lentamente coi suoi cingoli d’acciaio, accerchiandomi. Puntò il suo cannone su di me, ed io mi trovai sotto tiro, ormai disarmato di fronte a quella forza compatta. Non mi sparò, ma evidentemente in qualche modo mi colpì, e sempre fuoco era. Caldo e attraente come ogni fuoco, caldo e distruttivo come ogni fuoco. Il patimento di un’anima che è arrostita, da una nuova passione.

Questa volta però frenai me stesso, a un passo dal precipizio, che lei era. E ci si moderò. Forse rallentammo, in un mondo dove si è ancora schiavi del pensiero altrui, dove ci dicono: "tu vai contro, tu vai oltre!" Dove gli analisti del giusto e delle viscere stabiliscono che un dirupo è uno strapiombo, e non un punto dal quale spiccare il volo. Dove il mare non è un contenitore di pesci, ma di sale. E il sole è la causa del deserto, e non la luce più bella. Denigratori della vita, distruttori del sentire. Quelli che catalogano: homo sapiens, puer aeternus, equus caballus. Viliores homines totius mundi. E studiano la lingua giapponese solo per essere diversi dagli altri: "io ho passato cento anni della mia vita a interpretare il codice etico, ammesso che esista, dei Protoindonesiani…" e chi se ne frega. In un mondo dove tutto è schedato, scientifico, in un mondo pieno di scopi. Gli dei della verità.

Occorreva farsi strada tra tutte queste spade che recidevano ogni muoversi, aguzzini che erano preposti alla salvaguardia della convenzione, al di là della quale esiste solo la perversione della illogicità, l’anormale che è ingiusto. Eterna divisione tra bene e male, morale e amorale. Morte e Vita.

Questi pensieri e titubanze spaventavano. Noi.

Ma un’altra infamia ancora poteva frantumare il nostro annusarci. Decisi allora di manifestarglielo, di getto, senza darle la possibilità di intuizioni preparatorie. Andai nel suo ufficio. Chiusi la porta.

Non si scompose, ma la sua pelle si irrigidì, mentre il suo stupore la teneva nella tranquillità più irreale. Mi guardò con occhi di chi o non crede, e allunga le orecchie fino a tapparti la bocca, o pensa di essere presa per il culo – come quello che oggi mi piazzò sulla scrivania. Compatto, solido, e di fattura artistica. Un bel culo.

Per un giorno o due non capì. Forse cercò di dare una spiegazione logica all’illogico, e comunque era un animale di razza. E ritornò.

Un giorno, per una posa davanti ad una macchina fotografica (cioè l’estasi per lei e per me), la sua manina dalle unghiette affilate prese la mia, avviluppandosi in una compenetrazione calda e giocosa. Fingemmo un’unione affettiva, ma le zampette calde non erano una visione irreale, bensì altro. In quel frangente, un irrigidimento mi attraversò il corpo, giungendo dove si raccoglie il desiderio sanguigno, che poi esplode nel suo vigore. La sua mano poggiata sul mio petto accelerò il fluire di una forza assurda che gridava superba.

Stavo per venire via da quella strana condizione che separava la nostra distanza: come due uccelli che prendono il volo insieme dallo stesso albero.

Sinceramente spesso la immaginavo distesa sul mio letto, nella parte sottostante al soppalco, che abbracciata al mio corpo mi toccava il petto, carezzandolo con un tocco sincero e voluttuoso, alternando la dolcezza all’aggressività: tirandomi i capelli lunghi e corvini, con le unghie che mi conficcava nella schiena, su cui si aggrappava nel nostro amplesso selvaggio e penetrante. Poi incrociavamo le dita delle mani e ci baciavamo avidamente nel lungo ondulare dei nostri corpi. E lei gioiva come non mai, con me che la possedevo e la riscaldavo.

Chissà alla fine quali erano i suoi pensieri, cosa c’era dietro a quei sorrisi, a quel ricercarmi, forse un’appassionata voluttà di giocare, giocare e basta?

Sarebbe troppo semplice pensare che uno si mette a sbucciare le cipolle, taglia le carote, fa un ottima salsa di carne trita, butta giù la pasta (maccheroni) e poi non se la mangia. Non avrebbe avuto senso pensarsi, telefonarsi, immaginarci, studiarci. E certamente era come io speravo, o come andarono in effetti le cose. Ma come andarono le cose? Ecco cosa le scrissi: "Ciao Debora, ti scrivo per dirti che oggi mi hai di nuovo stupito, ma questa volta in negativo.

Pensavo che accettassi la vita senza inibizioni o altri moralismi, o dinieghi derivanti da chissà cosa.

Ti scrivo per dirti che la vita per me si svolge secondo degli imperativi categorici: o è giorno o notte, o luce o tenebra, o è sì o è no. Non ho mezze misure. Tu hai scelto il no. Rispetto quello che hai deciso. Quindi io devo seguire la negazione, e perciò troncare ogni rapporto con chi mi pone degli ostacoli, o muri. A me il gioco non piace senza una meta. Tu continua a giocare. Continua a giocare con la tua vanità, col tuo esibizionismo, con gli altri, col tuo corpo, con la tua vita. Ben presto ti accorgerai che la senilità ti spalmerà sul viso lentamente (e nel tuo caso ha già iniziato a tracciare il solco) i segni di quello che pagherai, anche se a te non sembra adesso. Ma se ti siedi su una poltrona, o se ti guardi in giro, se guardi l’orologio, se un attimo riesci a riflettere, ad allontanare da te ogni gioco, comincerai a capire che il tuo fiore è giunto alla sera. Mi dispiace essere cattivo (o schietto) con te, ma io finisco di giocare. Non mi piace ciò che non ha senso, ciò che è fine a se stesso, e per essere succinto: il fatto che tu non voglia scopare con me. Coltiva solo ciò che ti circonda, e magari potrai giocare ancora per qualche tempo. Forse. Ti auguro di trovare tanta serenità, di alzarti un giorno e dire: Deborah non vale niente senza mostrare le cosce. Debora vale di più senza mostrare le cosce".

Un giorno la invitai a casa mia, quelle due stanze che avevo destinato a rifugio, lontano dal mondo, o lontano da me. Pochi addobbi per un albero di Natale caloroso. Col mio sacco d’allenamento, il minicesso, il letto a castello, una scrivania, e altre poche cosette.

Dentro vi respiravo il sapore ardente di un vulcano, la malinconia di un’esistenza solitaria, l’eternità di un tempo che mai vedrò. Una bara grande o la certezza di ciò che mi mancava veramente. Sentivo la stranezza di vivere solo per me, come una dannazione che ormai mi portava a non contagiarmi con gli altri. Ma era questo quello che desideravo veramente nella mia calma disperazione? Potevo condurre mesi e anni così, sapendo che fuori c’erano colori accesi, donne che compravano fiori, bar pieni di viva comunicazione, profumi di raggi solari?! Che ci facevo lì, esiliato da tutto questo movimento, nella mia statica pensosa morte cosciente? Dov’erano finite le mie emozioni, le passioni di quel bimbo che giocava il giorno e la notte con altri bambini, col trenino, che adorava le scampagnate, la fiducia, l’amicizia, il passare il tempo con i grandi amici. Dov’ero finito?

Deborah venne con i suoi lunghi stivali che la slanciavano ancora di più, venne con la sua splendida essenza di donna in fiore. I suoi occhi parlavano ancor più di me, parlavano di un tempo che non esiste, dove il mondo viene chiuso fuori da una porta di un quarto piano, d’un edificio vecchio, in una città vecchia. La grotta buia illuminata da una torcia. E allora vedi uno sgabello che diventa sedia, un letto prato, e un animale un uomo. Le offrii un caffè nero, poi… mi svegliai.

 

 

Epilogo

 

Un suono martellante, continuo, insistente, pesante, infinito mi riportava alla luce del giorno. Il telefono mi avvertiva che lei mi cercava: una tipetta lontana, insondabile, oscura, misteriosa, cattiva, con gli occhi da aspide e il naso da falco, insomma una stronzetta dolcissima, voleva sentire la mia voce. Cominciò a parlare con un "ciaooo" lunghissimo, che equivaleva a "sì sono contenta che mi hai risposto, e quindi non ti attacco subito, però pezzo di merda e stronzo poi ti aggiusto io". In effetti mi aggiustava come voleva lei. Prima mi faceva salire sulle vette di montagne altissime, entusiasmando il mio ardore verso di lei, proiettandomi in un’euforia ansimante, e poi mi buttava giù. "Joe, io sono stata sempre sincera con te, non ti ho mai illuso, ti voglio bene, tvb; Joe ma noi siamo amici, e bla bla bla". Che palle! Mi rimproverava forse la mia esistenza.

Il fatto di avermi conosciuto, e pian pianino di essersi "intrippata" di me, come mi disse quel martedì di primavera, per lei era un dolore che non sentiva più da tempo, quel dolore che i poeti e i ragazzi chiamano Amore.

Tutto questo la rendeva viva, la risvegliava da un torpore in cui era caduta da tanti anni, la riportava in superficie a contatto con l’aria. E un respiro profondo la smarriva. A tratti era percossa da ripetute crisi d’identità, non capiva più se quello che aveva voluto per un passato lunghissimo fosse ancora possibile nel futuro: insomma adesso vedeva che esisteva un futuro. Diverso, possibile, ma sconvolgente. Per acchiapparlo avrebbe dovuto iniziare una lunga lotta, forse quella di una formica contro il vento; avrebbe dovuto distruggere secoli di progetti raggiungenti il cielo, ma che ora vacillavano in preda ad un uragano oscuro. Forse sapeva che distruggere significava un po’ morire. Ma per rinascere bisogna pur sempre perire: questo io le dicevo. Il mondo che la circondava le aveva innalzato barriere che la proteggevano dal vero, dal possibile, dal vario, e lei, piccola bimba, questo lo sapeva. Sapeva che al di là della muraglia c’erano i lupi e le aquile, ma sapeva anche che i lupi e le aquile erano spiriti liberi, anime in fondo solitarie, esistenze lontane dalle pastoie e dai recinti, in cui spaziare è circoscritto. E la libertà spaventa, soprattutto chi crede di essere libero, e libero non lo è mai stato. Essendo legato da una corda lunghissima che simula la possibilità di spaziare. Ma chiedete ad un cane che pensa del guinzaglio o della corda…

Era un pomeriggio di fine novembre, o comunque autunno, e mi trovavo a perdere un po’ di tempo in giro. A dire il vero fu lei che volle conoscere me. Presto, ossia nel pomeriggio stesso, si instaurò tra noi qualcosa di particolare che poi divenne altro. E forse altro ancora. Il suo modo di essere mi avvinghiava a sé, riusciva a trasmettermi, come se mi fosse accanto, delle sensazioni reali, sconvolgenti. Ci piacemmo, per cui ci scambiammo i numeri di telefono. Quando la richiamai, mi rispose con una voce da bambina, calda, sensuale a tratti categorica e feroce. La voce di una belva dolcissima, che mi lacerava il cervello e si abbeverava del mio sangue.

Passarono settimane e mesi, l’autunno e l’inverno, e noi eravamo sempre in contatto, sempre a cercarci (forse mi cercava di più lei). Non so cosa vedesse in me, cosa sognasse, che sensazioni le scatenassero i miei soliloqui, le mie parole, il mio modo di essere. Non so che cosa fossi per lei. Il mio fantasticare poteva spingersi oltre le effettive aspirazioni possibili, ma notavo che anche lei giocava alla stessa maniera. Certamente non aveva mai conosciuto uno come me, né pensava che esistesse. Forse mi vedeva agile, alato, intelligente, giocherellone, caldo, cucciolo e forte allo stesso tempo. Mi idealizzò, per come poteva riuscirle. Credo che mi costruì più celestiale di come fossi.

Ma la verità era un’altra. La verità che lei voleva e che alla fine dovetti dirle, per non continuare a mentire, per non essere un vile. Solo che ciò avvenne quando potei fidarmi completamente. A dire il vero, cercai di fuggirle, di rendermi introvabile, di fare il bastardo, di spingerla a lasciarmi perdere: avevo cominciato a volerle bene! Non volevo che si affezionasse ad uno come me, altrimenti il gioco sarebbe diventato guerra. Con se stessa e col mondo.

Essere capito da una moltitudine sarebbe stato difficilissimo (e io nemmeno lo volevo); riuscivo ad aprirmi solo a pochissimi (eletti o sfortunati?!), e da allora divenivo per loro fonte di sfortuna. La mia intelligenza superiore mi spingeva a non affezionarmi a nessuno, e nessuno si doveva affezionare a me. Troppo tempo avevo passato nel dolore. E l’amore era la gioia e il dolore più grande che conoscessi. Ancor più della morte, o quasi. Il suo nome era bellissimo, e contrariamente a quel che le promisi, non potei mutarlo o travisarlo in questo scritto. Tentai pure di anagrammarlo. Ma non volevo. Lei era Lavinia. Un fiore splendido e profumato. Gaio e delicato come ogni fiore. Fugace come ogni fiore.

Dietro la sua corazza di scorpioncina tosta e di una forma mentis invalicabile, quel viso da marescialla (come la chiamava la mamma), quell’iceberg apparentemente freddo e calcolatore, quella sfinge enigmatica, si nascondeva una sensibilità stupefacente, una sensualità tempestosa, una creatura rara. E la cosa peggiore, per me e per lei, è che io la intravidi.

Ma dove stavano gli ostacoli? Non lo so. Forse non ce n’erano. Apparentemente il mio mondo e il suo erano lontanissimi. Apparentemente lei era fidanzata da anni (dalla fotografia che mi fece vedere, notai una specie di yeti, forse magari dolce, ma una bestia). Apparentemente: troppe stronzate, Lavi’.

Qualsiasi cosa è abbandonabile in questa vita: lo è persino la vita. E ora che, per la prima volta, lei trovava un ragazzo che la intrigasse, che le piacesse, che la entusiasmasse, che la rendesse donna e viva, che cosa faceva… tentennava. L’amore, che una serie di circostanze le aveva piazzato di fronte al suo viso, lei lo rimpiccioliva in vocaboli come amicizia, affetto, cani, intrippamento, e cose del genere. E ciò mi dava un fastidio incredibile, l’avrei scassata. Finalmente le nostre strade si erano intersecate, e lei le allontanava. Non avremmo più potuto avere una seconda possibilità. Se avessimo litigato veramente, anche una sola volta, avremmo perso per mancanza di forza di volontà tutto ciò che ci era concesso quasi per caso. Ed io ne soffrivo: aveva gli occhi troppo belli.

Ormai ci sentivamo ogni giorno, più volte al giorno, ma eravamo comunque lontani: lei nel profondo sud io nella parte opposta. La sua era una bellezza tipicamente mediterranea, e solare, distante dal mio ricercare, occhi azzurri e capelli biondi, ma proprio per questo, essendo il contrario di ciò che razionalmente desideravo, era l’ideale di ciò che volevo. Era il reale (o irreale).

I miei discorsi sui coccodrilli e gli gnu, le aquile e i lupi, la selezione naturale e la continuazione della razza, l’affascinavano. O forse l’affascinava tutt’altro. La donna è sempre un rebus, e Lavinia lo era ancor più. Spesso mi faceva incazzare e io la maltrattavo, chiudendo repentinamente la conversazione in modo brusco, ma subito me ne rammaricavo. In fondo, era una brava ragazza, e per questo non sapevo ancora se persistere nel mio andare avanti o se retrocedere. Tanti dubbi e tante difficoltà. Io le chiedevo solo un sì o un no.

Se una donna vuole, può diventare per un uomo un propulsore talmente esplosivo da non avere pari. La donna è un propellente. Dilania o ti fa volare. Senza ali.

Ci incontrammo per la prima volta in dicembre. Un bar, un pranzo velocissimo in una bettola, che per lei era un ristorante, a guardarci negli occhi, di sfuggita. Visitai la casa dove abitava con delle colleghe d’università. Ragazzine venute da paesi pieni di pecore e cavoli, tuffate in una grande città alla ricerca di una propria trasformazione, come se monumenti, chiese, scuole, palestre esercitassero su di noi un’impressione atta a farci mutare aspetto e carattere. Delle pietre, dei fogli di carta, dei vecchi pedanti fossilizzati nelle loro cattedre, hanno questo potere?… non lo sapevo.

Mi prepararono un caffè, ci fumammo qualche sigaretta in un salone grande e tetro, privo di anima. Parlammo di due trecento cazzate. Poi io e lei andammo nella stanzetta che divideva con un’amica che non c’era. Mi sedetti sul suo letto, sulle lenzuola ancora pulite della bimba. Non l’avessi mai fatto. La Marescialla mi rimproverò: il mio culo oltraggiava la culla delle sue gote candide e pudiche. E il pavimento era pieno di batuffoli di polvere. Ma vai a cacare…

Ascoltammo musica irlandese, parlammo e scrivemmo. Ci guardammo anche. Ma ancora non era scoccata quella scintilla che potesse avvicinare la mia mano alla sua. Ed io avrei tanto voluto baciarla, coccolarla, stringerla fra le mie braccia. Ma lei niente: ero un amico. Un cane da compagnia. O pensava che io brucassi l’erba, o abbaiassi in un giardino di una grande villa.

Diverse ore insieme, ma quasi da estranei. Non si smuoveva da quel piedistallo. Ci salutammo, e andai via. Qualche giorno dopo ripartii per il nord, quella terra vaga e caotica, ma che mi aveva restituito nuove ali e nuove gambe. Di bello non aveva nulla, se non l’anonimato, e le piccole conoscenze che ti facevi in un mondo ristrettissimo nella sua grandezza. Incrocio di razze, di destini, di pesci e pescecani.

Continuammo a sentirci, questa volta un po’ di rado, anche se lei spesso mi rintracciava. Io in quei mesi appunto tentai di scrollarmela di dosso, ma non perché fosse una zecca vampiresca, bensì perché quel periodo di affiatamento che mi atterriva stava per giungere. E giunse. I miei sforzi non servirono a nulla. La bimba era ostinata e tenace.

Si avvicinò così la data fissata per il matrimonio di mia sorella: dovevo ritornare nella terra del sole.

Il viaggio fu interminabile, ma ancora di più lo fu nel ritorno.

Dopo mesi di lontananza rivedevo la mia casetta di campagna, col giardino pieno di fiori e alberi, cieli infiniti e un’aria superba, su quel vulcano grandissimo, pieno di luce pieno di malinconia.

Zii e cugini parteciparono alla cerimonia, amici dello sposo, e una mia vecchia amica, molto giovane: Chiaretta. Splendida nel suo tailleur, e nella sua freschezza luminosa.

Tornando a caso trovai un messaggio della sfinge. Qualcosa che mi diceva che lei non era la mia ruota di scorta, che la chiamavo solo quando decidevo io, e simili attacchi. Era incazzata perché non l’avevo neanche sentita quel giorno. Ma potevo mai in un giorno simile avere la testa quieta?! Non gliene fregava. Cercai di chiarirle il tutto, ma lei arrabbiata e altezzosa mi disse che non dovevo spiegarle nulla. Insomma, si era imbronciata come una bambina, o come un serpente. Con un modo di fare che mi faceva incazzare come una bestia. La mandai a quel paese, le dissi di dimenticarmi e di non chiamare più.

Passò un giorno, e lei testona si fece viva con un messaggio. Mi sforzai di non telefonarle, ma non ci riuscii. Facemmo la pace come cuccioli che possono ancora giocare insieme.

Il martedì della mia partenza sarebbe venuta a salutarmi alla stazione. Ma le cose si svolsero diversamente. Uno zio ebreo invitò lei e sua madre a trascorrere quel lunedì di festa nella sua casa sul vulcano. Cioè, nel mio stesso paese. Il destino ci diede la possibilità di incontrarci. E ci incontrammo. Con uno stratagemma si fece accompagnare dallo zio in un posto prestabilito, dove io e mia sorella, che per allora s’improvvisò sua collega, andammo a prenderla. Lei sorrideva sotto i baffi.

Occhiali da sole, capelli tinti sul biondo, blue-jeans, un corpo agile e circospetto si presentò ai miei occhi. Lasciai mia sorella e il novello sposo a casa, e poi ripartii con lei. Con lei accanto, era una stagione con migliaia di colori, e il mio stato emozionale era quasi incontrollabile. A stento esercitavo un controllo sul mio gioire. Lei mi procurava un’infinità possente: mi sentivo forte e vigoroso, in preda ad uno stato catastrofico e onnipotente. Con Lavinia mi sentivo un dio.

Andammo in un bar e poi facemmo un giro in macchina. Ma Lavinia volle presto andare a casa mia. Conobbe mia madre e Pucci, il cagnolino di mia sorella. Poi passammo tutto il tempo nella mia cameretta. Le feci vedere la casa di campagna, che non so se le piacque (di quello che ti dicevo e ti facevo vedere non ti piaceva mai niente, te ne stavi sempre sulle tue!). Entrambi eravamo imbarazzati, comunque ci sedemmo sul letto l’uno accanto all’altra. L’abbracciai, ma lei si svincolò in un primo tempo, poi vide che la cercavo teneramente e si lasciò coccolare. Il suo corpo era energico e compatto, le sue mani fredde (ma poi si scaldarono). Giocammo, ci stringemmo, d’un tratto l’abbracciai portandola sul mio corpo viso contro viso. Poi avvicinai la mia bocca alla sua, non toccandola, dicendole che non doveva preoccuparsi, tanto non l’avrei baciata. Infine all’improvviso la baciai. Le nostre labbra si avvinghiarono e si lasciarono andare. Quell’iceberg diventò lava, che mi bruciò dentro e fuori straordinariamente.

Non andammo oltre, forse perché il tempo a disposizione era poco, forse per non consumarci in fretta, perché ci volevamo prendere poco alla volta. Forse perché lei non lo desiderava. Io, invece, l’avrei presa fra le mie braccia e l’avrei baciata dai piedi ai capelli, la sentivo mia e volevo averla, volevo fare l’amore (e invece tu avevi il cuore a forma d’incudine).

Fu un pomeriggio fantastico, da fiaba, indimenticabile. Poi la riaccompagnai dallo zio.

La sera ci telefonammo, cercandoci con avidità. La cucciola mi raccontava che per non essere scoperta dalla mamma mi parlava sotto le coperte. Avrei voluto vederla nel suo pigiamino.

L’indomani ripartii. Alla stazione avrei tanto desiderata vederla, mi bastava un minuto, un minuto i suoi occhi. Ma non venne. Il suo grano non era maturo per la mia falce. Sul treno sentivo la morte nell’anima, e le mie viscere erano corrose da un male atroce che mi rendeva astioso e iracondo.

Una ragazzina aveva questo potere su di me?! Uno che aveva vissuto in terre infestate da animali feroci, soffriva per il desiderio di chi mi poteva insegnare solo a coltivare le rose, e forse neppure questo. Come spiegarle che era primavera?!

Può darsi che davvero ti abbia fatto sentire donna e viva, ma ora che eri rinata nella tua età più bella, perché non imprimerti uno slancio ancora più energico?! Perché non tuffarti perennemente in questa tua nuova forza che usciva alla luce?!

A volte ti consideravo vile e immatura, a volte donna, ma allora non sapevo – e neanche adesso – chi eri.

Ma così non avremmo potuto continuare per molto tempo ancora. Bisognava dare una svolta alle nostre vite, concederci di più, stringere le mani e affrontare un mondo che non ci voleva felici.

Eppure tu non eri ancora pronta per cogliere appieno l’opportunità che avevamo. Non capivi che la vita dura uno sguardo, e bisogna afferrare tutto e subito, anche buttandosi in quel che sembra buio, e invece è il guscio di una lampada infinita.

Lo so che per te ero quasi uno sconosciuto, ma questa era solo una tua risposta per arginare l’avanzata dentro di te. In pochi mesi, in pochi attimi, due corpi che si cercavano non avevano bisogno di un notaio. Entrambi ci amavamo. Ed ero solo io che te lo dicevo.

Non so che giorno sia, se è passato del tempo, oppure no. Non so se tu sei lontana da anni, oppure nella cameretta attigua a leggere un libro. Non so se siamo a letto a fare l’amore, o se tu dividi la vita con un altro.

So, solamente, che allora mai mi dicesti ti amo.

 

 

In quel pomeriggio di inizio autunno una ragazza, che oltrepassava la trentina, fu assunta nel nostro gruppo di lavoro. Occhi scuri, profondi, forse vitrei, corrosa in faccia da un qualcosa che ti rode dentro fino a salire alla superficie. Ma ciò che traspariva fortemente dal suo corpo di donna dozzinale era la sua quarta di reggiseno. Fui cattivo con lei fin dall’inizio, se cattivo ha il valore di spontaneo, ingenuo. E cattivo lo sono tuttora con lei, appunto, spontaneo.

La qualità negativa che notai subito era la sua curiosità. Lei voleva sapere sempre tutto, faceva un sacco di domande, guardava sempre cosa facevano gli altri. Era un’impicciona, e per tutto questo mi faceva schifo. La consideravo una merda, un essere calcolatore, opportunista, un serpente da schiacciare al più presto o da evitare. Tendeva sempre le orecchie a destra e a manca, si intrufolava nei fatti degli altri, voleva dare consigli, si riteneva una donna vissuta e affascinante, una che aveva cavalcato diverse situazioni strane e poco raccontabili.

Lei sapeva tutto, lei aveva attraversato l’Africa arida a piedi, lei conosceva tutte le posizioni, lei era dolce, affettuosa, brava, profonda, interessante, romantica. Lei era un fiore, lei sapeva danzare, cucinare, cantare, lei aveva scoperto la luna. Insomma un misto tra la Madonna, Mata Hari e Oriana Fallaci.

Rifiutai la vicinanza di questo essere infido con tutta la mia volontà. Un giorno però volle parlarmi. Mi portò vicino alla finestra del suo ufficio. Tra dieci minuti dovevamo andare via. Cominciò a fissarmi col suo solito fare, col suo sguardo indagatore. Io le dissi che lei non poteva permettersi di guardarmi negli occhi, per cui doveva abbassare lo sguardo e guardare altrove. Mi faceva antipatia. La vedevo come un elemento schifoso e viscido.

E invece bastava un vetro rotto, di una macchina scassata, per farmi capire che tutto quello che ho scritto fino adesso fosse in quegli anni solo la percezione magra e stupida di uno che non aveva capito proprio un cazzo. Uno cammina per cento mesi per la solita strada, sputa sempre nello stesso posto credendo che ci sia una merda, e poi un giorno che inciampa e ci cade dentro scopre che per tutte quelle volte aveva sputato su un fiore bellissimo. E tutto per un caso, e tutto perché dei figli di puttana mi avevano scassinato la macchina. Vorrei che mi rompessero tutte le sere le palle, se ciò valesse a trovare anche un’altra sola amica come può essere Laura.

Eppure, era una delle poche allora, quando ero accecato dalla passione per Tigretta, che mi diceva: "Barbara non fa per te, è uno spirito libero, una casinista, una belva da dimenticare, e altro…". Io allora però non mi accorgevo e non volevo capire niente. Barbara era una forza prepotente e affascinante, una specie di sirena terrestre, e come tutte le sirene, un mostro di straordinaria sofferenza, per me.

Ancora ieri ne parlavamo all’ospedale, dove Laura è stata ricoverata qualche giorno fa, per la solita malattia che la trascina in un posto infame e tetro. Eravamo seduti a fumarci una sigaretta vicino all’obitorio, dove stranamente stanno le macchinette del caffè. E come al solito, il tempo passò tra amori strazianti, morte, e sensazioni presenti e future. Anche stamani, quando al sole freddo dell’inverno, di fronte al muro del campetto dei dottori dello stesso ospedale, si ripensava alla sofferenza della vita, ai soldini che non bastano mai, al tempo che scorre giorno per giorno sempre più in fretta, fino a portarci in un posto da cui non ritorneremo.

Poi andammo nella sua stanza. Guardavamo fuori dalla finestra, a pensare e a ripensare a tutte le domeniche buttate con lo sguardo alla finestra, di altri edifici, di altri anni, in altri luoghi più o meno belli. La domenica ha questo di brutto quando sei solo: sembra che tutto attorno a te sia morto, e tu sei l’unico sopravvissuto. E invece è così ogni giorno.

Accanto a noi stava un ammalato terminale di cancro. Poi vidi che era una donna di circa quarantacinque anni con un tubo che le entrava su per il naso, con delle ragazze diciottenni che stavano lì a guardare la mamma con voci nascoste e visi che contemplavano: una donna, che da lì a poco sarebbe diventata la freddezza di una lastra di marmo con un nome qualsiasi e una foto come ce ne sono tante. Ed io le guardavo e capivo.

Nonostante tutto, Laura ed io entrammo in confidenza. E ci frequentammo. Descriverla prima e dopo non è facile, parlerei solo di due persone diverse, la prima raccontata da un cieco, la seconda da uno che si pente di averle fatto un possibile male.

Spesso andavamo in piscina, ci si ritrovava a casa sua, nel suo ufficio, a parlare per ore intere, a litigare, a scannarci per i punti di vista differentissimi su ogni cosa. Tuttavia, essendo mia nemica, a volte le chiedevo dei giudizi e persino dei consigli. Solo un nemico poteva essere obiettivo e sincero. In un certo senso, mi sentivo usato, e forse tentavo di usarla. Ecco, per essere sincero, con lei non ero forse completamente sincero. Adesso riconosco che non era bello, e il reo, come al solito, ero io. Ma se tutto questo sia servito a cambiare idea, allora lo confesso senza sofferenza.

Poi un mattino, mi avvicinai alla mia macchina per andare al lavoro. Era ancora buio, ma notai ugualmente quel finestrino rotto. Pensai subito a Laura, suo fratello era meccanico, o qualcosa del genere. Quello che fece per me non è poi così grandioso. Mi fece risparmiare solo dei soldi, alla fine. Ma si palesò nella sua vera natura. O meglio, io la vidi finalmente con nuovi occhi, e lei era bella (dentro… altrimenti esagererei…) come io non potevo capire.

La sua malattia peggiorava e con essa, anche lei, e dove l’avrebbe portata, lo sappiamo. Ma ancora avevamo tempo per essere buoni amici, e per recuperare in tutto quello che avevo sbagliato con lei.

Non so cosa stimasse esattamente di me. Non ho mai capito le persone che volevano capirmi veramente. Questo ero il mio peggior difetto. E come al solito, tralasciavo quelle poche cose dolci che mi venivano offerte. Donate a uno che meritava ben poco, di dolce e di vero.

In questo momento ho una febbre delirante, o forse sto delirando e basta. Non so perché, ma mi è venuta in mente lei, che tra l’altro domani dovrebbe tornare al lavoro dopo essere guarita dall’ultimo ricovero. Così ho pensato di rimettere mano a quello che stavo scrivendo riguardo a Lauretta.

Una delle cose che mi caratterizzano è la dispersione, può darsi però nel senso buono: tengo presente e reperibile tutto ciò che ho fatto o quasi. Come la chitarra: a volte non la suono per mesi, poi invece la riprendo con amore. E ciò dicasi di tutto il resto: libri, fotografie, ricordi, emozioni, pianti, persone. Segno che in me hanno lasciato un solco. E ogni solco è una pista da seguire nuovamente, ma anche una ferita che si ritrova nel tempo. E una ferita non è mai brutta. E’ solo una vittoria, è quel presente che ora è lì, nascosto da qualche parte.

Io e lei avevamo molto in comune, forse nel sentire ancora più dolorose queste ferite passate, o forse la voglia di vivere ancora con forza maggiore speranze e sogni che ti capitano così, per caso.

Magari non avrei picchiato Cristian quel giorno se lei fosse stata lì al lavoro, perché mi avrebbe rotto i coglioni e mi avrebbe dissuaso. Magari me la sarei presa con lei. In ogni caso il presente adesso era questo: delle sceme mi avevano accusato, e il presidente della ditta mi aveva convocato. Ebbi un po’ di ansia, soprattutto perché avevo timore di essere licenziato, e poi non volevo che nessuno mi chiedesse di scusarmi. Soprattutto quanto uno si crede di avere una posizione superiore alla mia, e ti guarda dall’alto di un’autorità conferitagli dalle sue incapacità esistenziali di essere normale. Con ciò non voglio oltraggiare la sua sorte, ma solo rinnegare ogni forma di egemonia da parte di qualcuno valido o invalido. Le mie tesi esposte a quel cattivo, prigioniero delle sue disgrazie corporee, non so quanta efficacia abbiano avuto, tuttavia dovevo difendermi perché lui mi attaccava, come un avvoltoio che da tempo aspettasse un mio errore. Ed io lo commisi. La casa che avrebbero dovuto destinarmi, forse sfumò. Ma se questa era la sorte di quelle vicissitudini, l’avrei accettata quasi con piacere. Ciò voleva dire che non potevo (non dovevo) riposarmi.

Come sarebbe finita non so, e forse non mi interessava neanche, tanto ero abituato a lottare e a incontrare ostacoli su ostacoli, ad incontrare me stesso come ostacolo, ovunque andassi. Ma avevo tenacia, e avrei superato anche quest’ulteriore complicazione.

 

Dopo un periodo di "riposo", di fuga dal mondo ordinario e squallido di un’esistenza particolare, durato circa un anno, mi imbattei per caso in una di quelle situazioni al di là della norma, coinvolgenti (ma misteriose e attraenti) che mai mi erano capitate prima.

Patty era una ragazza bellissima: truccata, in pigiama, dopo giorni di notti insonni, sempre, con gli occhi verdi come il mare, i capelli a caschetto e un corpo da esplorare lentamente. Mi folgorò. Prima in un rapido istante, poi con tutta la sua personalità complessa e oscura, ma in fondo semplice e dolce come lei.

Quando la conobbi "per caso" davanti all’edificio pubblico in cui lavoravo fui attratto subito dai suoi occhi, gli occhi di un’annunciatrice funesta. Come un falco adocchiai pure le sue manine da "mds", con le unghie lunghe e graffianti, da accarezzare alle perdizione. I suoi occhi erano da me ammirati e osservati per ore intere, soprattutto quando erano candidi nel suo sguardo nitido e placido.

All’inizio mi sembrava solo un po’ frenetica, e affaccendata fortemente dal fatto che era l’unica impiegata di una ditta edìle (lei diceva édile…). Lentamente ma non troppo scoprii invece che dietro al suo pessimismo, che io chiamai in un primo tempo nichilismo, si nascondeva un qualcosa di inespresso che poi forse mi rivelò in un fine settimana. Quale?!

Patty era stata perseguitata da miseri vermi, squallidi individui dediti alla ricerca di camicie firmate, cravatte sfavillanti, e abiti eleganti, che a stento ricoprivano e nascondevano la loro putrefazione di esseri inutili.

Gente fine che forse l’aveva in un primo tempo smarrita e adulata, ma che poi aveva offeso il suo animo, offuscando perfino la speranza di un futuro finalmente diverso, ma non a tal punto da non potere avere ancora uno slancio per il volo. E per questo conobbe me.

Spesso si sentiva sfortunata, in preda ad un meccanismo che a scadenze varie e senza preavvisi intuibili la perseguitavano. Tutto quello che di bello esisteva era alla luce del sole per farle apparire il Male ancora più dannoso di come non fosse. Tutte le sue amiche – secondo certi suoi pensieri di valutazione - erano fortunate, avevano genitori come fonte di appoggio, non avevano problemi di nessun tipo, e invece lei era un qualche bersaglio del destino.

Nessuno l’aveva mai aiutata, i suoi amici l’avevano tradita, i suoi datori di lavoro l’avevano sempre sfruttata e mal pagata.

A tutti questi catastrofici avvenimenti, reali o subiti nella loro percezione verosimile dal suo animo tormentato e attanagliato da morse strettissime, si aggiungano degli spasmi interiori da analizzare con la dolcezza e l’amore di uno che vuole entrare in quella camera senza luce per portare il bagliore di un calore non fugace.

Eppure, quando sorrideva faceva dimenticare tutto il resto, e per un attimo anche lei dimenticava tutto il Resto.

Una donna ha questo di terrificante: basta una sua parola gentile, o un sorriso docile, dal profondo dell’anima che ti dice "vieni, a me", per farti intuire da lontano che la gioia che hai sempre cercato è dentro quel corpo e quei movimenti degli occhi che emanano eternità.

Uscimmo diverse volte insieme e tutto nell’arco di un tempo ristrettissimo.

Forse quel feeling reale tra noi non ci bruciò velocemente senza avere tempo di riflessione. La scintilla, che nel passato l’aveva arsa in attimi incomprensibili, non era scoccata dal solito arco maledetto, perché questa volta nessuno l’avrebbe bruciata nelle sue ali. Io non l’avrei infiammata, ma riscaldata come volevo.

Quel pomeriggio di sabato c’era il sole. Volevo portarla in giro per farla rilassare un po’. Aspettai sotto casa sua, o in una strada nelle vicinanze, che per noi era "il solito posto" per più di un’ora. La tempestai di telefonate perché era in ritardo marcio, o ero in netto anticipo. Quasi sclerai. Poi venne. Andammo a casa mia.

Milano di sera in quella zona là era un cimitero pieno di lumini semoventi. Oscura, tetra, profonda, con case tutte uguali, viali enormi e indefiniti, insegne con colori fortissimi che abbagliavano, per perdere il loro bagliore nell’esagerata vastità della loro presenza.

Avevo la sensazione di essere vivo in una città morta e paurosa.

Le luci del mio bilocale in affitto, per contrasto al freddo della sera, creavano un’atmosfera magica e incantata, come se si trattasse di una torre messa lì a protezione di chi vi si barricava dentro contro ogni pericolo strisciante. Il rifugio che lascia fuori ogni serpente velenoso e viscido. In quella casa avresti ascoltato tanti miei monologhi e avresti trovato una tranquillità che ti avrebbe tolto ogni benda dagli occhi.

I rumori che nel tuo mondo passato udivi come ululati, adesso si trasformavano nell’arpeggio di una mano che ti suonava la chitarra; le carezze che a te sembravano essere state fatte con le unghie (o che tali ti si erano alla fine rivelati in passato), ti accarezzavano in modo nuovo il viso, con lento e sentito candore. Ricominciavi a sognare, e per la prima volta ti vedevi alata e veloce.

 

Si accomodò sul divano azzurro, suonai per lei, le offrii la dolcezza di un lupo gentile, che memorizzava ogni sua agire e ogni suo sguardo. Poi le feci quel massaggio che tanto desiderava, e poi avvenne… un sogno o qualcosa di più bello.

Le mie mani l’addormentarono, trasmettendole un calore che, benché provenisse da uno sconosciuto, la riscaldò, e finalmente si scaldò come io desideravo.

Ci ritrovammo coi corpi che si cercavano. Le bocche si raggiunsero e si comunicarono sensazioni non più verbali.

Cenammo. La notte la passammo come desideravamo.

Lei non era facile da capire, forse troppo difficile, ma io non avevo fretta, anche se spesso mi veniva arduo comprendere tutta quello che nella sua personalità era concatenato da lunghi anni di sofferenza. Ma ci avrei messo tutto l’impegno che un uomo può trovare nella forza che spinge a dare ogni atomo della propria volontà al fine di riuscire ad arrivare alla meta prestabilita.

Spesso mi faceva arrabbiare moltissimo, perché lei era fiscale in ogni cosa. E soprattutto lo era con me. Di certo eravamo diversi, ma questo non implicava che dovessimo modificarci nella nostra naturale vitalità. E in quel periodo io, purtroppo o per fortuna, ero ancora molto schematico e non permettevo a nessuno di intaccare le mie vedute e i miei schemi mentali. Anche se molte volte mitigavo l’asprezza di un carattere che mi spingeva a respingere ogni consiglio o qualsiasi elemento estraneo alla mia volontà. Io ero l’unico artefice del mio destino, e se ero ancora forte e tenace dovevo ringraziare solamente tutto quello che avevo sopportato e vinto.

Tuttavia, quando incontrai Patty ebbi la convinzione che uno come me: ferreo, permaloso, superbo, arrogante, non convincibile, potesse essere quella mano offerta ad una ragazza come lei, che si unisce alla sua e l’accompagna di nuovo verso un mondo più gaio, dove gli uccelli cantano ancora, dove il cielo e il sole hanno dei colori da tempo sognati, dove in una stanza freddissima non si ha più bisogno di un termosifone a metano, perché accanto a te dorme una stufa caldissima che ti riscalda e ti dice: io sono qui, con te, in questo momento, per darti il calore del mio corpo, la forza della mia mente, e la sicurezza della mia presenza. Io c’ero, ero lì per lei, e solo per lei. Ma so che questo l’aveva già capito.

Avrei voluto prendermi cura di Patty con ogni mezzo, coccolarla, tranquillizzarla, costruire dalle ceneri del passato un nuovo mondo, senza più timore di fare passi errati. Inculcare nelle sue speranze la prospettiva di un cammino insieme, sia che lei fosse col sorriso, sia e soprattutto che lei fosse con gli occhi tristi e turgidi.

A me non bastava la sua amicizia. Noi non eravamo mai stati amici, e non potevamo ridurre quello che era avvenuto in una piccola parola che ha sì importanza, ma non tanta da bastare per definire e ridefinire giorno per giorno un rapporto che non era delimitabile come un sentimento poco profondo. Tra noi, ed io e lei lo sapevamo, non c’era un qualcosa di semplice e chiaro, ma un non so che di prorompente e di travolgente. L’energia che non dava possibilità alla ragione di minimizzare e dire palesemente cos’era.

So che tutto ciò per lei era difficile da capire e da catalogare, ma io non ero di facile comprensione, anche se tutto ciò che facevo era eseguito con semplice gioia.

Quando io le dicevo che mi mancava, glielo dicevo con tutto il cuore, quando le dicevo che pensavo a lei, e che lei era, e ne ero sicuro, tutto ciò che desideravo, ecco non mentivo, né esageravo con vocaboli ingenui.

Ma la verità è che da quando l’avevo conosciuta, avrei voluto stare per sempre con lei, che il suo nome, e i suoi atteggiamenti, i suo occhi e la sua esistenza erano sempre nella mia mente. Anche se lei mi diceva che io mi costruivo dei castelli in aria e mi perdevo in delle elucubrazioni esagerate, ebbene, forse era vero, ma non si trattava solo di fantasticherie, ma di sogni, e ogni sogno è una fragola che ti spinge ad aspettare la primavera. E lei mi sembrava la mia stagione calda e fiorita. Ma forse era solo un sogno. E il mattino mi avrebbe risvegliato ancora una volta, a meno che lei non fosse lì con me. E chi lo sa se c’era…

Ormai eravamo insieme da circa due mesi, ci vedevamo ogni giorno, facevamo l’amore spessissimo, litigavamo e ci pizzicavamo tantissimo.

Caratterialmente eravamo incompatibili, e non so cosa ci teneva insieme. Quando non la vedevo mi mancava, e pensavo a lei quasi in maniera maniacale.

So che non sarei riuscito a modificare nulla di lei, proprio nulla. La sua personalità era ormai irrecuperabile e plasmata in modo irreversibile. Anzi era lei che voleva cambiare me. E me ne accorgevo giorno dopo giorno. Eppure le volevo bene.

La sua presenza però mi intrappolava in un modo di fare che avrei voluto troncare.

Tutti quei sogni e quei progetti che volevo portare a termine, o iniziare, con lei erano impossibili. "Le regole" le dettava lei, non io come mi rinfacciava ogni tanto, ed io non potevo continuare un simile gioco unilaterale a lungo.

So che mi voleva bene, ma non capivo se fosse amore o attrazione, di certo lei aveva un modo di fare troppo egoista e materialista in tutto: monetizzava ogni passo della sua esistenza. Voleva mettere nel salvadanaio quei soldini che le sarebbero serviti per acquistare un piccolo rifugio in cui trasferirsi per sfuggire al mondo. Si lamentava spesso di una sua amica (Laura) invidiando la sua fortuna, la possibilità di alzarsi tardi e di usare la macchina, di fare una vita spensierata e tranquilla. Si sentiva sempre stanca, mal pagata, incompresa, tradita, biasimata. Ma in fondo non era proprio così. Il suo tormento era principalmente l’egoismo. Voleva troppo e voleva condizionare l’esistenza di chi la conosceva asservendola alla sua. Solo che ancora non aveva fatto bene i conti con la vita, sebbene si ritenesse intelligente, scaltra, carina. In fondo era ripetitiva e angosciante, ipocondriaca e vanitosa, permalosa e logorroica, e soprattutto patetica.

Io cercavo di aiutarla, di spiegarle il mondo, ma lei se ne infischiava e cercava di fare la stessa cosa con me. Solo che le conclusioni erano notevolmente diverse. Con la sua prepotenza sarebbe riuscita solo a farsi ancora più male.

La lasciai diverse volte, soprattutto perché sapevo che non ero in grado di scalfire la sua mente, incondizionabile. Mi cercò e mi ritrovò sempre lei. Ma questo era solo un danno: tra noi non poteva andare, e come le scrissi in un messaggio "per te ci vuole un cane o un prete". O tutte e due insieme.

Solo che io mi ero ormai affezionato, a quella bocca saporita, ai suoi occhi luminosi e verdi, a quel suo essere così particolare.

Nonostante lei si considerasse matura (gli altri per Patty erano solo bambini legati al seno della mamma, egoisti e opportunisti), per me era terribilmente capricciosa e infantile nella sua arroganza. Si era proprio infantile e nevrotica. Una miscela incontrollabile.

Quel mercoledì di febbraio quando mi ero deciso finalmente a lasciarla (e non ci riuscii) me la trovai a casa velenosa e fuori di testa. Sullo specchio di casa mia aveva scritto delle frasi (vere) che tendevano a farmi apparire ignobile e insensato per quel mio comportamento. "Ti ho riscaldato quando ne avevi bisogno; in questa casa lascio un pezzo del mio cuore; non capisco questa tua decisione assurda; non so se ti amavo, ma di certo ti voglio bene, ecc.". Piansi come un bambino: mi mancava, la cercai io questa volta. Patty si era nascosta per le scale. Entrò e mi trattò come un cane. Forse lo meritavo, ma da una prospettiva lungimirante che lei non avrebbe capito, non lo meritavo affatto.Mi diede l’ultima possibilità.

Ma ormai sapevo che era una storia a termine, disastrosa e amara. Lei non voleva correre insieme a me come desideravo. Non sapeva cosa voleva. Era un’indecisa, e ancor più era lunatica.

Riprovammo ancora, per altre due volte. Ma per noi non c’era pace. L’ultima fu disastrosa. Nonostante i nostri sforzi, eravamo troppo diversi, inconciliabili, e qualsiasi tentativo sarebbe stato vano, e lo fu.

La colpa non era solo sua, ma anche mia (soprattutto). Col suo carattere isterico, furioso, e col mio drastico, cinico, non esistevano possibilità di un avvicinamento. Ma solo un disastroso scontro (quasi fisico, da parte sua). Lasciarla nuovamente era l’unica soluzione possibile. E lo feci. Solo che questa ennesima volta le liti avvennero con l’anima e il sangue, con una ferocia mai provate prima. Ma ormai, sebbene si fosse avvicinata a me, che sedevo nella poltrona del suo capo in quell’ufficio seminterrato, in ginocchio e con lacrime da coccodrillo, non retrocedevo più. Patty era un male per me e per lei. E nonostante le sue sofferenze vere non potevo abbandonarmi al suo volere e rendermi schiavo della sua immagine del mondo e della sua natura incomprensibile e angosciosa. Lei era ferma nelle sue prospettive, ma lo era ancor di più io (a lungo termine), anche se quasi quasi stavo cedendo al calore della sua presenza, a quei sorrisi che sembravano eterni. Ma lei alternava in me e in lei dolore e gioia in un modo soffocante e improvviso. Dovevo farcela a lasciarla, ad ogni costo. Qualsiasi danno sarebbe stato ben poca cosa rispetto ad un qualsiasi rapporto con lei. Le scrissi questa lettera: "Cara Patrizia, capendo le tue paure, rispondo per iscritto a una delle tue domande più frequenti e importanti, che necessitano di chiarimenti incisivi ed evidenti, al fine di non essere frainteso nei nostri colloqui successivi, e nella ripresa di tali questioni. Veniamo al punto.

Ti ho sempre detto che per quel che concerne la mia vita, sia in positivo che in negativo, decido sempre ed esclusivamente io. E non delego una qualsiasi scelta che riguarda la mia persona. Inoltre, non lascio a nessuno un’influenza o un’intromissione nelle mie scelte. Normalmente posso chiedere dei consigli, ma colui che prende una decisione sul sottoscritto è lo scrivente.

Tu sei per me inviolabile, e lo sai, e nessuno entrerà a modificare o a consigliare quello che ci proponiamo di fare, o quello che è nelle nostre libere scelte.

Il nostro rapporto non è sottoposto a veti o ad ingerenze da parte di qualcuno al di fuori di te e di me: è solo ed esclusivamente mio e tuo. Di pari passo, non permetto a nessuno di interferire nei rapporti con la mia famiglia. Per me Essa è un punto fisso e una certezza inviolabile. Ragion per cui non do facoltà a nessuno/a di intromettersi.

Per me è sacra e come tale deve essere considerata da chi mi sta accanto, si tratti di un amico, una fidanzata, una moglie, o altro. E nella mia scala dei valori ha il primo posto. Un qualcosa che non violerei per niente al mondo e per alcuna persona.

Sia che si tratti di prendere delle decisioni soggettive o "obbiettive". Io sono e sarò sempre "soggettivo" a tale riguardo.

Anche un piccolissimo accenno di non rispetto di quello che è la mia famiglia mi farà decidere di intraprendere un’altra strada, nonostante tutto quello che possa io provare per te o per altre persone "esterne o interne".

Non voglio essere insensibile e drastico con le mie affermazioni, ma tutto ciò serve solo a farti capire che è inutile fare dei paragoni con la vita degli "altri".

Quello che siamo, e che ciascuno di noi può essere, differisce totalmente da accadimenti passati. Per cui, se tu sei in un modo per me, o se tu facessi delle scelte per me anche encomiabili, questo non mi obbligherebbe a un comportamento esattamente uguale da parte mia. Ma questo non significa che ti amo di meno o di più, vuol dire che ciascuno ha una personalità diversa e si esprime e si manifesta con slanci diversi. Non credo che quello che faccia una debba essere fatto dall’altro, altrimenti rischieremmo di avere non un rapporto di reciprocità ma di sudditanza, in maniera scambievole. Ed io non impartisco ordini, e nemmeno ne ricevo.

A parte tutto ciò, a meno che questa sia una strada che non possiamo percorrere insieme, non vedo grossi ostacoli. E ricordati dei miei sogni…

 

E in un attimo, ciò che era passione - amore, futuro, gioia dolore, un gelato al bar, il caffè che le portavo a letto, le canzoni con la chitarra, il cielo e la primavera con lei -, diventò una sola parola. Odio.

Un lunedì di marzo litigammo ancora, cioè la lasciai. Prima che lo facesse lei, mi recai a casa, presi tutte le sue cose e le misi in una busta. Poi andai a prenderla sul lavoro. Le manifestai che la lasciavo ancora, per il suo bene e per il mio, perché uno come me l’avrebbe fatta solo soffrire, che nessuno poteva cambiarmi, che non volevo nessun compromesso, che se facevo il duro era unicamente per allontanare un essere come me dalla sua vita. Venne alle mie ginocchia e pianse. Pianse tutto il tempo, mentre la mia voce fredda, calma, determinata non subiva alcuna commozione. Doveva pagare per tutte le volte che aveva oltrepassato dei limiti che nessuno poteva permettersi di superare. Fui senza pietà. L’accompagnai a casa sua, e sotto casa continuò a menarmela per delle cause (giuste) che secondo lei avevano minato il nostro rapporto. Ma ancora non aveva capito che nessuno con me poteva avere la libertà di pensare e fare davvero quello che io non sopportavo. Le avrei dato l’anima, se solo mi avesse capito, se solo avesse realizzato due piccoli sogni, come li chiamavo io, o due assurdità come li chiamava lei. Ma lei faceva la dura. E duro io sarei stato. Da lunedì a giovedì i messaggi di ingiuria e di sottomissione da parte sua furono tanti. Ma io ero di pietra, finché, quando mi accorsi che si stava rassegnando, la ricontattai. Dovevo continuare a ferirla, per vendicarmi delle sue offese, per aver oltraggiato ciò in cui credevo.

Finsi questa volta di avere sbagliato, di essere innamorato perdutamente; le dissi che era il bene più grande, il mio futuro, e tutte le stronzate che la sua mente desiderava. Mi sforzai di apparire modificabile, in balia della sua esistenza.

Mi accolse con estrema freddezza, non mi fece entrare, riuscii a parlarle solo per tre minuti. Ma per lei era un addio. Non forzai la situazione, e me ne andai. Dopo qualche minuto un messaggio al telefonino mi avvertiva che potevo ritornare. La strega era caduta in trappola.

Impiegai due ore per riconvincerla della possibilità del nostro amore. Lei urlava come una forsennata, e a tratti anche io mi lasciai andare alla disperazione. Credevo di non farcela. Ma proprio sul punto di andarmene, quando mi disse "vattene", ed io aprii la porta dell’ufficio dicendole: "allora questa era l’ultima possibilità…", lei mi sorrise e mi disse di abbracciarla.

Cenammo nel nostro solito ristorante, vicino casa. Ero stanco, ma felice di aver riportato una nuova vittoria, con un nemico ancora più agguerrito e più difficile da atterrare sempre con la stessa trappola. Ma il più forte ero io, e la mia esistenza era sconvolgente per lei, che sicuramente mi odiava almeno quanto la odiavo io.

Tra le sue caratteristiche più patetiche c’era il credere nell’esistenza degli angeli, demoni, e soprattutto gnomi, presenze nefaste, e altre idiozie del genere. A volte lei aveva delle visioni, avvertiva delle presenze, si credeva una sensitiva, un’anima aperta ad un mondo spirituale vago e misterioso, e così via. Insomma, Patty era una che fantasticava con una mente quasi (sono generoso!) malata e in preda ad allucinazioni caratteriali. A volte mi costringeva a dire le preghierine e ad andare in chiesa. Ed io l’accontentavo. Ormai dovevo essere l’uomo ideale. La mia sparizione doveva costarle tantissimo, doveva soffrire per non aver voluto quel piccolo compromesso. E a tal scopo le auguravo di vivere… le sofferenze del mondo reale l’avrebbero martirizzata e resa finalmente matura. Altro che ragazza cresciuta da sola, in fretta, senza la mammina (come mi rimproverava), matura e obbiettiva. Ancora, dopo tutte le batoste delle esperienze passate, non aveva capito un bel niente. Il mondo era un ergastolo, e lei pensava che fosse un cielo mutevole e forse azzurro.

Ancora non si era accorta che i suoi amori erano finiti non perché gli altri fossero sbagliati, ma perché lei era ostinatamente incorreggibile e schematica, vile e inutile, prepotente e incosciente.

Ma quel sabato mattina mi lasciò lei. Finalmente…

Non mi demoralizzai più di tanto. Per me significava uscire di prigione: liberarmi di una carceriera dal carattere astruso, e paranoico.

La sera precedente avevamo litigato perché per mezz’ora avevo parlato con un’amica al telefono (la sorella di Gabry), e Patty pensava che avessi sparlato di lei e che l’avessi scimmiottata: eri malfidata e per di più ti sbagliavi. Ed io invece ti avrei difeso sempre da chiunque, persino da me.

Quando si coricò vicino a me i nostri corpi restarono freddi e distanti, silenziosi. L’indomani la decisione, maturata nella notte, di lasciarmi. Chissà, forse qualche angelo o qualche gnomo ti avevano consigliato… ma mai di andare da uno psichiatra?! E l’assurdo era che tu dicevi: "per te è tutto normale". Come se io non provassi gioia, dolore, tristezza, amore, felicità. Come se io fossi apatico, o una macchina per cucire…

Dopo qualche ora di allontanamento e di mutismo mi mandò qualche sms. Ritornava alla carica. Era proprio un osso duro.

Ma ormai ci eravamo bruciati. Fortunatamente per me.

Ma basta parlare di lei. In fondo, voleva una vita diversa e nuovi sogni. Voleva essere amata ed esistere veramente per qualcuno. Perciò non ti ho mai condannata - e ti ho sempre perdonata. Quello che provavo per te era sincero: questo è il mio ultimo bacio.

 

Sono rientrato a casa da qualche minuto. Fuori c’è un tempo di merda, uggioso, freddo. Ha piovuto tutta la notte con un freddo ancora non preventivato.

La città è deserta nelle strade. Gente nei bar eleganti, per lo più borghesucci che si mostrano alle vetrine mentre bevono un tè, e aspettano la sera per tornare in quelle case dove consumeranno la cena con la propria famiglia, davanti al solito telegiornale, a parlare di politica, costo della vita, e delle solite cazzate.

Mi sto preparando anche io un tè ma lo berrò da solo. Una volta invece lo prendevo sempre a casa di mia nonna Concetta. Un’abitudine che rimpiango. E poi uscivo a cercare gli amici, a piedi, con la moto, col sole e con la pioggia, solo che allora tutto aveva il sapore della primavera. Non esisteva la solitudine. Attorno a me c’erano familiari e amici. C’era la gioia dell’esistenza. Quando si è inconsapevoli, si è sempre felici, e ogni spazio rubato alla propria ignoranza genera sempre più amarezza.

La casa in cui adesso vivo non è grandissima, è un monolocale, in un quartiere distinto, in un palazzo signorile, caldo, accogliente, lontano da tutto ciò che sfuggo e da tutto ciò che ricerco. Un eremo, o forse un rifugio per chi vuole riflettere.

Spesso penso a quando ero bambino, in quella casa grandissima e inimmaginabile per chi legge, e mi vedo come se continuassi a vivere in una vita parallela, nonostante io sappia che quel giardino non lo vedrò mai più, che quei giorni sono morti, che la mia stanzetta è una tomba chiusa e non visitabile. Eppure tutto è ancora là, con quei mobili, gli stessi fiori, la cucina, il salotto, i libri di mio padre, le inferriate, la mansarda con la moquette. Un corpo che non riaprirà mai gli occhi. La desolazione.

Sento i giorni che volano incessantemente, senza una sola possibilità di cambiare tutto come vorrei. Come se seguissi una via in mezzo al deserto, che non porta da nessuna parte, e all’intorno non c’è una pianta.

Spesso faccio un raffronto con tanti altri ragazzi, con altre vite, e mi accorgo che non sono il solo a condurre un’esistenza solitaria. È come se in questi ultimi anni avessi aperto la porta di un mondo nuovo, che non è più il mio. La porta si è chiusa alle spalle e davanti a me c’è un orizzonte grigio, e tutto ciò che si muove è solo un’ombra. E la vita sfiorisce velocissima, senza un perché, senza un attimo in cui questo movimento si arresti. Mi sento molto più giovane dell’età che ho veramente, e tanta gente me lo conferma. Ma dentro di me non c’è questa consapevolezza. In realtà a stento riesco a nascondere l’angoscia che mi pervade, e ciò che più mi stupisce è la mia incessante volontà di mantenermi in forma, con gli allenamenti quotidiani di boxe e pesi, e di apparire gaio, vitale e scattante. In cerca di una perfezione che non esiste. Ma giorno dopo giorno vedo comunque i risultati.

Sto pazientando, sto temporeggiando, scrutando ogni fiore che cresce. E l’attesa mi logora, risalirò quei monti.

 

Dopo tre mesi dalla separazione da Patty mi sono ritrovato rilassato e libero. Lei aveva riempito solo dei vuoti e si era accaparrata anche il mio tempo personale. Insomma, aveva condizionato quel presente. E non me ne rammarico.

In questo periodo ho conosciuto e visto diverse ragazze, alcune leggermente donne, ma son passato oltre. Il vuoto è sempre qualcosa che riempie e spesso stanca appena lo scorgi, nelle sembianze simili, negli stessi ornamenti, nel vestire alla moda, nello standard che parifica e meccanizza tutto: capelli, svaghi, automobili, film, sorrisi. L’uniforme che rende tutti gli animali con le orecchie ancora più lunghe.

E invece lei non sembrava moderna o ancora attuale.

Ilaria la vidi per la prima volta in primavera, splendente nelle sue graziose forme di apparenza estetica. Un corpo asciutto e sensuale, fresco e intrigante. Le sue gambe erano marmoree, perfette, scolpite con precisione. Le sue mani curate e ondulanti nel muoversi. Il viso nascosto dai lunghi capelli che la proteggevano da ogni sguardo inopportuno. E i suoi occhi emanavano uno sguardo sfuggente e profondo. Ebbi la sensazione del flash fotografico. Poi non la vidi per diversi mesi. Del resto io ero ancora preda di quella cacciatrice bionda.

Il nostro primo incontro avvenne al quarto piano, quando mi fu presentata da un suo collega. Ma l’occasione per conoscerla mi si presentò a fine agosto.

Io tornavo dalle ferie etnee con animo pacato e solare. Lei era fuori dallo stabile che parlava con dei conoscenti. I miei occhi si lanciarono sui suoi. E mi piacquero. Volli conoscerla.

Ilaria usciva da una specie di storia che non capii se fosse vera. Vera nel senso di realmente vissuta in maniera sanguinante. Di certo appresi che vi si era tuffata con entusiasmo e forse con una spinta di ali rapaci. Ma lui non era un ramo su cui atterrare, né un prato da attraversare nel volo. Almeno capii così. E da alcune ricerche fatte velocemente conclusi che si trattava di un introverso minchione.

Al di là di quelle mura – un ufficio maligno e viscido – ci vedemmo pochissime volte. Cioè una sola volta. Andammo a prendere il sole in una giornata di fine estate in un parco nel nord della città. Quel poco tempo passato insieme a lei fu ancora più veloce di come adesso ricordo. Lei era splendente nella sua tranquillità di donna che si rilassa ai raggi di un calore che non sostituirà mai quello invisibilmente umano.

Ilaria mi sembrava un qualcosa di straordinario e nello stesso tempo di incomprensibile. Non era di facile intuizione. Spesso solcabile solo a tratti. Forse un’idealista, forse una sorgente nascosta da qualche parte in una montagna enorme. E a ciò aggiungo che per me era sempre notte.

Per me quel giorno doveva essere un punto di partenza, un avvicinamento prudente e gioioso, da conquistare con cura e lentezza. E invece fu l’ultimo volo.

Mi piaceva e glielo manifestai apertamente, o qualcosa di simile. Ma di certo piacevo anche a lei. Solo che i miei passi e tutte le mie premure furono fraintesi e non capiti. Se quel giorno le dissi che era un’oca, con ciò non volevo minimamente offenderla, ma salvaguardarla dall’ignominia del territorio, che io, animo malvagio e malfidato, conoscevo bene. Da quel giorno ogni millimetro guadagnato verso di lei diventò un chilometro lontano da lei. Non mi salutò più e non mi cercò. Del resto feci anche io la stessa cosa, orgoglioso e viscerale come sono.

E nonostante il Pelato mi spingesse verso di lei, io non volli più ricadere nell’errore di ripercorrere a ritroso una strada già battuta e senza sbocco. Mi diceva spesso "Joe, Ilaria ha belle cosce, e un bel corpo". Valutandola come un’automobile, carrozzeria motore ecc. da perfetto materialista, quale era. Ormai però io e lei ci eravamo bruciati. Come sempre, come tutte le volte che qualcosa mi piaceva. Lo so, era perfetta per la teoria dell’incubatrice del mio amico (in parole più grezze, quello che era la mia teoria della continuazione della razza), sebbene non fosse la persona adatta per la teoria del pastore tedesco. Non era infatti siciliana, come me.

Gennaro stravolgeva la mia ricerca ideale della femmina. Per lui le donne erano solo incubatrici (macchine umane per procreare), poiché riteneva sé stesso unica fonte basilare della propria continuazione. La donna era solo un mezzo, concepito anche come diletto dell’uomo, a metà strada tra una mercenaria, una cagna, e un suddito. E non so se avesse torto. Era schematico e seguiva sempre un repertorio immutabile. Una forma mentis che non poteva cambiare. Ad un tasto premuto corrispondeva la possibilità di seguire solo poche opzioni. Io gli dicevo sempre "alt, sc… invio". Una macchina. Ma era affettuoso, e affidabile. Uno dei pochi.

Dopo qualche mese dal litigio con Ilaria, riprendemmo a salutarci, nonostante io l’avessi offesa chiamandola oca e mandandola a cacare. Un altro miglio di mare percorso, senza trovare terra.

 

Non riuscivo a smuovermi. Un’enormità mi inseguiva da dietro, il cielo era nero, gli alberi si piegavano verso terra. Il vento contro cui cercavo di lottare mi impediva ogni movimento. D’un tratto caddi, mi rialzai, poi fui sballottato in una zona aperta, rivestita da un verde, riparata da ogni burrasca. Lì potei spostarmi liberamente. Nel mezzo della radura cominciai a sentire dei sibili, degli echi, come se qualcuno chiamasse, come se qualcosa mi indicasse.

Dalle zolle di terra le voci giunsero ora distinte alle mie orecchie. Ebbi paura, non erano comuni, e cominciai a correre a perdifiato. Raggiunsi i miei compagni che procedevano in fila indiana dall’altra parte del prato. Il vento era cessato e la paralisi che avevo rotto con la fuga nella spianata sembrava appartenere alla memoria. Ci addentrammo in una foresta di tronchi rossi. Il sole era tramontato e il buio ci colpì. Persi di vista gli altri, li chiamai, poi scivolai. Un torrente mi trascinò all’interno di una grotta. Il lago era placido e caldo, pesci color mandorla mi giravano attorno copiosi. La volta era alta, piena di pipistrelli che giravano all’intorno. Uscii dall’acqua e mi diressi verso due scalini ricavati nel suolo in direzione opposta all’entrata. Un corridoio stretto e basso si apriva tra due pareti. Camminai per circa ottocento passi, di colpo i piedi mi sprofondarono in una galleria molle come melma. Mi chinai, col palmo ne raccolsi un po’: sembrava grasso misto a sangue, e in ogni caso aveva densità ematica. Andando avanti mi accorgevo sempre più di addentrarmi in un organismo iperconnesso tra vari punti distanti o vicini per tutta la sua estensione. Aperture e varchi erano contigui e frequenti. Mi trovavo in una specie di labirinto, oserei dire vivente. Pensai di vagare in uno schema costruito con abilità, ma l’immaginazione mi portò ben presto a ritenerlo autoevoluto. Era troppo spontaneo nelle sue ramificazioni per aver potuto subire la mano direttrice di un essere dall’esterno.

Delle aperture si estendevano al di sopra della mia testa e al di sotto dei miei piedi che se non avessi fatto attenzione, che se non avessi tastato nel buio, come fa uno che non vede quando è alla ricerca di un qualcosa che non conosce in un luogo che la sua abitudine di movimenti circoscritti non gli palesa, sarei caduto.

In questo paragone, fui indotto per un attimo a pensare: fino ad ora non avevo mai fatto caso a un particolare che rende la vita di ogni uomo diversa da quella di un altro e di tutti gli altri. Questo particolare che è assente in lui vanifica la percezione di determinate cose, che divengono astratte ed esistenti solo nell’immaginazione o nel vuoto di una parola. Cos’è il sole per chi non lo vede, che spiegazione potrebbe darsi? Una luce che proviene da una stella che dà calore e vita? E cos’è una luce? E quel sorriso che ci facevano da piccoli, che diviene smorfia ipocrita crescendo solo per simulare simpatia o calore, come si potrebbe materializzare, come si potrebbe intendere?

La velocità che accompagna l’attimo del presente ci ruba alle gioie e alle disgrazie che appartengono ad un’illusione che se colpisce lontano da noi, non capiamo cosa annienta, se si avvicina di un solo passo allora forse riflettiamo amaramente per tutto il tempo che abbiamo perso. Non avrei trovato una via di uscita dal labirinto, non sarei sbucato fuori da quella tortuosità che mi costringeva a delle considerazioni asfissianti. Non potevo destarmi mentre ero sveglio. Mi slanciai furiosamente in una corsa senza senso e caddi in un buco.

Un bambino nasceva da una famiglia agiata, le coccole gli erano prodigate a tutte le ore e i giocattoli erano tutti suoi.

Compiva quell’inverno quattro anni e di regali ce ne furono. Insignificante comparve però una maschera di cartone. Fu la sua preferita, ci giocò, ci dormì, ci si specchiò, e i mesi passarono senza accorgersene.

A cinque anni per lo stesso anniversario pretese come regalo un’altra maschera e i genitori l’accontentarono, sebbene si stupissero della richiesta, visto che già ne aveva una. Le stagioni si susseguivano, e il fanciullo cresceva tranquillamente e normalmente. L’unica stranezza che lo caratterizzava era la maschera, che lui voleva ad ogni compleanno. Se qualcuno gli chiedeva il perché di questa sua esigenza, si chiudeva come un riccio e non parlava.

A quattordici anni gli regalarono una nuova maschera, che lui ripose nella sua stanzetta insieme alle altre. Ma non desiderava come ogni ragazzo un regalo particolare, un costoso oggetto, una diversa sorpresa? Tra una maschera e l’altra arrivò il momento dello spuntare delle sue ali. Tanti compagni e conoscenti furono invitati. E il cielo lo guardava.

Lui andò dentro casa, e mentre la gente che lo festeggiava guardava attonita, si lanciava. Volando per quello spazio. La morte non lo accolse subito, e quando ricoverato in ospedale al termine della sua vita tra pianti e disperazioni furono chiesti a quel figlio i motivi dell’insensatezza dei sui gesti e di quelle maschere, lui finalmente rispose: "Perché..."

 

Forse è l’alba, comunque un sole comincia ad entrare nella mia stanza, comincia a svegliarmi, ma io sono desto da tempo, per non accorgermi di stare ancora sognando.

 

 

"Sai qual è il modo più lento per morire?

Il modo più lento per morire… è vivere"