INCUBO DI UNA NOTTE SICILIANA
                              racconto
 

                  FEDERICO MESSANA      stampa

         INCUBO  DI UNA  NOTTE  SICILIANA

                      Edizione Lussografica

Cap. 1 - L'orologio

Dal campanile della Chiesa madre interminabili rintocchi si propagavano per tutto il paese, annunciando l'approssimarsi della mezzanotte.

Sembrava ripetersi, come ogni notte, la monotonia di quei suoni che ricordavano insistentemente l'ora del riposo a quanti l'indomani dovevano levarsi di buon'ora per recarsi in campagna o per aprire la propria bottega.

Come d'abitudine, perché d'abitudine si trattava per gli abitanti di quel paesello situato a ridosso di una piccola collina, punteggiata di ginestre, acacie e fichi d'india, dopo la solita frugale cena a base di insalata di pomodori e cetrioli, gli uomini erano scesi in piazza per la consueta passeggiata serale, mentre le donne erano rimaste in casa a rassettare la cucina ed a preparare la colazione per gli uomini che l'indomani si sarebbero recati in campagna: una piccola "truscia"1 con dentro una pagnotta ed un po’ di formaggio.

La passeggiata in piazza sembrava non finire mai: avanti e indietro, da un capo all'altro, dieci, venti volte, incontrando sempre gli stessi amici o conoscenti, i soliti cenni di saluto, a gruppi di tre, cinque; finché qualcuno non decideva di andare al bar per la consueta granita, siciliana s'intende, quella fatta col vero succo di limone.

E lì cominciavano le cerimonie: "Cumpà, che vi offro? (ai compari si dava del Voi, e quasi tutti erano compari, compari di matrimonio, di battesimo, di tavuliddi,2 etc), Volete la granita? Oppure la cassata? Un caffè? Volete un cannolo? O preferite un bicchierino?".

E guai a rifiutare: "No cumpà! Mi offendo! Dovete prendere qualcosa! Magari uno 'scioppino'3 di birra! E che non state bene?".

Se poi alla fine andavi alla cassa per pagare, un cenno fatto da lontano al cassiere, significava che tutto era già stato pagato, offerto, omaggiato, dovuto!

Sarebbe stata una scortesia grave non accettare, perché, in tutta l'Isola, ed in quel paesello in particolare, le cerimonie, i complimenti, i convenevoli, almeno in apparenza, stavano alla base del buon vivere.

Riprendeva ancora il passeggio, su e giù, giù e su, ancora dieci, venti volte, fino alla noia, senza alternative.

Incontravi un lontano cugino ed allora chiedevi: "Turù! Come va?".

"Eh! Che volete cugino! Cuculiàmmu!",4 rispondeva, come per dire "siamo ancora vivi per miracolo, rotoliamo, come può fare un sasso per forza d'inerzia.

Alla stessa domanda un altro invece rispondeva: "Ni la mangiàmmu la spisa!",5 con significato non dissimile dal primo: visto che ancora riusciamo a mangiare qualcosa, sopravviviamo!

Mentre zi Peppi, ottantenne, era sempre categorico: "Eh! Chi vùa! Comu li vicchiarieddi!". 6

Colloqui a mezze parole, sguardi, cenni con gli occhi, tesi a sprecare meno energia possibile, impregnati di pessimismo e di tanta rassegnazione.

E al bar? Se avevi chiesto una birra e zi Angilinu ti portava un'aranciata amara, allora facevi gentilmente notare che avevi ordinato un'altra cosa: e la risposta?

"Ma sì! Beviti questa! Tanto è la stessa cosa!".

Alla fine, stanchi del lavoro, stanchi del passeggio, della vita di tutti i giorni, aspettando chissà che cosa, la giornata poteva considerarsi finita: si udiva un coro di "buona notte" echeggiare ai quattro canti della piazza e la gente sciamare verso le proprie abitazioni mentre solo i più tenaci perditenpo restavano seduti ai bar o a passeggiare con più accanimento che mai.

La giornata era trascorsa senza particolari avvenimenti: unica nota di colore, all'imbrunire "Minicu Lisina", il mitico banditore, baffi alla "ciccu peppi", col suo gran tamburo appoggiato alla enorme pancia, attorniato da un nugolo di ragazzini vocianti, aveva fatto il giro del paese annunciando: "Sangunàzzu callu!". 7

E tanti erano accorsi dal macellaio a comperare per poche lire quel grosso budello, riempito di sangue di maiale, ancora caldo di pentola.

Il solito caldo torrido aveva oppresso il paese, e solo adesso spirava un leggero venticello che invitava a starsene seduti sul balcone di casa o davanti ai "dammusi"8 in compagnia dei vicini o di qualche amico, a chiacchierare del più e del meno: il raccolto del grano andava così così, nel vigneto l'uva cominciava ad ingrossarsi, il raccolto delle mandorle si prospettava buono.

E i pettegolezzi? Erano l'anima di tutto!

Ogni persona che passava veniva squadrata dal capo ai piedi, con la punta degli occhi; quindi cominciavano i commenti, gli apprezzamenti, si passavano in rassegna le vicende di tutta la famiglia.

"Ccà, prima o dopu, a schifìu finisci!"9commentò Linuzza vedendo passare Tanuzzu l'amiricanu, che, diretto verso la piazza del paese, si affrettò a lanciare un cordiale "buona sera a tutti!", alzando il braccio e facendo quasi sventolare la sua vistosa camicia coloratissima.

Come d'abitudine Tanuzzu a quell'ora faceva la sua passeggiata solitaria, più per vedere che aria tirava in paese che per godersi il fresco della notte: perchè dove abitava lui, nella parte alta del paese, di fresco ne aveva da vendere.

Compare Nardu aveva già dato la buona notte perché alle sei sarebbe passato il carretto per caricare i sacchi di frumento da mandare all'ammasso e non ne aveva ancora ultimato la preparazione. Dalla casa di za Filippa arrivava il solito rumore delle sedie che sbattevano contro il gradino, segno che la comitiva si era sciolta ed anche lei si apprestava a rincasare, mentre dalla casa di fronte, zi Luvigi, che abitualmente andava a letto come le galline, emetteva un monotono ronfo che, diminuendo il rumore col passare delle ore, si propagava in modo assordante, favorito dall'eco del cortile.

Da qualche secondo i rintocchi annunciavano che la giornata volgeva al termine.

Sei, sette, otto, nove... il suono dell'orologio arrivava distintamente, a precisi intervalli di qualche secondo.

Angelino sdraiato su una stuoia, sul balcone di casa, li stava contando mentre gli occhi gli si chiudevano dal sonno e la mamma lo invitava per l'ennesima volta ad andarsene a letto. L'indomani sarebbe partito per la colonia, e la corriera non avrebbe certo aspettato i suoi comodi: ma, per abitudine, non si decideva a ritirarsi in camera sua, se prima l'orologio non annunziava la mezzanotte e non ne avesse contato i rintocchi.

Quei suoni lo facevano trasalire dalla gioia, li ascoltava e se li godeva con commozione: non era forse merito suo se quei rintocchi rallegravano tutto il paese e la vallata intorno?

Era stato molto attento, stavolta, ai consigli del nonno che gli spiegava come andasse tirata la "màzzara",10e non come quella volta che, il nonno Federico, porca terra ...

Assieme a Caliddu, che aveva prestato il servizio militare a Torino, capitale del regno, ed aveva acquisito una specializzazione in disegno meccanico, aveva una grande passione per la misurazione del tempo: cosa che lo portò alla costruzione di quell'orologio sistemato sulla torre campanaria della chiesa madre del paese.

Avuto l'appalto dal sindaco, prepararono un progetto di massima, disegnarono tutti i ruotismi necessari ed infine posero mano alla effettiva costruzione dell'apparato, che li impegnò a lungo ma dette loro grande soddisfazione.

L'orologio della chiesa madre funzionava perfettamente: faceva sentire i suoi rintocchi ogni quarto d'ora, poi a mezzogiorno, all'Ave Maria ed a mezzanotte rintoccava "ciccannini".11

Il carburante dell'orologio erano due grosse "màzzare", che facendo da contrappeso permettevano ai vari meccanismi di funzionare.

Due volte al giorno bisognava salire sul campanile, dove era sistemato tutto l'apparato, e ruotando una leva che faceva perno su un tamburo, si arrotolava la lunga corda alla cui estremità era legato il contrappeso: così la carica era assicurata per una mezza giornata.

Noi, ragazzini, facevamo a gara per salire sul campanile con la scusa di aiutare il nonno a dare la carica.

"Porca terra!", ci sgridava, "voi venite su per rincorrere le colombe sui tetti della chiesa e mi "facìti cicaliàri!".12

Ma poi ci accontentava ed era una gioia salire i cento gradini di quella angusta torre campanaria che sembrava non finire mai.

"Attento a tirare la màzzara, non mollare la leva, porca terra, si potrebbe rompere la corda e cadere tutto giù!".

E finalmente la corda si ruppe, nel bel mezzo di una messa, mentre il vecchio arciprete era alla consacrazione.

Fu il finimondo! La grossa pietra rotolando e sbattendo contro i fianchi della piccola torre, fece tanto frastuono che fedeli e parroco scapparono dalla Chiesa, pensando ad un disastroso terremoto.

E per un lungo periodo, a causa di quell'incidente, ci scordammo dell'orologio!

Undici, dodici, tredici... Angelino rimase un po’ contrariato, forse si era sbagliato nella conta dei rintocchi, che sembrava non finissero mai, quando il padre, apparso sul balcone per invitarlo, con tono perentorio, a ritirarsi, trasalì a quei suoni, cupi e precisi, che venendo da oltre il campanile della chiesa rimbombavano per tutto il paese favoriti dal silenzio della notte.

In breve non fu più possibile tenerne la conta: due sordi colpi di fucile, una raffica di mitra, ancora lupara, sempre più distinti e più comprensibili.

"Altro che rintocchi di mezzanotte, sta forse succedendo qualcosa di terribile!" pensò zi Pitrinu.

"Corri a letto" urlò al figlio, "Mariè, sta succedendo il finimondo" gridò alla moglie, e tutto agitato corse in camera ad infilarsi un paio di pantaloni ed una camicia.

Scese le scale di corsa e si ritrovò in strada insieme ad altri vicini che, con lo stesso presentimento, uscivano di casa affrettandosi in direzione della piazza.

Angelino andò a letto angustiato da quegli strani rintocchi: era sua abitudine, prima di prendere sonno, abbandonarsi a ricordare i momenti cruciali della giornata, a fantasticare, come usano fare i bambini.

Quel giorno, poi, era stato particolarmente emozionante: un suo compagno di scuola, mentre giocava sulla lunga scalinata che portava alla scuola, era stato morso da un cane randagio ed era stato un accorrere di parenti, del medico, dei vicini, tra urla di disperazione ed imprecazioni di rabbia: più di quel cane!

Il cane, con la bocca piena di bava, era stato inseguito da alcuni cacciatori ed ucciso, e non restava che sperare che la quarantena si concludesse felicemente.

Avevano persino acceso i ceri a San Calogero, promettendo un pellegrinaggio a Naro, se il bambino fosse uscito indenne da quella brutta avventura.

Adesso quei rintocchi a ripetizione dell'orologio, del suo orologio, che non l'aveva mai tradito finora, lo impensierivano, tanto più che l'indomani sarebbe partito per la colonia, e, se di guasto si trattava, non poteva certo aiutare il nonno nell'eventuale riparazione.

Preso da questi pensieri, restò un po’ in dormiveglia, finché, vinto dalla stanchezza, chiuse gli occhi abbandonandosi ad un sonno profondo.

"Che succede?" urlò Ginetta che, avendo un diavolo per capello, era sempre la prima a sapere ogni cosa ed a dare la notizia agli altri, mentre stavolta, causa la cena degli amici del marito, non era stata pronta a correre al primo rumore sospetto.

"Cci fù 'na sparatina!"13 le rispose una sua vicina, cogliendola di sorpresa, stavolta, "Ma come? Non ne sai niente?".

"Tanù!", gridò Ginetta al marito, carabiniere, "Corri in piazza, dicono ca ccì fù 'na sparatina!".

E Tanu, che forse quella sera aveva bevuto un bicchiere di troppo per festeggiare la buona notizia di una sua probabile promozione, ondeggiando vistosamente, si rassettò la divisa, agganciò la bandoliera e preso il moschetto si avviò a passi spediti verso la piazza, seguito dai suoi compari di bevuta.

"Largo, largo!" gridava Tanu, cercando di farsi strada tra la gente che, ormai numerosa, si era raggruppata all'angolo della piazza, cercando di capire da dove erano partite quelle raffiche, pochi minuti prima.

La confusione era tanta ma forse ancora di più era la paura, perché mentre tutti indicavano la giusta direzione degli spari, nessuno si decideva a muoversi per andare a verificare l'accaduto.

"Minchia, zi Tanù! Chi maschiata! Pari la festa di lu Rusariu!", 14 gridava Turiddu, esaltato da quei botti e che ormai incontenibile si dimenava tra la folla per avvicinarsi all'unica autorità presente.

Avvolto nel suo mantello rosso, elmetto da gladiatore e calzari romani, recuperati in chissà quale teatro di Palermo, Turiddu era la persona meno indicata, in quel momento ed in quel posto, a creare confusione.

Vederlo vestito in quel modo, coperto contro ogni buon senso, dai piedi alla testa, generava sudore anche in chi al caldo era abituato da sempre; ma era il suo modo caratteristico di vivere, poco coperto d'inverno e completamente vestito d'estate, era il suo sorriso da bambinone, il suo modo di fare, che ti inebriava di simpatia e benevolenza.

Se poi incontrava una persona che riteneva "allittrata", raccontava le sue disavventure patite nella campagna di Grecia e cominciava a sciorinare i suoi numeri; eis, duo, treis, tessares... finché compiaciuto dell'attenzione mostrata nei suoi riguardi, ed ottenuto ciò che voleva, spariva ringraziando "sabbanadica prufissù!",15 urlato forte in modo che tutti potessero sentire.

Non era "lo scemo del paese", perché scemo non era, ma piuttosto un folletto simpaticone, che aveva patito i suoi guai in guerra e adesso ne pagava le conseguenze.

"Silenzio Turì!" gridava il carabiniere, "Corri subito a chiamare il maresciallo!"; e Turiddu sparì tra la folla diretto alla caserma, in obbedienza al comando ricevuto.

Il rumore dei colpi, che aveva rotto il silenzio della notte, era finito da un pezzo e adesso si sentivano solo le voci concitate dei più coraggiosi che incitavano a formare un piccolo gruppo di "temerari" per andare a verificare l'accaduto.

I più se ne stavano in disparte ad attendere gli eventi.

Curiosi sì, ma non fessi: finché stavano in piazza a discutere su cosa fosse successo poco prima, a parlare di cose non viste coi propri occhi, ne sapevano e ne dicevano di tutti i colori. Ma dover dire e raccontare cose viste, anche di sfuggita, poteva essere pericoloso per la propria pelle e per la propria famiglia: quindi meglio non vedere o, come si dice, "megliu diri chi ssàcciu, ca chi sapìa!".16

"No!" gridava zi Pitrinu, "Aspettiamo il maresciallo Panzagrossa!".

"Ma che maresciallo e maresciallo!" rispose Giovanni Testacalla, "Bisogna andare a vedere subito cos'è successo: prima che arrivi Panzagrossa passano due giorni!".

"Bada a come parli!" disse risentito Tanu, in difesa dell'arma, ma in cuor suo convinto che Testacalla stava dicendo il vero: chissà in quale taverna stava russando a quell'ora il maresciallo che in fatto di stigliole17e vinelli superava chiunque altro in paese.

E visto che Tanu, l'unico che in quel momento rappresentava l'autorità, tentennava, Testacalla che in simili circostanze era sempre il primo a muoversi, prese in mano la situazione e disse: "Io vado! Chi mi vuol seguire mi segua!", e s'incamminò con passo spedito verso la chiesa, seguito da altri due coraggiosi.

"Andate avanti!", disse Tanu, "io vado in cerca del maresciallo, ma siate prudenti!", e, girati i tacchi, sparì in un vicolo diretto alla vicina osteria, sicuro di trovarvi il maresciallo Panzagrossa.

 

Cap. 2 - Tanuzzu e Rosina

Le vicende del ritorno in paese di Tanuzzu, in quei giorni, erano sulla bocca di tutti.

Contadino sveglio e "allittratu",18 per fame, come tanti altri, era emigrato in America, subito dopo l'ultima guerra, giurando di non far più ritorno in paese, anche se grande era l'amore che lo teneva legato alla sua Sicilia ed al suo paesello in particolare.

Dopo la scuola elementare, aveva frequentato alcune classi della scuola media nel paese vicino, viaggiando, ed a volte anche a piedi: ma i suoi, più che di un letterato avevano bisogno di due braccia per coltivare i campi, date le scarse possibilità economiche.

Aveva continuato a leggere libri e giornali, aveva seguito le lotte sindacali dei braccianti, si era dato alla politica con risultati deludenti, non perché ne fosse incapace, ma perché le sue idee in seno al partito erano osteggiate dai capi i quali, piuttosto che pensare alle miserie altrui, rimpinguavano sempre più i loro magazzini ed i loro conti in banca, con metodi non sempre corretti.

Deluso ed amareggiato, decise di tentare l'avventura americana che, in quel periodo, prometteva agli occhi dei più disperati libertà e benessere.

Di tanto in tanto dava notizie ai suoi, scriveva che si era subito ambientato e che il lavoro non gli mancava: ma dalle sue lettere traspariva un senso di insofferenza e qualche accenno di nostalgia per il suo paese lontano.

Dopo qualche tempo era giunto ai suoi il famoso pacco, che tutti gli emigrati spedivano, segno della opulenza e del benessere che regnava oltre oceano.

Era un divertimento aprire quei pacchi, ricolmi di vestiti femminili dai colori sgargianti, di scarpe dalla foggia stravagante, scampoli di tessuti, palloncini, barattoli di aspirine, sigarette.

Le sigarette andavano a ruba, ma cosa farsene di tutti quei vestiti colorati, quando le donne paesane perennemente vestivano di nero, per lutti remoti o recenti, e perché no, futuri?

Allora si immergevano tutte quelle stoffe in enormi calderoni d'acqua bollente e se ne adeguava il colore alla realtà dolorosa della vita di tutti i giorni.

Da qualche mese era tornato definitivamente in paese, con un buon gruzzoletto.

Ai curiosi, e ce n'erano tanti, che gli chiedevano come "se l'era passata" in America, raccontava di aver fatto dei buoni "businissi"19 col commercio, lavorando nel porto di New York, gestendo assieme ad "amici" una pescheria che rendeva molto bene.

Ma le storie di Tanuzzu ai più smaliziati non risultavano tanto chiare, anzi puzzavano più del suo pesce, ed era opinione comune che si fosse invischiato in storie di mafia e malaffare a tal punto che, per salvare la pelle, era stato costretto a tornarsene in Sicilia.

E quella vistosa cicatrice che faceva bella mostra di sè sulla guancia sinistra? A volte raccontava di essersela procurata cadendo da una moto, a volte di essersi ferito con un coltello scivolando in pescheria: ad ogni modo, sembrava una ferita profonda e mal curata, sicuramente effetto di una coltellata.

I baffi poi gli davano un aspetto più serioso ed aumentavano la sua età di qualche anno rispetto ai quaranta che da poco aveva superato.

In paese aveva lasciato una sorella, Rosina, che, come spesso accadeva, era rimasta zitella, intenta com'era ad accudire ai suoi vecchi, rifiutando più di un'offerta di matrimonio.

E dire che la "Pipituna", una sorta di istituzione paesana in fatto di intermediazioni matrimoniali, ce l'aveva messa tutta a convincerla per farle accettare un buon partito, ma era rimasta irremovibile nelle sue decisioni.

Questa, vestita a festa ed avvolta nel suo scialle ricamato a mano, perché possedeva un telaio ed era un'abile ricamatrice, venne accolta, quale messaggera d'amore, con pasticcini e rosolio, perorò la causa di Gilormu,20presentandolo come un buon partito, un onesto lavoratore, proprietario di un buon pezzo di terra che avrebbe lavorato con le sue proprie mani; non parlò solo d'amore, la Pipituna, perché compito suo era prospettare affari e non fare la ruffiana, come teneva a precisare.

Fosse dipeso soltanto da lei forse quel Gilormu l'avrebbe pure sposato: le faceva una corte sfrenata, secondo le usanze del paese, mangiandosela con gli occhi quando la incontrava per strada o quando alla domenica, all'uscita della chiesa, dopo la "messa sullena",21 puntualmente si faceva trovare incolonnato assieme agli amici all'angolo della piazza, a lanciare sguardi ammiccanti.

Era forse l'unico momento sacro della settimana per passare in rassegna le "bellezze" del paese: le ragazze, indossato il vestito più elegante ed il fazzoletto più sgargiante, si recavano alla messa delle undici, ben sapendo che quel collaudato rituale si sarebbe ripetuto solo da lì a una settimana.

E quel "mercato" settimanale era l'unica occasione per mettersi in bella mostra e sperare che qualche "acquirente" si presentasse in casa di "la Pipituna" con l'incarico di chiedere la mano di questa o quell'altra.

La decisione dei genitori era stata negativa: non poteva sposare Gilormu per via di certi rancori e certe storie di terreni che questi aveva avuto con un loro lontano parente.

E poi quel nome, "Gilormu"! Non era sinonimo di "stupidità"? Il reale motivo, però, altro non era che il loro egoismo, perché via Tanuzzu e sposata Rosina, chi avrebbe avuto cura di loro, anziani e malandati?

Rosina in un primo momento se l'era presa, ma col passare del tempo il suo desiderio di matrimonio si era un po’ affievolito per poi scemare completamente.

Gilormu, che nel frattempo era emigrato in Francia, faceva ritorno in paese di tanto in tanto, ma non la degnava più di uno sguardo.

Morti i genitori, in cuor suo sperava che la "Pipituna" tornasse a farle visita per riferirle di qualche offerta: questa, però, non solo non si faceva più viva, ma quando occasionalmente la incontrava, la degnava soltanto di un freddo saluto, per non essere scortese.

Non più giovanissima, ma ancora piacente, manteneva inalterato il suo atteggiamento riservato, sì da farla apparire superba agli occhi della gente, mentre in cuor suo avrebbe fatto qualsiasi cosa per manifestarsi com'era e come si sentiva: semplice e schietta.

Ora, il ritorno del fratello, se da un lato le dava più sicurezza, dall'altro la rendeva timorosa che potesse prendere il ruolo dei vecchi genitori e che per lei si potesse spegnere definitivamente quel lumicino di speranza che ancora covava in serbo.

Quel Rubamazzu da un po’ di tempo la guardava insistentemente, ma con circospezione, i loro sguardi si erano incontrati in più di un'occasione: Rosina ne era turbata ed il suo animo era entrato in confusione totale.

Sapeva benissimo chi era Rubamazzu, un gran furfante e mafioso, almeno così si mormorava in paese, ma pur sempre una persona di rilievo e molto influente per la carica politica che rivestiva.

Finché un giorno, con la scusa di una pratica, Rubamazzu la convocò in ufficio, cioè a casa sua, per farle certe confidenze molto riservate: non parlò di matrimonio, altrimenti avrebbe mandato un suo messaggio tramite la Pipituna, ma fece certe proposte d'amicizia, di rapporti poco chiari, che alle orecchie di Rosina suonarono come inequivocabile offesa.

Non era il caso, secondo lui, di fare ricorso ai vecchi sistemi, sempre in auge nel paese, tanto più che, morti i genitori, era rimasta sola a decidere della sua vita.

Rosina, che invece, semplice e riservata, era rimasta ancorata agli schemi di sempre, non gradì la frettolosa ed equivoca iniziativa di Rubamazzu; rossa di rabbia in viso, uscì dalla casa del sindaco sbattendogli la porta in faccia ed imprecando che, prima o poi, gli avrebbe fatto pagare caro quell'odioso affronto.

Non era una di quelle bigotte che tutte le mattine si presentavano alla balaustra a ricevere la comunione per poi, messo il naso fuori dalla chiesa, passare tutta la santa giornata a spettegolare coi vicini di casa o a fare la puttanella per i vicoli del paese. Avrebbe voluto essere trattata con rispetto e dignità, e non essere convocata in ufficio per sentirsi offendere a quel modo.

E la gente? Per giorni e giorni la povera Rosina fu sulla bocca di tutti i paesani, messa alla berlina ed additata come la svergognata che aveva persino osato recarsi nella casa del sindaco, pur di realizzare i suoi sporchi piani.

Così andavano le cose in quel paesetto di poche anime, dove facilmente la vittima veniva scambiata per carnefice.

Rosina sopportava con pazienza ed evitava di incontrare quel Rubamazzu che le aveva rovinato la vita e la reputazione.

Tornato il fratello Tanuzzu dall'America, si era guardata bene dal riferire i particolari di quell'incontro, evitando così di procuragli ulteriori problemi.

Tanuzzu, onesto contadino, emigrando in America in cerca di fortuna, per sopravvivere aveva dovuto arrangiarsi, adattandosi a vari mestieri ed era inevitabile che venisse in contatto con personaggi poco raccomandabili, di cui era piena "Brucculinu".22

"Ti offriamo un lavoro pulito" gli aveva detto zi Carmelu, a cui era stato raccomandato da un lontano parente incontrato per caso nel porto.

"Devi solo fare il giro dei ristoranti per consegnare il pesce e riscuotere i soldi: finito il giro, sei libero di fare quello che vuoi".

E lui quel lavoro l'aveva preso sul serio, pensando si trattasse di un'attività tranquilla, ignaro, in un primo momento, in quale torbido giro di malaffare e malavita navigasse zi Carmelu, che aveva subito stimato persona amabile ed altruista.

Resosi conto che andava in giro non a riscuotere il conto del pesce appena consegnato, ma l'odioso "pizzu"23 imposto dagli uomini della mafia, non poteva tirarsi indietro tanto facilmente, perché in quattro e quattr'otto gli avrebbero fatto la pelle! Che fare? Andare da zi Carmelu e dire che non se la sentiva più di continuare a guadagnare soldi sporchi? Sarebbe stata un'offesa grave per lui e per tutta la sua "famiglia".

Bisognava aspettare l'occasione buona per cercare di tirarsi indietro.

E l'occasione, tragica, venne quando, a causa di un ammanco, Tanuzzu fu accusato di essersi appropriato di un incasso mai visto e mai riscosso.

Sparì per un po’ di tempo dalla circolazione finché non riuscì, fortunosamente, a salire su un bastimento per fare ritorno a casa, in Sicilia.

Tanuzzu raccontava le meraviglie viste in America, parlava di radio, televisione, di "talafùnu"24 e di tante altre "americanate" da lasciare a bocca aperta quanti lo ascoltavano, che alla fine gli chiedevano: "Ma perché sei tornato in Sicilia?".

Tanuzzu, abilmente, cambiava subito discorso e cominciava a parlare di politica, di sindacati, di diritti non rispettati.

E quella pistola che Rosina aveva scoperto nella custodia delle scarpe? A che serviva?

Se era un residuato bellico, come diceva Tanuzzu, come mai era così lucida e ben conservata?

"Per difesa personale!" rispondeva questi, "Con tutti i malandrini che girano in paese, non si può mai sapere, un giorno potrebbe servire!".

Sistemata la casetta ereditata dai suoi, non aveva trovato di meglio che darsi alla politica, visto che il lavoro svolto in gioventù non si addiceva più alle sue esperienze maturate all'estero.

Lavorare di vanga e falce, oltre che essere massacrante, non gli avrebbe elargito le soddisfazioni di benessere che aveva vagheggiato andandosene in America e che ancora andava sognando.

Ma procurarsi spazio nel partito al potere in paese non era più facile di qualche anno prima, cosicché si trovò a dover calpestare i piedi a gente che, in fatto di mafia e politica, non intendeva essere seconda a nessun altro.

Immaginarsi se Rubamazzu potesse cedere il passo ad uno "scassapagliaru" 25come Tanuzzu, senza né arte né parte!

Questi, poi, abituato ai sistemi americani, diceva che li avrebbe messi tutti in riga, che li avrebbe rivoltati come un calzino, dimenticando, o volutamente ignorando, come aveva lasciato le cose prima di emigrare.

Se la realtà americana l'aveva abituato ad usare le maniere forti, scordava che la realtà siciliana era la progenitrice di quell'altra e che un sistema così collaudato e compenetrato, ancorché vecchio, resisteva a qualsiasi usura.

Cosicché tra i due era sorto, e si alimentava sempre più, un rancore che non prometteva niente di buono, soprattutto in vista delle prossime elezioni comunali.

Occuparsi attivamente di politica, in paese, significava fare il guardaspalle ai signorotti al potere o mettersi contro costoro con risultati facilmente immaginabili.

Fare il campiere, il sorvegliante, per conto di Rubamazzo avrebbe significato restare assoggettato alla sua volontà, essergli fedele come un cagnolino, assecondarlo ed ossequiarlo, da servo a padrone.

Già da piccolo aveva dovuto patire pene inenarrabili quando, ancora in tenera età, il padre, per arrotondare le sue magre entrate e cercare di lenire le sofferenze di una fame atavica, lo aveva mandato in miniera "a carriàri"26 il minerale estratto nel sottoterra, a fare cioè, come si diceva, "u carùsu".27

"Per farti le ossa!" gli aveva detto il padre: ma più che irrobustirle, il povero Tanuzzu rischiava di rompersele le ossa, se un giorno il suo maestro delle scuole elementari non avesse convinto tutta la famiglia a farlo continuare negli studi, con l'assicurazione che sarebbero arrivati dei piccoli aiuti economici.

Ciò nonostante, con suo grande rammarico, aveva dovuto interrompere lo studio e dedicarsi alla coltivazione dei campi, perché, più che d'aiuto, si trattava di elemosina che gli consentiva al massimo di pagarsi i libri di testo.

Da qualche giorno era giunto in paese uno strano personaggio, il famoso zio d'America. Che venisse dall'America era fin troppo chiaro, ma non si capiva bene quali nipoti fosse venuto a cercare!

Un pancione enorme, un altrettanto enorme cappello, sigaro sempre in bocca, dollari a profusione: lasciava mance spropositate al bar, offriva sempre da bere a quanti, curiosi o pseudoparenti, gli giravano intorno, chiamava "nipù"28i ragazzini sempre pronti e disponibili a qualche servigio in vista di laute ricompense.

Tanuzzu l'aveva notato più di una volta ed evitava diligentemente di incrociarlo ed in più di una occasione era riuscito a schivarlo all'ultimo momento: la sua visita in paese gli puzzava e temeva che potesse avere qualche riferimento alla sua fuga dall'America.

Ma questi non lo cercò né tentò di parlargli: e come inaspettato era stato il suo arrivo, altrettanto improvvisa fu la sua partenza: non senza avere prima ringraziato ed ossequiato Rubamazzu della calda accoglienza avuta in paese dagli amici.

Per Tanuzzu fu un sollievo non dover più sostare all'angolo della piazza a controllare che non ci fosse lo zio americano prima di dirigersi verso il bar: in fretta si dimenticò di quella strana apparizione che tanto gli ricordava i suoi pochi anni, indimenticabili, trascorsi oltre oceano.

Il suo impegno quotidiano contro i soprusi e le angherie che non mancavano di angustiare buona parte dei coltivatori, lo portavano quotidianamente in campagna, nelle aie, a parlare coi contadini alle prese coi gravi problemi quotidiani.

In occasione della festa del santo patrono, come da consuetudine secolare, veniva costituito un comitato che, dovendo presiedere ai festeggiamenti, si impegnava a raccogliere i fondi necessari per le spese inerenti le luminarie, la banda musicale, i fuochi d'artificio, e tutto quanto necessario alla buona riuscita della festa.

Bardati due muli a festa, sella e bisaccia dai caratteristici colori siciliani, pennacchio pettegolo e coloratissimo, grande immagine del Santo piazzato in mezzo alla fronte degli animali, il comitato girava di casa in casa per chiedere l'obolo, e tutti contribuivano secondo le proprie possibilità economiche.

I contadini preferivano contribuire in natura, per cui il comitato, nella stagione del raccolto, faceva il giro delle campagne, soprattutto per le aie, incassando il contributo ai festeggiamenti in frumento, fave od altri prodotti che, venduti, si andavano ad aggiungere ai soldi raccolti per altre vie.

Ed i contadini erano felici di riempire le due capienti bisacce che caricate sul dorso del mulo, portavano l'insegna della Madonna o di S. Giuseppe, che si andava a festeggiare.

Meno felici e contenti erano di riempire le altrettanti capienti bisacce del secondo mulo che portava, non viste, le insegne di quel furfante di Rubamazzu e dei suoi accoliti mafiosi: era un taglieggiamento bello e buono, alla vista del sole, cui nessuno aveva il coraggio di opporsi, pena ritrovarsi il raccolto bruciato od il vigneto divelto.

Tanuzzu l'amiricanu lo sapeva bene e, forte dell'appoggio di alcuni amici che costantemente avevano sempre pagato e che adesso si rifiutavano di versare l'odioso tributo, cercava proseliti nella speranza di smuovere quel radicato sistema di odioso esproprio mafioso.

Ma s'illudeva che Rubamazzu, che aveva cento occhi dappertutto, non venisse a conoscenza della sua pericolosa quanto contagiosa iniziativa!

E poi "da che santo veniva la predica!": proprio lui, Tanuzzu, che cosa aveva fatto in quegli anni di permanenza in America? Non certo beneficenza o elemosina per conto di zi Carmelu, ma il medesimo odiato mestiere degli sgherri di Rubamazzu, che standosene con le mani in tasca e la pipa in bocca dalla mattina alla sera, si ritrovava con i magazzini pieni senza aver seminato o arato un solo metro di terra.

Questo pensiero lo ossessionava più d'ogni altra cosa e non gli dava tregua, notte e giorno.

Unico sollievo il fatto di essere uscito appena in tempo da quel giro di malaffare e di essersi pentito del danno procurato ad onesti lavoratori, per lo più suoi conterranei.

In ogni caso si era buttato a capofitto in difesa dei suoi compagni contadini, con testardaggine, tramando ai danni di Rubamazzu, ignaro delle conseguenze e dei guasti che simile comportamento avrebbe potuto apportare.

 

Cap. 3 - Turiddu e Cantalanotti

Panzagrossa, giunto in paese da qualche anno, si era subito trovato a suo agio e, da come aveva ramificato le sue radici, sembrava volerci restare a vita.

Sulla cinquantina e scapolo, abitava in caserma riverito dai cittadini, più per il fatto di essere un forestiero che per l'autorità che rappresentava. Ogni forestiero che giungeva in paese era infatti adulato e trattato con ogni riguardo, per quel falso senso di ospitalità che regolava la vita di tutti i giorni.

Da autentico e buon napoletano, amante della buona cucina e del buon bere, e per di più maresciallo, aveva subito trovato amici e adulatori con cui passare intere serate in allegra compagnia nella bettola di zi Carminu, rimpinguando sempre più la sua già gonfia pancia.

Tanto, le indagini sugli omicidi, sugli abigeati, sui furti perpetrati assai spesso nel suo circondario, non lo impensierivano più di ogni altra pratica burocratica.

I tre avventurosi capitanati da Testacalla erano appena partiti che, trafelato e madido di sudore, novello Mercurio, arrivò Turiddu con la nuova che il maresciallo in caserma non c'era, anzi, mancava da parecchie ore.

E, sventolando il suo rosso mantello e saltellando sul lastricato di pietra lavica coi suoi strani calzari, seguì i tre che, superata la chiesa, si immettevano in un viottolo che portava diritto alla strada provinciale.

Intanto il paese si era completamente svegliato, come fosse già l'alba: una ad una le finestre si erano illuminate, le porte aperte, la gente era uscita per strada.

Gli uomini, dirigendosi verso la piazza del paese si accompagnavano agli altri incontrati per strada e si chiedevano a chi mai avessero potuto sparare.

"Cumpà!"29 diceva uno "in paese sono tutte brave persone, certo c'è sicuramente qualche malucriatu30 ma perché ammazzarlo così, di notte...

E poi sono anni ormai che non succedono più fatti di sangue, è sparita, sì, qualche persona che potrebbe essersi imbarcata per l'America..." "O sottoterra" gli rispondeva un altro, "anzi è più facile che siano sottoterra! Senza un becco d'un quattrino come facevano ad andare in America? E poi i parenti, la moglie, i figli, l'avrebbero saputo, sarebbero stati richiamati anche loro...Invece li stanno ancora aspettando, poveri cristiani, piangono dalla mattina alla sera da dieci anni. Le indagini continuano, Panzagrossa tutti i giorni fa la sua brava passeggiata all'orto raccontando invece di essere stato di pattuglia alla ricerca di....".

"Di sta minchia!" gli rispose un terzo, "Quello pensa solo a mangiare trippa e stigliole, altro che indagini! Scommetto che in questo momento è alla bettola di zi Carminu col suo degno compare Tanu!".

"Cumpà! Dicono che i morti siano due o forse di più, pi mia, ci fu una carneficina! I colpi sono stati tanti: venti, trenta, per una persona ne bastano due, quattro, ma venti!".

Le donne invece, affacciate alle finestre o ai balconi, discutevano animatamente dell'accaduto, sperando che i rispettivi mariti, scesi in piazza, non commettessero fesserie: a loro non era concesso allontanarsi da casa, soprattutto a quell'ora della notte.

Ginetta, che aveva già ricevuto le prime informazioni, dispensava a piene mani notizie con particolari e dettagli, come compete ad un agente dei servizi segreti!

Era o non era la moglie di Tanu? E chi comandava in casa: Forse Tanu? Ed in caserma: Forse Panzagrossa? Non andava forse tutti i giorni a prendere notizie e a dare ordini, anche se la gente mormorava che andava a buttarsi tra le braccia del maresciallo?

Era per lei il primo omaggio dei carrettieri che giungevano in paese per vendere la frutta, "u pisciaru" cominciava a "vanniàri"31 solo dopo essere passato da casa sua ed averle omaggiato il pesce migliore, e così per l'olio, per il sale, per tutto.

"Segnate, diceva, segnate, che domani vi pago!".

Intanto Tanu e Panzagrossa organizzavano "tavuliddi", mangiavano e bevevano a sbafo, mentre le indagini potevano attendere; e poi erano solo in due, bisognava fare i conti con la burocrazia, il caldo, etc..

"Tanto un morto ammazzato sempre morto è: non saranno certo le indagini a farlo risuscitare!

L'importante è la salute!", rispondeva a chi le chiedeva novità su certi fatti accaduti l'anno prima.

E lei di salute ne aveva, infatti; erano gli altri che pativano la fame e deperivano giorno dopo giorno: non avevano lo stipendio del marito, loro, né gli omaggi quotidiani, a lei riservati.

I vicini osservavano e memorizzavano ogni cosa, evitavano di essere presenti a certe situazioni, ma, da dietro una finestra appena accostata o dallo spioncino della porta, non si lasciavano sfuggire il minimo dettaglio.

Zi Luvigi era ormai stufo di aspettare che gli pagasse due paia di scarpe fatte su misura in occasione della festa del Rosario dell'anno scorso: era certo che andasse a finire così.

Prima cominciò a chiedere il pagamento quasi sottovoce, per piacere, poi con più insistenza, infine, persa la pazienza, ogni volta che Ginetta passava davanti al suo banchetto da ciabattino, erano urla e bestemmie a tal punto che questa era costretta a cambiare strada per evitare, diceva lei, di farlo spedire diritto in galera.

E di strade ne doveva cambiare più d'una visto che anche la "putìa"32del vicolo vantava parecchi crediti ed aveva "librette" grosse così, intestate a suo nome, presso il forno ed il macellaio.

Ed il sarto, poverino! Al marito aveva confezionato persino una divisa d'ordinanza.

"Non preoccuparti!" gli aveva detto Ginetta, "tanto lo Stato paga ed in contanti: non appena arriva "la vaglia"33 i soldi sono tuoi!".

I soldi erano infatti arrivati, dopo un mese, ma erano spariti per altra destinazione.

E i mesi passavano e Rosario, aspettava, aspettava.

Aspettava d'incassare i soldi di Ginetta, di Cirlicàca, di Calaciùni, di Turiddàzzu, etc..

"Haiu fattu vistita di ccà a Marianopuli, ma n'haiu siggiùtu di ccà a la Beniamina!"34 urlava quando pensava ai tanti lavori fatti ed ai pochi soldi incassati.

Finché, disperato, per fame, decise di emigrare in America in cerca di fortuna.

La grande piazza del paese si era animata come fosse un giorno di festa, quando la gente, in attesa dei fuochi di artificio, finalmente si ferma, dopo una serata di sfrenato passeggio da un capo all'altro, e si domanda come saranno gli spari, chi sono gli artificieri in gara, dove convenga appostarsi per meglio assistere allo spettacolo.

Solo che, stavolta, i botti c'erano già stati: e che botti! Ma gli artificieri? Chi e perché aveva preparato questo spettacolo imprevisto?

Non certo Sciortino o Picone 35che per S.Giuseppe avevavno fatto tremare le case dalle fondamenta, tanto forti erano stati i botti, ed uno dei due ci aveva pure rimesso due dita!

E mancava pure la banda musicale che con le sue marcette suonate in sordina ricordava che quei botti, in fondo, erano botti d'allegria, di festeggiamento del Santo.

Pure i bar avevano riaperto i battenti appena chiusi, data l'ora, e riportavano in piazza tavoli e sedie, nella speranza di poter vendere qualche caffè o qualche granita in più, per arrotondare il magro incasso della giornata.

Intanto Testacalla, Turiddu e gli altri, giunti alla strada provinciale, si fermarono sotto le grandi acacie che ne costeggiavano i bordi, tendendo l'orecchio nella speranza di udire qualche segnale o messaggio di aiuto.

La luna ormai era bassa all'orizzonte, verso le colline, ma con quel poco chiarore che ancora emanava era possibile distinguere eventuali persone o cose fino alla curva che la strada sterrata faceva prima di allontanarsi in direzione del paese più vicino.

Il silenzio della notte era rotto solo da un monotono e pauroso canto di una cucca,36 cui faceva eco, di tanto in tanto, un altro rapace appostato su qualche albero nelle vicinanze.

Turiddu, che abitualmente saltellava e si dimenava, se ne stava silenzioso appoggiato ad un tronco d'acacia a mangiucchiare i bianchi e profumati fiori, strappandoli uno ad uno da un rametto che aveva appena divelto dall'albero.

"Silenzio!" disse Testacalla, "sento dei suoni in lontananza", e avvicinò il palmo della mano all'orecchio destro, in modo da amplificare eventuali rumori, dirigendolo verso la curva che la strada faceva in quel punto.

Testacalla era sì coraggioso, come stava dimostrando in questa circostanza, ma più che coraggio la sua era impulsività, improvvisazione, per cui adesso, a mente serena, cominciava a riflettere sulla situazione che si era venuta a creare e cominciava a nutrire qualche timore.

"Ma chi me l'ha fatto fare!" rifletteva, "in fondo cosa m'importa di andare a cercare un morto ed eventuali assassini? Questi mica scherzano: se hanno ammazzato una persona, a farne fuori tre o quattro non ci pensano un solo istante. Forse sarebbe meglio tornarsene indietro, in paese, dove Panzagrossa e Tanu se la spassano in qualche bettola, diversamente a quest'ora sarebbero quì anche loro".

Mentre pensava queste cose, cominciava a udirsi più distintamente quella voce che prima si sentiva appena in lontananza.

"Si sta avvicinando qualcuno che canta, lo sento, sento gli zoccoli di un cavallo"; e mentre pronunziava queste parole, effettivamente si intravide un'ombra e quindi un cavallo con due enormi "rutuna"37di paglia ed in sella una persona che cantava a squarciagola: "Ammàtula t'allìsci e fà cannòla, ca lu santu è di màrmaru e nun suda!". 38

Poco dopo la nuova apparizione fu a qualche passo dall'appostamento dei quattro.

"Lo riconosco!" disse Turiddu, "è Cantalanotti!" ed in men che non si dica, felice di vedere una persona conosciuta in quella situazione imbarazzante, con un salto felino, sbucò da sotto l'albero d'acacia, e con quel suo strano abbigliamento da guerriero romano, svolazzando sulla strada e sollevando una nuvola di polvere, si piantò davanti al cavallo di Cantalanotti, urlando e gesticolando.

Uno spavento incredibile assalì Cantalanotti ma soprattutto il cavallo che imbizzarritosi si sollevò sulle zampe anteriori facendo sobbalzare all'indietro Cantalanotti ed il carico di paglia, e partendo quindi a tutta velocità si diresse verso il paese.

Turiddu, atterrito a sua volta per la fuga del cavallo e per l'urlo disperato emesso da Cantalanotti, rovinò a terra rotolando sul selciato, restando prigioniero del suo rosso mantello.

"Aiuto!", gridava, "Aiuto! Soffoco!" mentre Testacalla e gli altri due tentavano di scartocciare quel folle che urlava e gesticolava sempre più.

Cantalanotti era un giovanottone che, come tanti altri, era dedito alla coltivazione della terra: e questo era il momento in cui, terminata la trebbiatura del grano o delle fave, si dedicava al trasporto della paglia dalle aie alle pagliere, in paese. La paglia poi veniva utilizzata come biada per le bestie o serviva al forno per la cottura del pane.

Ed era famoso per le canzoni d'amore, di storie fantastiche o semplicemente di filastrocche di vario genere che sapeva cantare in circostanze come una serenata, o che faceva echeggiare per le campagne, specialmente di notte.

Durante la trebbiatura del grano era uno spettacolo, soprattutto per i bambini che correvano ad assistere e che rimanevano a bocca aperta: piazzato in mezzo all'aia col suo fazzolettone rosso in testa, come fosse un pirata, per difendersi dal sole, teneva con la sinistra tre corde legate ad altrettanti muli che roteavano sull'aia calpestando le spighe, mentre con la destra faceva schioccare una frusta per incitare le bestie a quel massacrante lavoro. E cantava nenie e filastrocche con un crescendo di eccitazione che lasciava tutti a bocca aperta: "Ah!.. la mula baggianè! Ah!..ca veni lu santu e ti porta via...". 39

Ed i muli giravano senza sosta, facendo perno su Cantalanotti, come fosse un mulino a vento.

Adesso, alla mercé del suo cavallo impazzito, viaggiava a tutta velocità verso il paese, tentando di mantenersi in equilibrio tra quei due rotoni di paglia che, sorretti da due piccole corde incrociate sulla sella della bestia, ondeggiavano paurosamente da una parte o dall'altra, a seconda della superficie della strada, rischiando di rovinare a terra.

A nulla valeva la sua abilità di cavallerizzo tante volte mostrata durante la giostra che si teneva intorno alla chiesa in onore del santo patrono: più incitava il cavallo a rallentare la sua folle corsa, più questo, agitato dalla diabolica apparizione di Turiddu, correva.

Anche Cantalanotti era rimasto sconvolto, come e forse più del suo cavallo, da quella fugace apparizione: fosse stato un fantasma?

Ma lui ai fantasmi non credeva, anzi spesso era stato lui stesso a fare da fantasma, di notte al cimitero, quando, in vena di burle con gli amici, si era appeso ad un albero svolazzando da un ramo all'altro avvolto nel classico lenzuolo bianco. Forse la tanto famigerata "biddina"40 di cui molto si fantasticava in paese?

Ma che razza di mostro era questa "biddina"?

Dicevano di averla vista in una contrada ricca d'acqua sulfurea, di palme e di aranci! Che mostro esigente doveva essere! E la sua testa?

Grossa come una grancassa, con due occhi di fuoco! Sulla sua coda niente di preciso, ma scommetto che qualche malcapitato avrà anche avuto il tempo di misurarla!

Si degnava comparire di notte con gran frastuono, perché con quella mole, muoversi tra le canne non doveva essere tanto semplice: quindi il malcapitato, a quella orrenda vista, se la dava subito a gambe, urlando: "La biddina!".

Ma questa era una "biddina" agile, saltellava, urlava, sghignazzava! Svolazzava, avvolta in un mantello rosso!

E quello strano cappello da guerriero in testa?

Per Cantalanotti non era il momento di pensare al mostro, ma doveva solo cercare di stare in sella e di bloccare la sua bestia innervosita, se non voleva finire contro un muro o dentro le fogne a cielo aperto, che in quel punto costeggiavano la curva.

 

Cap. 4 - Rubamazzu

Tanu intanto, raggiunta l'osteria, aveva trovato Panzagrossa che, appartato in un angolo del locale, quasi riverso su un tavolo, con la fronte appoggiata sul braccio destro, russava sonoramente.

La sua improvvisa apparizione mise in apprensione l'oste che, alzatosi di scatto da dietro il bancone, gli andò incontro chiedendo se fosse successo qualcosa.

"Come!" disse Tanu, "non avete sentito nulla?

Possibile che in questa bettola non fate altro che mangiare e russare? Sveglia subito il maresciallo perché pare che abbiano ammazzato delle persone, sullo stradale!".

"Ho cercato di svegliarlo" rispose zi Carminu, "ma non riesco: deve aver preso una bella sbornia, il comandante".

"Lascia fare a me" disse Tanu, e presa una caraffa d'acqua innaffiò violentemente Panzagrossa che, con una smorfia di fastidio ed una imprecazione, scattò in piedi, facendo rovesciare la mezza bottiglia di vino che, sopraffatto dal sonno, non era riuscito a tracannare.

Si stropicciò gli occhi e sistemandosi la camicia dentro i pantaloni, alla vista di Tanu urlò qualcosa di incomprensibile che aveva a che fare con Ginetta, e quindi asciugandosi la faccia con un tovagliolo disse: "Chi minchia, ridi, tu!" rivolto a zi Carminu che continuava a sghignazzare dietro al bancone, ed a Tanu: "Con te faremo i conti in caserma!".

"Marascià!" disse Tanu, "correte subito in piazza, pare abbiano ucciso delle persone!".

"Ed è questo un buon motivo per darmi la benedizione con la cannata41 piena d'acqua? Non è certo la prima volta che in questo paese si ammazzano come cani!" rispose imperturbato Panzagrossa.

E seccato, prese la bandoliera appesa al muro ed il berretto con la pistola d'ordinanza che vi aveva riposto dentro e, bevuto un bicchier d'acqua, che gli sarà sembrata veleno, si avviò verso l'uscita della bettola sorretto da Tanu: questi non era avvezzo a frequentare osterie e, ordine di Ginetta, le sbronze poteva prenderle solo in casa, con gli amici.

Appena fuori, chiese a Tanu di fare due passi per riprendersi mentre l'avrebbe informato dell'accaduto.

E Tanu gli raccontò dei colpi sentiti in lontananza, di Testacalla che era partito alla ricerca di eventuali cadaveri, della gente riunitasi a commentare l'accaduto.

"Bene!", disse Panzagrossa "andiamo a vedere": e si avviarono verso la piazza.

La gente che a capannelli sotto i lampioni continuava a discutere facendo le più strane supposizioni, alla vista di Panzagrossa e Tanu, che avanzavano con atteggiamento marziale, manco avessero liberato la regina Bianca dalle grinfie del Cabrera, o avessero salvato il povero fra Decu la Matina dal rogo dell'inquisizione, ammutolì, e mosse loro incontro.

All'improvviso si udì uno scalpitio di cavallo che avanzava a tutta velocità, una grande ombra si proiettò sulla strada che portava verso la piazza, un tonfo, un urlo di imprecazione, due rotoni di paglia che rololavano, un cavallo impazzito che, liberatosi del carico, si dava ad una corsa sfrenata.

Il povero Cantalanotti era riuscito a mantenersi in equilibrio sulla veloce bestia, ora attaccandosi alla criniera, ora riportando in assetto i rotoni di paglia che ondeggiavano paurosamente, finchè, adesso, perso l'equilibrio rovinava paurosamente a terra, sotto gli occhi di Panzagrossa, Tanu e quanti si trovavano in piazza.

"Che figura da merlo!" pensò Cantalanotti che, rialzatosi prontamente, accennò ad una rincorsa per riacciuffare il cavallo che ormai era sparito in una viuzza buia.

"I diavoli!" urlava Cantalanotti, "il cavallo ha visto un diavolo ed è impazzito!".

"Calma!" urlò Panzagrossa, "calma! raccontami cos'è successo! Andate a prendere del vino, anzi dell'acqua!", richiudendo il fodero della pistola che aveva tentato di estrarre ed avvicinandosi a Cantalanotti sudato e spaventato della brutta avventura appena corsa.

All'accenno del vino da parte di Panzagrossa seguì una sonora risata, nonostante la situazione non fosse delle più allegre, e Caliddu corse a casa a recuperare una caraffa d'acqua.

"Dimmi" disse il maresciallo, "hai visto dei morti per strada? Quanti sono?".

"Ma che morti e morti!", rispose Cantalanotti ancora più frastornato da quella domanda, "io parlo di diavoli e fantasmi e lei mi chiede di morti!".

"Ma come, sullo stradale non ci sono dei morti?

Non hai sentito le raffiche di mitra udite da tutto il paese?", rispose Panzagrossa stupito.

"Io me ne tornavo dalla campagna in groppa al cavallo, cantando a squarciagola, quando siamo stati assaliti da uno spirito, da un fantasma e non ho visto morti, né sentito spari!".

"Assaliti?" rispose Panzagrossa, "allora eri in compagnia di qualcun'altro?".

"No, eravamo soltanto io ed il mio cavallo" disse Cantalanotti, bevendo un sorso d'acqua dalla caraffa che Caliddu nel frattempo aveva portato.

"Qui qualcuno cerca di gabbarmi" pensò Panzagrossa, levandosi il berretto e grattandosi la testa quasi a voler tirar fuori delle idee o delle verità che in quel momento gli sfuggivano.

"Tutto il paese ha sentito il finimondo, tranne io, maledetto quel vino di zi Carminu! Questo Cantalanotti si trova nel posto giusto e non sente e non vede niente, se non fantasmi! Ed io adesso dovrei avventurarmi per quella strada maledetta!" mugugnava tra sè e sè nella speranza di trovare una soluzione a quella intricata situazione.

"Avessi almeno degli uomini! Siamo soltanto in due, io e Tanu, maledizione! E la camionetta?

Guasta da una settimana! Telefonare in provincia? A quest'ora? E che figura ci farei se questi spari fossero solo fantasia della gente?

Ma loro hanno sentito, mentre io dormivo in quella maledetta bettola!".

E fattosi coraggio, sistematasi la divisa ed estratta la pistola dalla fondina, ordinò a Tanu di seguirlo alla ricerca della verità.

"E voi tutti a casa a dormire!" disse rivolto ai presenti che, un po’ increduli, un po’ divertiti, assistevano alla partenza di quei due "coraggiosi" che armati di pistola e moschetto andavano incontro a galantuomini, pronti ad aspettarli con mitra e lupara.

E l'armata si mosse! Percorso il centinaio di metri che li separava dallo stradale, sparirono ingoiati dal buio della notte, mentre una timida luna faceva ancora capolino verso la montagnetta, a ridosso della chiesa.

"Secondo me" diceva uno, "svoltano subito a destra e si ritrovano diritti nella bettola di zi Carminu, altro che caccia ai fantasmi di Cantalanotti!".

"Pi mia" rispose un altro, "girano subito a sinistra, e se ne vanno a casa a dormire!".

"Però", disse il primo che la sapeva lunga a parole, ma avrebbe fatto meglio ad agire anziché solo a parlare, "Testacalla, Turiddu e gli altri non sono più tornati: cosa sarà loro successo?".

"Pi mia", riprese il secondo, anche loro sono andati a dormire e forse faremmo bene anche noi ad andarcene a casa!", e così dicendo salutò con un "bona notti a tutti!" e si avviò verso la parte alta del paese da dove era disceso in tutta fretta per avere notizie dell'accaduto.

La piazza era scarsamente illuminata da piccoli lampioni appesi ai quattro angoli con la via principale, mentre i due bar emanavano una luce fioca che a malapena rischiarava i pochi tavoli, approntati per l'occasione, e che ospitavano qualche avventore.

Il trambusto seguito ai colpi uditi in lontananza aveva svegliato una decina di contadini che, sdraiati in un angolo semibuio della piazza su alcuni miseri stracci, si erano da poco addormentati nella speranza che all'alba qualche proprietario terriero potesse offrire del lavoro.

Venivano dai paesi vicini e sbarcavano il lunario offrendosi "a giornata" come mietitori: di fianco al loro giaciglio avevano deposto la falce, attrezzo principale del faticoso mestiere.

Al mattino, seduti ed allineati su un muretto, attendevano speranzosi la chiamata che spesso non arrivava, ed allora erano costretti a cambiare contrada e paese: mangiavano poco e male, e si notava benissimo che quel povero cristo, all'angolo, "si turcìa comu 'na ligàma",42tanto era attanagliato dalla fame.

Appresa la notizia, dopo aver fumato una sigaretta, si abbandonarono sul loro giaciglio, con indifferenza; tanto a loro interessava soltanto un po’ di lavoro, l'indomani, e non complicate storie di mafia e di omicidi.

Spirdatu, ch'era un abile cacciatore, alla vista di quelle falci scoppiò a ridere mentre i suoi amici si domandavano cosa mai ci fosse di tanto ridicolo in quei poveri diavoli che dormivano per terra, su un giaciglio improvvisato.

"Nenti cumpà!" rispose quasi mortificato per quella sua risata improvvisa, "è che quando vedo una falce non riesco a trattenermi: adesso vi racconto cosa mi è successo un anno addietro.

L'anno scorso di questi tempi, appunto, incontrai Càlaciu che mi propose una battuta di caccia al lago qui vicino.

Disse che c'erano migliaia di folaghe, che il suo cane era un fenomeno in questo tipo di caccia, e che poi al lago c'era più fresco che non in piazza.

Alle due del pomeriggio, partimmo per il lago, distante circa dieci chilometri dal paese: io e Càlaciu armati di fucile mentre Turi, che non possedeva il porto d'armi, avrebbe fatto l'avvistatore di folaghe, mestiere coniato per l'occasione.

Le battute di caccia con Càlaciu erano uno spasso dal momento che si combinavano le cose piu' strampalate come quella volta che fummo fischiati da alcuni contadini mentre andavamo a caccia di pernici con una radiolona a tutto volume!.

Giunti al lago con la famosa jeep di Càlaciu, che in un paio d'occasioni aveva perso il motore, e posteggiatala vicino la riva, ci inoltrammo in un piccolo canneto mentre Turi, con i palmi delle mani aperte sopra gli occhi per proteggersi dal sole, ci avrebbe segnalato eventuali avvistamenti di volatili. Giungemmo nei pressi della riva del lago camminando su un'erba secca che scricchiolava sotto i nostri piedi: la "buda" appunto. E' un'erba che i contadini raccolgono, la stendono ad asciugare al sole e poi ne fanno delle fascine.

"Picciu'!"43 gridano dei tizi nei nostri riguardi sbucando dal canneto, armati di falce, "Non calpestate la buda!".

Chiesto scusa, Càlaciu si sposto' sul lato sinistro del canneto mentre io mi indirizzai verso il lato opposto.

Sentivo Càlaciu incitare il cane, mentre Turi urlava qualcosa di incomprensibile dal momento che si era alzato un po’ di vento e la sua voce non giungeva fino a noi.

Ad un tratto sentii uno sparo provenire dalla parte opposta, Càlaciu che urlava come un cacciatore sa fare nei momenti cruciali della battuta, come quando viene stanato un coniglio o una lepre salta fuori da un cespuglio, vidi il cane correre in mezzo alla buda, Turi gesticolare, Càlaciu continuare ad urlare che era caduta li', la folaga...

Corro anch'io da quella parte a vedere cosa stesse succedendo e trovai Càlaciu che litigava coi due contadini incontrati in precedenza, perché', secondo lui, la folaga era caduta nei loro pressi e l'avevano nascosta in mezzo all'erba. Dopo varie ricerche con l'aiuto del cane, il mitico cane, la folaga ancora non si trovava.

Nella confusione inevitabilmente finimmo sopra la famosa buda posta ad asciugare: e qui scoppio' l'inferno!

I due contadini cominciarono ad urlare che avevamo rotto i coglioni, che rovinavamo la buda, "e se non ve ne andate vi sirràmmu li corna!",44urlavano.

A questa frase Càlaciu, già arrabbiato per aver perso, a suo dire, una folaga fregata dai due contadini, cominciò ad urlare: "La buda! La buda dei miei coglioni!".

Mentre quei due imbecilli, con le falci che luccicavano al sole, avanzando verso Càlaciu, continuavano a gridare: "Vi sirràmmu li corna!".

A questa scena, mentre in un primo momento sghignazzavo assieme a Turi che nel frattempo si era avvicinato, cominciai a preoccuparmi.

Quelli, nella loro scemenza, facevano veramente sul serio, incuranti del fatto che eravamo armati di fucili.

I due si erano avvicinati a non più di dieci passi sempre con le falci che fendevano l'aria e gridando insulti.

Càlaciu, vistosi perso e preso dal panico, cominciò ad urlare: "Spirdatu! Lupara!!",45per intimorirli un po’ di più, come se due fucili carichi con cartucce a pallini non rappresentassero già di per sè una minaccia sproporzionata rispetto alle falci di quei due folli, picchiati sicuramente dal sole.

Che dovevo fare? Gridai anch'io: "Lupara!" mentre estratte due cartucce a piombo piccolo per le folaghe le sostituii con altre a lupara, puntando il fucile verso i due che, imperterriti, continuavano ad avanzare fra la buda secca sparsa sulla riva che, al loro passaggio, emetteva strani sibili.

Furono attimi di paura! Sparare? Sarebbe stata una sciocchezza; scappare? Forse meglio, senza però dargliela ad intendere altrimenti sarebbe stato peggio.

Cominciammo ad indietreggiare lentamente coi fucili rivolti verso i due, Turi si pose in fretta alla guida della jeep, Càlaciu cominciò a chiamare il cane che, resosi conto anche lui del pericolo, corse verso l'auto, saltammo su e via di corsa mentre i due, con la bava alla bocca tentavano di inseguirci roteando le falci per aria, luccicanti più che mai.

Càlaciu, infuriato e con il lungo collo fuori dal tettuccio della jeep, come una giraffa, continuava ad urlare: "La buda! La buda dei miei coglioni! Sadifarchisi, cu li corna tisi, tisi, tisi!!".46

Ecco perché rido quando vedo una falce: ricordo quella scena del lago, mi viene in mente Càlaciu e non riesco a trattenermi, come state facendo voi in questo momento.

"Anche lei qua, signor sindaco?" disse Spirdatu, su di giri per aver raccontato quella storia divertente vedendo che il sindaco del paese, pipa in bocca e sandali ai piedi, si era avvicinato al gruppo di persone appostato sotto il lampione principale della piazza, mentre tutti abbozzavano un segno di reverenza, più per sudditanza che per cortesia.

Era soprannominato Rubamazzu, per l'abitudine che aveva a questo tipo di gioco, nomignolo consacrato poi per le sue particolari attitudini politiche e malandrine.

Non aveva dovuto fare tanta strada per raggiungere il gruppetto visto che abitava proprio all'angolo opposto: era stato svegliato più che dai colpi uditi distintamente da tutto il paese, anche se in parte coperti dai rintocchi della mezzanotte, dal brusio ora diventato chiacchiericcio insistente, diceva lui.

E dal momento che non c'è cosa peggiore, quando non si riesce a prendere sonno, che trovarsi sotto casa delle persone che chiacchierano ad alta voce, aveva emesso una ordinanza per cui, dopo la mezzanotte, era severamente vietato starsene in piazza (come dire sotto casa sua) a discutere animatamente: e di perditempo che passavano le notti in questo modo in paese ce n'erano tanti.

E la signora Letizia ne sapeva qualcosa se tutte le notti era costretta ad affacciarsi al balcone per innaffiare, ora con la brocca piena d'acqua, ora con un bel "càntaru",47quei giovinastri che le rovinavano i nobili sonni!

A svegliarlo, in quanto autorità, nessuno ci aveva pensato, neanche Panzagrossa, nel timore di dargli qualche fastidio, data l'ora tarda: ma ormai era lì, a dire la sua, dopo essere stato edotto dell'accaduto.

"Che stupidaggini! Questo maresciallo che se ne va in giro di notte a cercare cadaveri solo per aver sentito dei rumori venire dalla campagna! Quello crede di poter trovare morti dappertutto e beccarsi una bella promozione.

Fesserie!" ripeté "fesserie! sentite due botti e dite che è successo il quarantotto! Andate a casa a dormire e vedete di non svegliarmi un'altra volta! Le verità si scoprono di giorno, con la luce del sole e non di notte!" E senza profferire altre parole se ne tornò a casa, in punta di piedi così come era arrivato.

"Ma chi l'ha svegliato" disse Spirdatu quasi offeso, "se fino a poco tempo fa le sue finestre erano illuminate!", timoroso che quella frase potesse aver urtato la suscettibilità di Rubamazzu.

Eletto qualche anno prima in una lista civica, presto si era ritrovato isolato e costretto a chiedere favori e piaceri a certi amici che avevano piazzato in comune le persone di loro fiducia: adesso era lì, più a spadroneggiare che a comandare, spalleggiato da personaggi di un certo calibro, politici e non.

Ed in paese non si muoveva foglia se prima Rubamazzu non avesse dato il suo beneplacido.

Raramente metteva piede in comune perché le decisioni lui le prendeva in casa sua, soggetta quindi ad un continuo andirivieni di persone che andavano a riverirlo per i più disparati motivi: un lavoretto, un sussidio comunale, un impiego stagionale, una lite che andava risolta senza avvocati e preture, ma tra amici.

E lui dava consigli e suggerimenti, che poi altro non erano che comandi: e tutti ubbidivano.

Se è vero che "lu cumannari è megliu ca fùttiri",48la prima parte gli si addiceva bene adesso, ma la seconda l'aveva praticata molto bene in passato e qualche piccolo fastidio se l'era procurato, salvando la pelle per il rotto della cuffia in più di un'occasione.

I giorni precedenti le elezioni, la sua abitazione sembrava più un supermercato che la casa del sindaco: a decine entravano le persone e ne uscivano carichi di pasta (la famosa carta da cinque o dieci chili), di zucchero, di farina, di uova. Ed ogni confezione equivaleva a dieci o venti voti, date le famiglie numerose, e pochi si chiedevano quale camion avesse rifornito quei magazzini o la provenienza di tutto quel ben di Dio, visto che l'importante era approfittare dell'occasione che si sarebbe ripetuta solo tra un lustro.

E tra un lustro e l'altro, la miseria la faceva da padrona! Quindi meglio mangiare e "non vedere e non sentire".

Finita e, soprattutto, persa la guerra, gli americani si premurarono, non certo senza interesse, di fornire alla popolazione aiuti alimentari e sanitari di vario tipo: pasta, latte in polvere, zucchero, DDT contro mosche e pidocchi, etc.. Solo che a beneficiarne erano in pochi, perché la maggior parte dei prodotti si perdeva in mille rivoli, vie e viuzze, andando ad ingrossare i magazzini dei soliti pezzi grossi che li rivendevano al mercato nero o li tenevano di scorta per eventuali operazioni elettorali.

Quindi solo una piccola parte arrivava a chi ne era veramente bisognevole, a condizione che fosse della stessa fede politica, cioè anticomunista, filoamericano, democristiano, che in buona sostanza, non sempre ma spesso, equivaleva a mafioso: mafioso per necessità, mafioso per opportunità, mafioso per interesse.

E con l'andazzo che ne seguì, tanta brava gente diventò mafiosa per mentalità, per una specie di autodifesa, per la sua sopravvivenza: quindi "nenti vitti, nenti sacciu, 'un c'era e si c'era durmìa!".49

Ma dire che buona parte dei siciliani abbiano acquisito questa "mentalità mafiosa" solo per questi motivi è chiaramente errato e antistorico: quanti soprusi hanno dovuto subire nel corso della loro storia, quanti turchi, quanti svevi, normanni, arabi, e soprattutto quanti spagnoli e francesi, i peggiori, avevano calpestato la loro terra ed imposto le loro regole, quanti signorotti arroganti e corrotti avevano fatto i loro comodi, dopo il tramonto del grande ed illuminato Federico II, unico nella tormentata storia di Sicilia ad aver auspicato e tentato l'unificazione e l'organizzazione del regno col resto di Italia, con leggi degne di tale nome.

E ci sarebbe riuscito se i corrotti Papi medievali, pur di mantenere il loro egoistico potere temporale, non lo avessero contrastato fino all'annientamento della sua stirpe ed all'imposizione di un sistema di terrore e di corruzione quale fu quello di D'Angiò.

I Siciliani, orgogliosi seppero rialzare la testa coi famosi Vespri, ma poi arrivarono i signori di Navarra e di Catalogna, i vari Martino, i vari Ferdinando, i vari Borboni, che gestirono l'Isola come una colonia, spremendola con tasse e balzelli, asportando quanto era asportabile, riducendola in uno stato di miseria e di prostrazione economica e soprattutto morale da cui difficilmente si sarebbe potuta sollevare.

Ed il Cabrera, signorotto navarro, che inseguì per anni la colomba Bianca, correndo da un castello all'altro, da Palermo a Catania, a Siracusa, quindi ancora a Palermo, sperperando e distruggendo quanto gli capitava a tiro?

La Sicilia tutta soffriva solo per il capriccio voluttuoso di un vecchio libidinoso, compiacente il re di Spagna, divertito che un suddito desse la caccia ad una "pollastrella", ancorché viceregina, la Bianca di Navarra, appunto, come se si trattasse di una giostra medievale.

Non potrebbe definirsi un "mafioso" ante litteram, questo Cabrera?

Come il Rubamazzu che la faceva da padrone mentre i poveri mietitori stavano lì a patire la fame ed a "torcersi come ligàma!", costretti a mendicare un lavoro per sfamare la loro famiglia?

Cos'era cambiato da allora, dopo cinque secoli di storia?

Nulla! Anzi tutto era cambiato, d'accordo col principe di Lampedusa, 50perché nulla cambiasse!

Sicut et nunc, tutto come prima!

 

Cap. 5 - Il Cantastorie

L'orologio della chiesa annunziava che Testacalla e Panzagrossa erano partiti da oltre due ore alla ricerca di una verità che tardava a manifestarsi, mentre la piazza continuava a riempirsi di gente che, vuoi per il caldo, vuoi per le notizie passate di porta in porta, non riusciva a dormire.

Spirdatu, il cacciatore, si trovò attorniato da alcuni compagni di battuta ed inevitabilmente il discorso cadde sulla caccia.

"Cumpà!" gli disse uno, "vi ricordate che fra due giorni si apre la caccia?".

"Certo, Calù, ho tutto pronto: il furetto sembra una belva affamata di conigli, i "lazzòla"51 sono già riposti nel tascapane, il fucile è ben lucidato".

E cominciarono a raccontare, come al solito, di battute effettuate l'anno precedente, di pernici impallinate che cadevano a "pioggia" sulle loro teste, di lepri e conigli catturati alla Crucifìa e alla Mappa: ne "sparavano" di tutti i colori.

"Adesso vi racconto cosa mi è successo l'anno scorso" iniziò Spirdatu, e tutti stettero in silenzio ad ascoltare.

Dopo una fruttuosa battuta, tutti gli amici ci eravamo riuniti per festeggiare e gustare le prede. E dal momento che dalle nostre parti la "morte del coniglio e' al sugo", il menù prevedeva maccheroni al sugo, coniglio e vino rosso, naturalmente.

Era presente al pranzo "zi Carminu", che, essendo titolare di una bettola, si vantava di vendere un vino rosso speciale. Al momento del brindisi uno dei presenti gli disse: "Cumpari Cà!

Che ve ne pare di questo vino che mi ha regalato un amico? Dicono che sia il migliore che si possa trovare da queste parti: perché non provate ad assaggiarlo, voi che siete un grande intenditore?".

Zi Carminu, punto nel suo orgoglio, accettò l’invito provocatorio, ed alzatosi in piedi, riempì un bicchiere cominciando l'assaggio con un primo sorso, quindi si "sguazzà"52 la bocca una seconda volta, mentre gli astanti seguivano con gli occhi le sue gote gonfiarsi e sgonfiarsi alternativamente, ripetè l'operazione precedente una terza volta.

Man mano che la complicata operazione d'assaggio procedeva, dalla espressione del suo volto, ora disgustata, ora compiaciuta, ognuno poteva immaginare quale sarebbe stata, fra poco, la tormentata sentenza che "lu zi Carminu" andava maturando.

Finalmente, deposto il bicchiere sul tavolo, schiaritasi la voce con un forte colpo di tosse, quasi a volersi liberare dell'ultima goccia del liquido rimastogli in gola, con aria professionale, da vero "sapituri", sentenziò: "Vinellu, cumpà!".53

Ne seguì una risata generale, dal momento che tutti sapevano, tranne lui, che quel "vinello" altro non era che il suo tanto decantato vino, comperato a sua insaputa, poco prima, nella sua bettola!

Per quei perditempo incalliti, ogni occasione era buona per una risata, e se l'occasione non si presentava spontaneamente, la si poteva sempre inventare.

"Talìa cu cc'e'! Cumpari Francischella!"54 esclamò uno dei presenti. In effetti Francischella, che da casa sua stava recandosi in campagna, alla vista dell'assembramento, si era fermato ad ascoltare, come spesso gli capitava, le storie di quei cacciatori, che, a suo dire, e non si sbagliava, ne raccontavano di tutti i colori.

Dimesso negli abiti, barba non rasata e col suo inseparabile "friscalèttu"55 in mano, fu oggetto dell'attenzione di tutti. In paese era considerato un personaggio "sui generis".

Intanto era un bravo costruttore di zufoli, rustico strumento musicale, che ricavava dalle canne e che suonava alla perfezione; ma soprattutto passava per "filosofo" ed era sempre applaudito quando, circondato dagli appassionati di astronomia, esponeva le sue personali teorie cosmiche.

Facendo di mestiere il pecoraio aveva tempo a volontà per osservare le stelle ed i pianeti muoversi nel bel cielo stellato della nostra regione e convincersi sempre più della sua teoria "tolemaica" geocentrica.

"Cumpà!" diceva, in piedi sul muretto, "dicono che sia la terra a girare intorno al sole: se così fosse a quest'ora io sarei caduto a terra! La terra e' immobile e sono il sole ed i pianeti che ci girano intorno! Vedete là Giove", ed indicava un punto del cielo usando il suo zufolo come bacchetta magica, mentre tutti alzavano gli occhi nella direzione indicata, "e Venere laggiù più in basso?", e tutti a spostare gli occhi nell'altra direzione, "si chiamano pianeti e girano intorno al Sole: e tutti insieme girano intorno alla terra che e' ferma, immobile! Sannò cci fussi sempri lu tirrimòtu!".56

Lillo, quasi maestro e che gia veniva chiamato 'prufissù', si permise di obiettare che quella era una vecchia teoria e che da parecchi anni un certo Copernico aveva dimostrato il contrario, che era la terra a girare su sè stessa e quindi intorno al Sole.

"Prufissù, rispose Francischella, vossìa queste cose le studia sui libri e si sa che i libri spesso imbrogliano le idee; ma io osservo il cielo tutte le notti, e parlo e ragiono con ogni stella che vedete in cielo: vi assicuro che è come dico io! Criditimi prufissù!".

Un frenetico battimani accompagnato da qualche risata ed una zufolata concluse la lezione "tolemaica" di Francischella che, soddisfatto, salutò e si incamminò per andare ad accudire al suo gregge.

"Sentite", disse Spirdatu, "vi faccio una proposta: dal momento che Panzagrossa e Testacalla non danno notizie da circa due ore, e chissà che fine hanno fatto, vi propongo di andare a vedere cosa succede fuori da questa piazza!".

"Io ci sto!" disse Calù, passiamo da casa, armiamoci di fucile e pallettoni, mi raccomando, e troviamoci all'inizio dello stradale".

"Bene" rispose Spirdatu, "seguiremo la strada opposta a quella seguita dagli altri: sapete, quella che porta alle tane di conigli verso il calvario?".

"Appuntamento a fra mezz'ora" confermò Calù, ed in quattro si avviarono alle rispettive case, ad armarsi.

Intanto davanti al bar stava succedendo qualcosa di strano, data l'ora tarda e le circostanze.

"'U cantastorie!" disse Michelino incredulo che fino ad allora aveva seguito le vicende dei cacciatori ed aveva assistito alla loro partenza: e si diresse assieme agli altri in quella direzione, curioso di sentire il seguito di quelle storie che solo Cicciu sapeva raccontare.

Cicciu il cantastorie, infatti, quella sera aveva dato spettacolo fino ad una certa ora e, come solo lui sapeva fare, era riuscito a fare appassionare buona parte del paese alle sue storie di mafia, di omicidi, di carcere.

Quando arrivava lui lo spettacolo era assicurato: la gente accorreva numerosa da tutti i quartieri portando con sè le sedie che sistemava a semicerchio davanti alla postazione di Cicciu, pronta ad ascoltare i dolorosi e commoventi fatti di sangue di tutta l'Isola.

Che di questo si trattava, in genere: Cicciu era la persona giusta per commuovere la platea, col suono della sua chitarra, con la sua voce che, modulata al punto giusto, ti faceva percepire la coltellata inflitta alla vittima o la fucilata a bruciapelo, e poi le manette, le porte del carcere che si chiudevano alle spalle del poveretto, innocente, naturalmente, il pianto dei parenti.

E tutto era visibile e leggibile nei suoi cartelloni che illustravano la storia che andava a raccontare cantando, suonando e recitando, mentre con la sua magica bacchetta indicava il riquadro dov'era disegnato il fatto.

Sempre fatti tristi e di sangue, che di cose tristi era piena la Sicilia tutta.

Alla fine della storia, tra la commozione generale, girava tra i presenti, con un piattino, per ricevere il giusto e meritato omaggio e distribuire i santini con la storia appena rappresentata.

Un grande attore, questo Cicciu, che adesso, svegliato dal trambusto, in piedi su una sedia, cominciava ad attirare gente per uno spettacolo non previsto, noncurante delle ordinanze di Rubamazzo in fatto di "schiamazzi" notturni.

"Sintiti, sintiti, chi successi a ddù poviru carùsu, 'ntà la minèra ccà vicinu!"57 cominciò, argomento classico di commozione in quella zona di miniere, di zolfatai, di carusi e di picconieri, sinonimo di miseria e sofferenze.

Ma non avendo né cartelli, né bacchetta, si lasciò andare ad un soliloquio, raccontando una sua visita alla vicina "pirrera", 58mentre si recava con amici al paese vicino per cantare la storia di "Fra Decu".

All'imbrunire davanti a noi si presentava uno spettacolo incredibile: il sole ormai basso all'orizzonte, prima che sparisse dietro le colline di Milena, arrossava ancor di più le ristoppie già bruciate per l'intera giornata e faceva risplendere come una torre incantata la rocca di Sutera, che si stagliava lontana a troneggiare sulla rossa pianura, punteggiata qua e là da qualche rara chiazza di verde.

In fondo alla vallata si scorgevano le anse del Gallo d'oro, ormai a secco da mesi, luccicanti a causa dei sali potassici, di cui e' molto ricca la zona, depositatisi dopo l'evaporazione dell'acqua, mentre ai nostri piedi il terreno si presentava come una grande gobba allungata verso il fiume, sì da sembrare la schiena di un grosso bestione addormentato: la "nave", appunto, oppure "cocilova",59 come dicono i contadini, tanto il clima è torrido durante il giorno e pericoloso andarvi a caccia, come già sperimentato da tanti appassionati.

Sotto di noi una visione spettrale: i resti della miniera o meglio di quello che resta all'aperto della miniera, dopo essere stata abbandonata perché il suo sfruttamento era diventato antieconomico, dopo tanti anni di attività.

Scarseggiavano gli strati ricchi di minerali utili allo sfruttamento primordiale che ancora veniva praticato, mentre si era fatta assillante la concorrenza dello zolfo americano, dopo la seconda guerra mondiale, prodotto colà con sistemi più moderni e quindi più economici e più redditizi dei nostri.

Da noi lo zolfo veniva prodotto ancora col sistema dei calcheroni, che consisteva in una specie di forno rudimentale: un grande mucchio di minerale veniva posto su un fondo artificiale inclinato e ricoperto da altro materiale esaurito per moderare e controllare la combustione.

Quindi veniva appiccato il fuoco al calcherone in modo che parte dello zolfo bruciando colasse in apposite forme di legno, le "gàvite".60

La "balata"61 una volta raffreddata era pronta per essere accatastata e venduta.

Ma solo una parte dello zolfo fondeva con questo sistema: circa il 50% veniva perso assieme al materiale di scarto e con esso la fatica ed i sudori dei carusi e dei picconieri che avevano dato l'anima per estrarlo e portarlo fuori dai meandri della terra.

Una nota allegra per noi bambini, ricordo, era rappresentata dagli oggetti in zolfo che spesso amici o parenti portavano dalla miniera: un cagnolino, un gallo, un pupazzo.

Bastava mettere una formella sotto la colata e farla riempire di zolfo liquido ed il gioco era fatto.

Luogo, questo, della miniera, che evoca tanti ricordi e tante emozioni, che ha dato pane a tanta povera gente, ma anche tanti lutti e tanti dolori; luogo che evoca ricordi di duro lavoro nella travagliata economia di questo lembo di Sicilia, ma anche momenti esaltanti di lotte operaie a difesa dell'ultimo tozzo di pane conteso con la forza della disperazione.

Ormai è tutto un cumulo di rovine.

I calcheroni (i forni dove veniva bruciato il materiale grezzo) diroccati, le rotaie, dove a forza di muscoli venivano spinti i carrelli pieni di materiale appena scavato nelle viscere della terra, completamente divelte, la torre che con le sue corde permetteva che due piccoli ascensori (gabbie) facessero la spola con le gallerie dove avveniva la estrazione dello zolfo, semidistrutta, i vecchi capannoni dove venivano conservate e caricate le lampade che dovevano rischiarare il buio dei corridoi sotterranei, cadenti.

Qua e là si intravvedono ancora le bocche che un tempo costituivano le anguste scale usate dai "carusi"62 per scendere nei meandri del sottosuolo, con la segreta speranza di poterle risalire e rivedere la luce del sole.

Negli ultimi decenni di attività lo stato della miniera non era certo quello di inizio secolo, come ci viene raccontato dai più anziani, che tanto fumo e tante sofferenze hanno dovuto ingoiare nei lunghi anni di lavoro sotterraneo.

Ebbi modo di penetrarvi per trarne ispirazione ad una mia cantata, e ne uscii terrorizzato: in piedi in un piccola piattaforma appesa ad una fune, aperta da tutti i lati, cominciammo la discesa verticale verso la galleria principale della miniera, mentre alcuni lugubri rintocchi di campana avvertivano dell'avvenuta partenza.

Dopo pochi metri fu subito buio pesto e silenzio rotto solo da sinistri stridìi della cabina contro i fianchi del buco che pian piano sembrava quasi volerci divorare.

Ogni tanto si intravedevano deboli lucine attraverso improvvise aperture orizzontali alla nostra discesa: erano operai che facevano manutenzione in gallerie ormai sfruttate e quindi in disuso perché prive di minerale.

La discesa interminabile durava da alcuni minuti, quando finalmente la cabina ebbe un sussulto e si fermò: eravamo arrivati alla galleria intermedia dove avremmo dovuto cambiare ascensore. Istintivamente alzai gli occhi in alto quasi a voler cercare il cielo attraverso il buco che ci aveva ingoiati, ma non scorsi nulla: tutto intorno era buio e solo qualche piccola lanterna rischiarava a malapena il lungo corridoio che si apriva davanti a noi.

Guidati dalla flebile luce di alcune lanterne, percorremmo un lungo corridoio che portava al secondo ascensore.

Quì l'ambiente era più grande e ben illuminato: si scorgeva una piccola torre a cui era appesa la seconda "gabbia"63 che in poco tempo ci depositò all'undicesimo livello!.64

L'aria era diventata irrespirabile, le pareti della galleria gocciolavano, l'umidità altissima.

Ci inoltrammo nella galleria dove gli operai procedevano all'estrazione dello zolfo, tra il rumore assordante degli attrezzi ad aria compressa, la polvere, i carrelli pieni di minerale luccicante che venivano sospinti verso l'imboccatura della galleria.

Ci trovavamo in un budello a più di 200 metri sotto terra e sarebbe bastato un piccolo incidente, un allagamento, un crollo improvviso perché scoppiasse il panico.

Allora mi tornò in mente il ricordo degli anziani, quando il minerale veniva estratto a colpi di piccone, se non a nude mani, quando mancando il ricambio d'aria si respiravano fetide emanazioni, quando nelle gallerie echeggiavano i rantoli affannosi dei "carusi" che per quattro soldi si rompevano la schiena a portare attraverso quegli angusti corridoi, al buio, sacchi pieni di minerale, e poi per le scale ripide e franose, umide e scivolose, fermandosi ad ogni gradino a prendere fiato, grondanti sudore da ogni parte, ragazzini di quindici anni già storpiati da quelle bestiali fatiche, per centinaia e centinaia di gradini, decine di volte al giorno, senza sosta, cinquanta chili sulle spalle ricurve e le gambe contorte da tale peso.

Finalmente dal buio alla luce, gli occhi arrossati di lacrime gialle, un grosso respiro di vita, il carico deposto sul calcherone assegnato, un attimo di tregua prima di riprendere la discesa verso quella bolgia dantesca a cui mancavano solo le fiamme infernali. Un boccone di pane e formaggio, un sorso d'acqua, ed il povero "carusu" era pronto per un altro viaggio massacrante.

E chi di noi, ragazzini, combinando qualche biricchinata o non volendo studiare, non si è sentito dire dai genitori, in segno di minaccia: "ti mannu a carriàri",65 come monito di quel famigerato mestiere?

Ma non avevano vita più facile i capi dei "carusi", i picconieri, coloro che a pancia in su o arrampicati su uno strato di minerale, alla luce di una piccola lampada ad acetilene, picconavano per sbriciolare il materiale che poi veniva insaccato e portato all'esterno.

Venivano pagati miseramente in base al materiale estratto e quindi ancor più miseramente pagavano i carusi in base alla quantità di materiale portato sui calcheroni.

E se rare erano le esalazioni di gas, rispetto alle miniere di carbone dove il famigerato "grisou" mieteva vittime a centinaia, frequenti erano i crolli e gli allagamenti delle gallerie: e costoro erano le prime vittime a dover patire le più gravi conseguenze.

Gli operai partivano dal paese ancora prima dell'alba, per raggiungere la miniera a piedi, attraverso sentieri e mulattiere, per circa sette chilometri, d'inverno sotto la pioggia e tra il fango, per poi tornare a casa ch'era già buio, riposarsi qualche ora e ripartire per ridiscendere nei meandri del sottosuolo a "vuscàrisi"66 un tozzo di pane.

Adesso, disse Cicciu per concludere, è facile farsi i "pìcciuli"67 stando a casa a comandare, altro che miniera!

Il racconto era filato liscio quasi d'un fiato, mentre il gruppetto di ascoltatori annuiva con la testa, o perché quelle storie le avevano vissute in prima persona, o perché le avevano già sentite raccontare dagli amici o dai parenti.

Un frenetico battimani accompagnava il racconto di Cicciu quando un tizio, "tascu"68 in testa e baffetti poco rassicuranti, gli si avvicinò borbottandogli qualcosa di poco piacevole all'orecchio.

"Carù! Tutti a nanna! Ccà tira aria di pirrera!"69 esclamò Cicciu serio in volto: e sceso dalla sedia su cui era appollaiato per raccontare la sua storia, raccattata la sua giacca, si diresse mestamente verso la pensione dove aveva preso alloggio il giorno prima.

La scena non passò inosservata dal momento che qualcuno, giratosi istintivamente verso la casa di Rubamazzo, ne intravide la figura dietro la persiana illuminata con in bocca la sua inseparabile pipa.

"Avrebbe fatto meglio ad affacciarsi e dare direttamente l'ordine di sgombero" disse Michelino che aveva partecipato con entusiasmo alla descrizione della miniera fatta da Cicciu, "ma si vede che quel mafioso il coraggio ce l'ha sotto i piedi" mormorò poi sommessamente, "dal momento che è capace di comandare solo ai suoi sgherri!".

Sgherri che lo degnarono di un'occhiataccia come per dire: "Con te faremo i conti dopo, con calma!".

Michelino alle minacce c'era abituato da sempre, visto che passava per il comunista più accanito del paese, quello che indefessamente organizzava comizi, diramava bollettini, affiggeva manifesti, si dava insomma un gran da fare per propagandare le idee del partito che, regolarmente, ad ogni elezione, usciva con le ossa rotte, dalle urne.

Lui, assieme ai suoi, era sempre il primo a votare: "Perché", andava ripetendo, "non si sa mai cosa può succedere durante il giorno!".

Per metà scrutinio la sua lista era sempre in testa, visto che le urne venivano rovesciate, ma alla fine l'esito era una delusione.

Ed a nulla serviva il suo accanimento, come quando dal suo monolocale tappezzato di rosso rispondeva con "Bandiera rossa la trionferà" all'inno di Rubammazzu "O bianco fiore, simbolo d'amore", in una serrata gara di propaganda.

Per lui falce e martello equivalevano a pane e vino, e si sarebbe privato di tutto pur di poter sbattere un giorno in faccia a Rubamazzu quel santone di "Peppino" che gli sorrideva da quella cornice appesa al muro e sembrava incoraggiarlo ogni qualvolta metteva piede in quella sgangherata sezione del partito.

Tenace come pochi, insisteva nelle sue lotte di liberazione dalla mafia e dal malaffare e si era beccato parecchie diffide e denunzie: ma lo lasciavano sopravvivere, tanto, gli dicevano in faccia, "Cani c'abbaja, nun mùzzica!".70

Nelle sue lotte era incoraggiato da quello che chiamavano "l'Abbucatu", che era sì avvocato, ma rivoluzionario più di Michelino e dimostrava di saperne, a parole, più di "baffone".

 

Cap. 6 - L'Abbucàtu

E si presentò anche lui, "l'Abbucatu" a quell’ora tarda.

Non perché avesse sentito gli spari od il trambusto che si era creato in seguito ai fatti raccontati, ma perché era sua abitudine "scendere" in piazza alle ore più impensate del giorno, facesse caldo o freddo, o della notte: lui cercava la quiete e le sue lezioni erano quasi sempre peripatetiche.

Attorniato da uno stuolo di ragazzotti, per lo più studenti, che quindi avevano tempo da perdere, gesticolando ed imprecando, parlava, sproloquiava, dissertava senza sosta, o almeno così diceva chi lo conosceva bene.

Raccontava storie vissute in altri paesi, parlava di storia, di filosofia ma soprattutto sciorinava discorsi politici a ruota libera.

"La rivoluzione ci vuole, carù! Lo capite o no che quei quattro porci ci stanno mangiando vivi! Bisogna reagire, ribellarsi: cosa hanno fatto in Russia? La rivoluzione! E don Peppino Baffone, cos'ha fatto? Ha tagliato più teste lui che tutti gli imperatori romani!".

E quelli lo seguivano attentamente, annuivano, sincronizzavano i passi con i suoi, perché fare dialettica in movimento lo eccitava a tal punto che perdeva il ritmo della camminata ed a volte si ritrovava da solo a gesticolare al vento, o per una improvvisa frenata o per una veloce accelerata: allora si fermava di scatto dicendo: "Picciù! Caminati o no?".

Ne seguiva una risata e tutto ricominciava come prima e d'accapo, perché ormai il filo del discorso si era perso.

Michelino, alla sua vista, gli si precipitò incontro, con un certo sollievo, dopo l'occhiataccia ricevuta dagli sgherri di Rubamazzu.

Senza chiedersi perché ci fosse tanta gente in piazza a quell'ora, si acquattò in un angolo tranquillo, imitato dai suoi, ed incominciò a parlare di Sicilia, del regno di Federico II e delle sue lotte contro i Papi.

"Ecco chi ci vorrebbe oggi per sistemare Rubamazzu!" lo interruppe Michelino, infervorato da quel discorso.

"Caro Michelino!" disse l'Abbucatu poggiando una mano sulla sua spalla, "Altro che Federico II!

Quello sapeva contro chi combattere: i Papi, i Saraceni, i Lombardi! Ma tu sai contro chi combattere? Contro i Rubamazzu? Questi sono come i Papi, che mortone uno ne fanno immediatamente un altro!".

Vi siete mai chiesti che razza di "mafioso" è questo Rubamazzu? Perché tanti lo votano e quel che è peggio, lo ammirano?

Molti si chiedono come possa essere "mafiosa" una persona così educata e gentile, dall'aspetto così distinto, riservato, incapace di far male ad un moscerino, un uomo che esercita il potere in un modo così felpato e discreto, tutto casa e bottega.

Lo scorgono dietro una finestra e lo riveriscono, lo incontrano mentre si reca alle funzioni domenicali e lo ossequiano, lo vanno a trovare per un favore e gli fanno il baciamani, manco fosse la Madonna del Rosario!

Può una persona educata, gentile, distinta, mite, essere il peggior delinquente, omicida e ladro?

Per ammazzare non è necessario impugnare una pistola e fare fuoco sulla vittima, non è indispensabile appostarsi ed aspettare che il proprio nemico passi ignaro e tranquillo per scaricargli addosso decine di pallettoni: basta ordinarlo ai propri sgherri fidati, basta un cenno cogli occhi, basta accostare indice e medio a fare un cenno di benedizione, per far partire un ordine di esecuzione senza appello.

I veri mafiosi, i veri capi, i cosiddetti trascinapopolo, quando mai si sono macchiate le loro mani direttamente: loro agiscono con grande equilibrio e prudenza, hanno un'idea prepotente del potere e lo esercitano violentemente per mezzo dei loro amici fidati, fidatissimi, tramite i loro fratelli di sangue, pronti a tutto, anche alla morte pur di rispettare il loro giuramento.

Ci sia stato il rito di iniziazione, abbiano bevuto o meno nello stesso calice, si siano baciati o semplicemente si siano strette le mani, è irrilevante: ciò che conta è la parola data, la promessa fatta, l'accordo preso.

Il vero capo mafioso, è un capopopolo, ha carisma, è affidabile, mantiene le promesse e le fa mantenere a chi ha giurato fedeltà alla causa, è rispettabile, è caritatevole, è un cristiano devoto e munifico, in poche parole è una persona dabbene, lontano, si direbbe, mille miglia dal delitto e dalla violenza: come il Rubamazzu che in questo momento ci starà osservando dalle sue finestre.

Il termine mafioso è nato con un significato positivo; si diceva mafioso un picciotto aitante e distinto, di una persona altera e baldanzosa, di una bella donna dal fisico superbo: e poteva essere un buon complimento.

Allo stesso tempo, però, poteva significare una grave offesa se per "mafioso" si intendeva una persona dedita alla malavita ed alla delinquenza.

Queste persone erano e sono facilmente riconoscibili, sono il braccio operativo, quelli di azione: meno riconoscibili sono i loro capi, quelli che danno gli ordini nell'ombra, al riparo di una finestra, come Rubamazzu.

La rivoluzione ci vuole, la rivoluzione!

Sicut et nunc, "così anche adesso", nulla è cambiato e nulla cambierà.

Quindi si mise a raccontare dei famosi Vespri del 1282.

"Ecco cosa ci vorrebbe, un Vespro! Eliminiamo tutti i mafiosi!" sentenziò Michelino, sempre più fiducioso.

"E bravo! I Palermitani eliminarono tutti i francesi che non sapevano pronunciare la parola "cicero"; ma noi ai mafiosi cosa chiederemmo, di dire maffia? Così quelli ti rispondono "lupara"!" rispose l'Abbucatu.

Turiddu, che col suo abbigliamento fuori tempo di parecchi secoli, sembrava star lì a fargli da guardia più che ad ascoltare i suoi discorsi, si chiedeva cose volesse significare quel "sicut et nunc"; siciliano non era, greco neanche, perché lui il greco lo masticava da sempre: ma allora, si chiedeva, che lingua parla quell'Abbucatu?

Però, se lo ripeteva così di frequente, doveva essere una frase importante!

"Cari amici!" proseguì l'Abbucatu, "questo è solo un pezzetto della martoriata storia della nostra cara Sicilia!

I personaggi di cui vi ho parlato sono i nostri antenati, o meglio gli antenati di questi farabutti che ci governano a loro piacimento: cos'è cambiato da allora? Niente!

La rivoluzione ci vuole: lo capite o no?".

E vista con quanta attenzione la platea aveva ascoltato il suo lungo discorso su Bianca di Navarra, Angioini e Borboni, continuò nel suo dissacratore addottrinamento, chiedendo: "Avete sentito parlare dell'inquisizione?".

"Si" rispose timidamente Caliddazzu, timoroso di dover rispondere a qualche imbarazzante domanda, "ce ne ha parlato a scuola il prete di religione".

"Chissà cosa vi hanno propinato quei pretuncoli di campagna: hanno sempre odiato a morte gli ebrei perché, a loro dire, hanno crocifisso il loro Cristo, e nel contempo hanno sterminato più cristiani loro che l'Imperatore Nerone!

Quello era un pazzo furioso, ma questi sono stati dei carnefici coscienti, assetati di sangue: seguitemi!" E così dicendo si alzò, imitato dagli altri, incredulo di essere rimasto tanto tempo a parlare di storia, acquattato come un coniglio, in un angolo buio della piazza, imperturbato dall'eco di due spari che si propagava per tutto il paese.

Mentre l'Abbucatu seguito dai suoi proseliti imboccava una viuzza laterale in cerca di pace e silenzio per la sua lezione sull'inquisizione, echeggiarono per tutto il paese due forti spari, provenienti dallo stradale, che misero in agitazione quanti ancora, data l'ora tarda, si intrattenevano in piazza per avere notizie delle vittime della sparatoria di mezzanotte.

Erano partiti Testacalla e Turiddu seguiti da altri due coraggiosi, poi Tanu e Panzagrossa, e per ultimo un gruppo di cacciatori capitanati da Spirdatu: e di loro ancora nessuna notizia.

Ginetta che non aveva resistito a starsene rintanata in casa, come voleva la consuetudine, era scesa in piazza e da un pezzo stava facendo il diavolo a quattro.

In mezzo ad un gruppo di persone, gridava che non era giusto che il marito fosse stato mandato allo sbaraglio alla ricerca di cadaveri, alle tre di notte, e che chissà perché non era ancora tornato, se la prendeva col Prefetto che non mandava rinforzi a quei quattro gatti che dovevano badare a tutta la malavita del paese, gesticolava verso la finestra del Sindaco che, primo responsabile del paese, se ne stava a dormire beatamente, infischiandosene dell'ordine pubblico.

E, come al solito, tutti le davano ragione, che bisognava costringere Rubamazzu a fare qualcosa.

"Cosa volete che faccia!" disse Cacanidu, "Quello sa bene cosa fare e cosa non fare: se resta a casa tranquillo ha i suoi buoni motivi!".

"Ha ragione Cacanidu" interloquì Vastianu, "Cosa volete che mandi i suoi sgherri a beccare altri suoi sgherri? Sarebbe meglio andarsene a dormire ed aspettare domani per sapere tutta la verità".

"La verità è" urlò Ginetta, "che mio marito e Panzagrossa sono in pericolo: perché non tornano ancora?".

"Soprattutto Panzagrossa!" sghignazzò un tizio, seguito da una malevole risata generale.

E mentre pronuziava queste parole si udì un rumore di passi veloci arrivare dal vicino stradale, aumentare sempre più d'intensità, tre, quattro persone che correvano, finché sbucò dal buio del vicolo una maschera di sangue ansimante che, tallonata dagli altri, si arrestò sotto il lampione di donna Letizia.

A quella vista un urlo si levò dalla piazza, Ginetta con le mani alzate verso il cielo cominciò ad imprecare contro il destino "buttànu", gli uomini corsero incontro al malcapitato per aiutarlo mentre questi, sfinito, si abbandonava a terra, più morto che vivo di stanchezza.

"Ma chi minchia vi è successo?" urlava Vastianu, che riconosciuto Spirdatu, imbrattato di sangue, continuava a toccarlo alla ricerca di eventuali ferite.

"Questo non ha niente" disse, dopo averlo palpato ben bene, "è solo sangue di coniglio, porca miseria!".

Ed il coniglio sbucò dalle mani del compare: solo che di quella bestiolina era rimasto lo scheletro insanguinato, spappolato dalle due fucilate esplose a distanza ravvicinata.

Ma erano andati alla ricerca di mafiosi da accoppare od a caccia di conigli, a quell'ora della notte?

Ripreso fiato, Spirdatu raccontò che, attraversata la provinciale, si stavano dirigendo, come d'accordo, verso le tane per ispezionare quel tratto di strada, quando un maledetto coniglio, sbucato tra i loro piedi, cominciò a correre lungo il sentiero appena illuminato dalla debole luna: come non sparare a quella bestiola, ricercata a volte per tutto un giorno, attesa per ore davanti ad una tana mentre il furetto la insegue nei meandri sotterranei, in silenzio, sotto un sole cocente che ti annebbia la vista, mentre un maledetto moscone ti ronza nelle orecchie e non puoi che sopportare pazientemente le sue fastidiose evoluzioni!

Se ti muovi è fatta: il caro desiato coniglietto, al minimo rumore, anziché uscire per farsi impallinare, si rintana e la caccia ricomincia.

Ed infatti sparò, Spirdatu: una, due volte, per sicurezza, ed il coniglio cadde stecchito, poveretto.

Neanche il tempo di raccattarlo e porlo nel tascapane, che sbucano da dietro un muretto dei ceffi armati fino ai denti: che fare?

Affrontarli? Neanche per sogno!

Darsela a gambe? Sicuro! E così via tutti, di corsa fino al paese, col coniglio grondante sangue tra le braccia, i fucili abbandonati sul campo e la vergogna sulle spalle!

Ripreso fiato, Spirdatu raccontò nei dettagli com'erano andate le cose, del bandito apparso in atteggiamento minaccioso sul muretto, della fuga precipitosa.

"Ma era uno o più d'uno?" domandò incuriosito Vastianu.

"Uno l'ho visto sicuramente: mi ha guardato minaccioso alzando le braccia come se volesse sparare. Forse ce ne erano altri appostati nelle vicinaze, ho notato delle ombre muoversi, ma c'era buio e non li ho visti in faccia".

"Saranno stati i fantasmi di Cantalanotti!" disse Cacanidu, ridacchiando, "e ci avete pure rimesso i fucili!".

"Perché non andate a prenderli!" riprese Vastianu.

"Ma chi fà, cugliunìi!" rispose Spirdatu, "piuttosto me ne vado a letto a dormire per dimenticare questa brutta avventura".

E, salutati gli amici, si avviò verso casa pensando più che al brutto ceffo o fantasma, al fucile abbandonato in quella brutta circostanza ed alle smorfie che avrebbe dovuto sopportare dalla moglie che l'aveva consigliato a non partecipare a quella precipitosa spedizione notturna.

Anche Ginetta, sconsolata, dirigendosi verso casa, andava ripetendo: "Non vado a dormire finché non torna Tanu!".

L'Abbucàtu, intanto, fatto un giro per le stradine del paese, si ritrovò dinanzi alla Chiesa madre, seduto sulla gradinata antistante, assieme ai suoi discepoli.

"L'inquisizione!" andava ripetendo, "che brutta parola!

In Sicilia tutti parlano di tutto, ma nessuno scrive, tutti parlano di mafia, sottovoce s'intende, ma nessuno ha il coraggio di mettere nero su bianco, di dire cosa fa tizio, chi ha ucciso caio, come campa quell'altro.

Ma c'è un quasi nostro compaesano, che comincia a dire la sua ed a scrivere. Voi sapete chi era Fra Decu?".

"Un brigante" disse Totuccio, "e c'è pure una grotta quà vicino che porta il suo nome!".

E subito cominciò a favoleggiare sui tesori nascosti nel fondo, frutto delle rapine e degli espropri di Fra Decu.

"Bravo per la grotta, ma somaro per il brigante!" rispose l'Abbucàtu, "Ma che brigante e brigante! E' stato un martire Fra Decu, è stato assassinato dalla cosiddetta sacra inquisizione, dai preti palermitani, povero diavolo, nel carcere dello Steri a Palermo!

Torturato con chiodi, corde, anelli e collari di ferro, sopportò tenacemente, finché, a colpi di manette, uccise l'inquisitore: per questo fu arso vivo, come il grande Giordano Bruno!

La leggenda però lo vuole brigante ed assassino, avendo ucciso l'uomo che avrebbe disonorato la sorella, e quindi ricercato dalla giustizia: ed ecco la grotta pronta a far da naturale riparo per la sua pelle e per i frutti delle sue rapine".

"Ci siamo andati l'anno scorso" disse Totuccio tutto infervorato, dopo il commovente racconto appena sentito.

E così proseguì: "Oh, Frà Dèeh.." ci mettemmo a gridare, in direzione dell'imboccatura, non appena fummo a un tiro di schioppo dalla rocca, tendendo l'orecchio per sentire meglio l'eco di ritorno: ed effettivamente "fra Decu" rispondeva alle nostre chiamate e confesso che qualche brivido percorse le nostre schiene all'idea di dovere entrare nella tana di quel povero frate così barbaramente arso vivo.

Ci avvicinammo alla rocca ma ci fu impossibile arrampicarci perché avremmo dovuto piantare dei chiodi: allora vi girammo intorno calandoci dall'alto davanti l'imboccatura della grotta.

Ci inoltrammo nella caverna per qualche metro finché la luce del sole ci permetteva di vedere il percorso: quindi accendemmo un paio di torce preparate per l'occasione.

L'ingresso sembrava piuttosto ampio, ma a pochi metri si apriva una voragine che esaminata con l'aiuto delle fiaccole e con una pietra legata ad una corda come scandaglio non sembrava più profonda di una diecina di metri.

Ci calammo con cautela uno per volta, dopo aver fissato bene le corde a due robusti chiodi.

Due di noi tuttavia erano rimasti di guardia all'ingresso per sicurezza, e per fortuna!

Dopo pochi minuti l'antro fu pieno di un denso ed acre fumo, l'aria diventò irrespirabile, gli occhi cominciarono a lacrimare abbondantemente e la fuga fu precipitosa!

Ci ritrovammo all'esterno a smaltire una violenta tosse ed a respirare a pieni polmoni: ma chi aveva manomesso le torce preparate con la solita resina?".

"Questo è il fumo del rogo di Fra Decu!" sentenziava Salvatore, battendosi il petto per meglio respirare.

"Altro che tesori! Questa è la vendetta di Fra Decu!" gridava Totuccio, che, terrorizzato, giurava di non mettere più piede in quella grotta, colpita dalla maledizione di quel frate, martire della delirante violenza ecclesiastica.

 

Cap. 7 - Le indagini

Da circa mezz'ora Spirdato e gli amici cacciatori erano tornati dalla loro ingloriosa spedizione, sporchi di sangue di coniglio e senza le loro doppiette abbandonate sul campo, quando Turiddu, Testacalla e gli altri due fecero la loro comparsa in piazza.

Turiddu al suo strano abbigliamento da guerriero romano aveva aggiunto una doppietta sì da sembrare adesso un feroce bandito in procinto di tendere un agguato.

Saltellava, come era solito fare, brandendo con la destra il fucile appartenuto poco prima a Testacalla, e, digrignando i suoi pochi denti, urlava felice: "Li abbiamo scoperti, quei farabutti, sono scappati via abbandonando il fucile!" e lo mostrava alzandolo sempre più in alto come un trofeo di guerra.

Testacalla avanzava serio e preoccupato per come erano andate le cose: se prima era timoroso per essersi cacciato in quella pericolosa avventura, adesso lo era ancora di più perché mentre lui non conosceva l'identità di quei banditi che si erano dati alla fuga abbandonando le armi, quelli sicuramente adesso avrebbero saputo chi li aveva stanati.

"Sono scappati come fulmini", prese a raccontare Testacalla, "Turiddu si era sistemato dietro un muretto per fare un suo bisogno quando, rialzatosi spaventato in seguito a due spari, li vide scappare in direzione del paese lasciando sul terreno le loro doppiette".

"E meno male che non hanno continuato a sparare!

Avrebbero potuto uccidere Turiddu, quei farabutti, se non si fossero spaventati della sua strana apparizione!" continuò l'amico.

"E sono scappati portandosi via il coniglio!", aggiunse ridacchiando Vastianu che aveva capito al volo come erano andate effettivamente le cose.

"Quelli erano Spirdatu e gli altri cacciatori, andati anche loro, come voi, alla ricerca dei banditi" soggiunse "e sono scappati abbandonando le armi credendo che voi foste i banditi!".

"Porca miseria, ci è andata bene!" disse Testacalla, risollevato e quasi incredulo, guardando gli altri due che annuivano e si scambiavano occhiate di soddisfazione.

Che armata! Era partita alla ricerca di vittime mafiose e per poco non restava essa stessa vittima dei suoi amici cacciatori!

L'unico felice era Turiddu che, ignaro di tutto, continuava a dare spettacolo alle tre di notte, mostrando a tutti il fucile conquistato e raccontando con dovizia di particolari la fuga di quei banditi, dopo la sua comparsa sul muretto.

"Vado a restituire il fucile a Spirdatu che a quest'ora chissà come sarà 'accuttufatu'"74 disse Vastianu prendendo uno dei fucili ed avviandosi verso il vicolo.

"Ed io vado a dormire, finalmente!" rispose Testacalla, ripromettendosi in cuor suo di non fare altre fesserie e di essere più riflessivo in altre simili circostanze.

Tanu e Panzagrossa, dopo oltre due ore dalla loro partenza, ancora non davano notizie.

In piazza erano rimasti pochi curiosi, i due bar avevano chiuso i battenti, mentre dalle finestre di Rubamazzu fuoriusciva una debole luce, segno che il sindaco ancora non riusciva a prendere sonno.

In paese ormai dominava il silenzio rotto soltanto dai rintocchi dell'orologio della chiesa, puntuali ogni quarto d'ora.

Anche l'Abbucatu, dopo le sue storie di mafia ed inquisizione, era sparito dalla circolazione, segno che aveva spedito a letto i suoi discepoli e si era ritirato in preda alle sue meditazioni rivoluzionarie.

Lo scricchiolìo di una porta che si apriva fece girare quei pochi testardi ancora appostati sotto il lampione all'angolo della piazza: due persone, con tascu e baffetti fecero la loro comparsa sulla soglia della porta di Rubamazzu.

Licenziandosi con un "sabbanedica a vossia" svoltarono in fretta sulla via laterale e sparirono nel buio.

Subito dopo anche le finestre di Rubamazzu si oscurarono.

Non passarono cinque minuti che Minicu, uno dei pochi rimasti sotto il lampione, rivolto agli amici disse: "Cumpà! Arriva qualcuno".

Nel silenzio infatti cominciarono ad udirsi sempre più distintamente dei passi affrettati e due ombre comparvero dal fondo della strada che portava verso la piazza.

Presto si intravvide la grossa mole di Panzagrossa e quella più esile di Tanu.

Giunti sotto il lampione, si accasciarono sfiniti sul marciapiede e, incuranti della loro divisa, si liberarono della bandoliera, del berretto e delle armi poggiandoli per terra, tirando un grosso sospiro di sollievo.

"Marascià!" disse Minicu, "Non avete trovato nulla?".

"Abbiamo trovato le tracce di una sparatina e questo" rispose Panzagrossa, mostrando il berretto rinvenuto nel viottolo.

"Solo tracce?" gli rispose Minicu.

"Eh! Solo tracce, caru Minicu, se volevi sapere di morti, non c'era nessun morto!".

"E ne abbiamo fatto di strada, siamo sfiniti" disse Tanu.

"Si vede che i morti sono risuscitati!" commentò Minicu in tono scherzoso.

"Ridi, ridi" lo interruppe Panzagrossa, "vedrai che se morti ci sono stati, e ci sono stati, i morti spunteranno! Magari dietro la porta della chiesa".

Avevano infatti ispezionato, per quel che si poteva vedere, data l'ora della notte e la fioca luce della luna bassa all'orizzonte, tutto lo stradale fino al confine comunale: impossibile infatti andare per i campi senza un'indicazione precisa e coll'unico indizio di alcuni botti sentiti in lontananza.

L'unica indicazione in loro possesso era la direzione da cui presumibilmente erano partiti i colpi: ed era già un bel problema individuarla correttamente.

E la distanza? Uno, due chilometri? Come regolarsi?

Pertanto, di comune accordo, decisero di dare un'occhiata alla strada comunale per poi al ritorno ispezionare la mulattiera più frequentata che dalla vicina miniera portava in paese.

Guardinghi e circospetti, moschetto imbracciato e camminando a poca distanza uno dall'altro, giunsero sulla montagnetta prospiciente il paese, controllando i muretti che delimitavano lo stradale alla ricerca di eventuali indizi che potessero far supporre un conflitto a fuoco di una certa entità.

Erano o no sbirri? Certo il buio della notte non facilitava le cose, ma adesso che l'aria fresca della campagna aveva contribuito a far smaltire la brutta sbornia presa nella bettola di zi Carminu, Panzagrossa si sentiva a suo agio.

Tanu, da buon gregario, gli stava dietro e seguiva i suoi consigli da esperto, anche perché, finalmente, non era quella smorfiosa della sua Ginetta ad ordinare di fare questo o quell'altro, come succedeva sempre in casa: stavolta a comandare era il maresciallo e sarebbe stato volentieri ai suoi ordini.

Finora, per un verso o per un altro, aveva dovuto sempre ubbidire, in vita sua: ma fosse stata vera quella soffiata di una sua prossima promozione, finalmente, poteva sperare di avere una caserma tutta per sè con dei subalterni cui poter dare ordini.

E quelle dicerie su Ginetta? In paese si mormorava che l'avessero vista abbracciata a Panzagrossa, in caserma, dove andava spesso, vuoi per cercare Tanu, vuoi per andare ad acquisire notizie su quanto succedeva in paese, visto che ci teneva ad essere sempre informata su tutto.

E vai oggi, vai domani, i vicini, le male lingue, si fa in fretta ad inventare e costruire storie spesso senza fondamenta: Tanu l'aveva saputo in gran confidenza da un suo compare di "tavuliddi", nel corso di una bevuta.

Con tanto di delicatezza gli aveva confidato che la gente mormorava, che forse sarebbe stato meglio che per un pò Ginetta non si facesse vedere in caserma, che erano tutte calunnie di invidiosi.

"Pì mìa sunnu tutti chiacchiri, però sapìti com'è! Cu lu pò sapìri?"75concludeva l'amico, come per dire: nulla di vero, ma potrebbe essere vero, pirandelliano, insomma!

Ed il tarlo del dubbio rodeva il povero Tanu, che non si dava pace anche se somma era la fiducia in Panzagrossa, più che in Ginetta.

E poi con quella mole da elefante e quella pancia da far fatica persino ad allacciarsi le scarpe, come avrebbe potuto accoppiarsi con la sua Ginetta, così esile e delicata?

No, non era possibile! Sicuramente erano chiacchiere di invidiosi, e di invidiosi e calunniosi in quel paese ce n'erano in quantità.

Rimasero in silenzio addossati ad un albero scrutando attentamente tutt'intorno, nella speranza di potere udire qualche rumore o vedere eventuali luci o movimenti sospetti.

Dalla montagnetta si poteva scorgere tutta la vallata sottostante: il paese addossato a semicerchio alla collina sembrava assopito in un sonno irreale, ignaro di quanti intrighi e malaffari covassero tra quelle casette e quella piazza rischiarata appena dai piccoli lampioni sparsi qua e là.

E quella grande croce del calvario, anch'essa appena illuminata da una debole luce? Doveva star lì a protezione di tutte quelle anime buone che si ricordavano della sua esistenza solo il venerdì santo, quando in pia processione vi issavano il Cristo morto? Forse un giorno si sarebbe catapultata su quei falsi cristiani e li avrebbe trafitti con gli stessi chiodi ancora sporchi di sangue!

Certo aveva ragione zi Giuvanni, che assistendo alla crocifissione, il giorno del venerdì santo, commentava: "A te, ti inchiodano una sola volta all'anno, ma noi siamo qui inchiodati tutti i santi giorni!".

Tanti avrebbero meritato quella sorte. E certamente molti di quelli che per devozione portavano l'urna sulle spalle o affiggevano le mille lire sulla tunica del santo, mentre la processione, accompagnata dalla banda musicale, i confratelli bardati della loro divisa, i preti salmodianti sotto il baldacchino, attraversava le vie dei santi parate a festa.

Dopo qualche minuto sentirono un canto giungere dalla parte bassa dello stradale ed avvertirono una grande ombra spostarsi lentamente lungo lo stesso. Tesero bene le orecchie ed udirono distintamente le parole: "Curnùtu cu li corna crìpi crìpi, ddà intra si cci aggiùccanu li cràpi",76 ritmato a voce alta.

"E'quel matto di Cantalanotti!" disse Tanu a Panzagrossa, "se ne va sempre di notte per trasportare la paglia dalle aie in paese: e canta, forse per farsi coraggio!".

"Beato lui! Lasciamolo cantare" disse Panzagrossa.

Rimasero ancora in attesa, ma solo il fruscio delle fratte mosse da qualche coniglio ed i rintocchi dell'orologio della chiesa del paese sembrava volessero far loro compagnia.

Decisero quindi di fare ritorno percorrendo la "trazzera"77 che dalla vicina solfatara portava diritto fin sotto la chiesa.

Fu in quel momento che udirono distintamente due spari provenire dal lato opposto dello stradale.

Tanu ebbe un attimo di paura, e pensò: "Ci siamo!".

Ma Panzagrossa capì subito trattarsi di due colpi di doppietta esplosi in direzione delle tane.

"Sarà stato qualche cacciatore di frodo!" disse a Tanu, "Forse è meglio muoversi e fare ritorno in paese".

Fosse comparsa a loro, anzicchè al povero Spirdatu, la stravagante figura di Turiddu, appollaiato su quel muretto, chissà come sarebbe andata a finire!

Iniziarono la discesa della trazzera che portava a fondo valle, facendo attenzione a non inciampare, dato il fondo sdrucciolevole, e soprattutto a non fare rumore.

Dopo un centinaio di metri si ritrovarono in una zona pianeggiante dove il sentiero era ben visibile, ma costeggiato da spine e piante di fico d'india.

Panzagrossa e Tanu procedevano speditamente facendo attenzione a non pungersi, spostando con la canna del moschetto le piante che intralciavano il loro cammino, onde evitare il contatto con quelle meledette "pale"78 ricolme di irti pungiglioni.

"Fermi!" disse Tanu, che precedeva Panzagrossa, "C'è qualcosa di strano".

Rimasero un istante in silenzio, poi visto che tutto sembrava tranquillo avanzarono un po’, mentre Panzagrossa, accesa una piccola pila, illuminava il viottolo, facendo attenzione a non spargere quella piccola fonte di luce oltre il sentiero per non segnalare la loro presenza.

"Ci siamo!" disse Panzagrossa, "La sparatina è avvenuta sicuramente qui!".

L'erba tutt'intorno era stata calpestata, parecchi "balloni"79 di fico d'india erano stati divelti, mentre alcuni, alla luce della pila elettrica, sembravano sforacchiati in più punti.

Indizi sicuri di una sparatoria: ma il morto?

Ci doveva pur essere un morto!

Cercarono tutt'intorno alla ricerca di un corpo o di eventuali bossoli, ma fu inutile: il corpo sicuramente non c'era.

In quanto ai bossoli, data l'oscurità appena rischiarata dall'esile luce della pila e l'erba alta, non era possibile trovarne.

"Un tascu!" disse Tanu a Panzagrossa, chinandosi e raccogliendo un berretto che giaceva a qualche metro dal sentiero.

"Sarà appartenuto a quel povero disgraziato" disse Panzagrossa, "A questo punto sarà meglio andarcene e tornare più tardi a controllare meglio con la luce del sole".

Spenta la pila elettrica, si avviarono verso il paese, giungendo in pochi minuti in piazza, dove Minicu e gli altri curiosi, testardamente, attendevano notizie.

Ripreso il berretto, la bandoliera ed il moschetto, il maresciallo Panzagrossa ed il carabiniere Tanu si avviarono alle rispettive case. Minicu e gli altri tenaci curiosi rimasero alcuni minuti a commentare le notizie avute dai due carabinieri prima di decidersi a ritirarsi.

Un silenzio irreale era sceso sulla grande piazza, la fioca luce dei pochi lampioni illuminava gli alberi che, mossi da un leggero vento, proiettavano strane figure sul lastricato.

Il grande pino, che alle prime luci dell'alba sarebbe esploso di allegria per le migliaia di passerotti che ospitava, dormiva tranquillo, anche se conscio di tutti gli strani avvenimenti delle ore precedenti, unico testimone di tante storie più tristi che allegre, se ne stava lì, muto, da oltre un secolo, impossibilitato a rivelare i tanti misfatti che si erano compiuti e andavano compiendosi sotto la sua grande mole.

Avesse potuto parlare! Avrebbe raccontato di complotti, di omicidi, di soprusi, e personaggi come Rubamazzo e i suoi accoliti non sarebbero stati a quell'ora a godersi a casa loro il meritato riposo delle ore notturne.

Il resto della notte passò tranquillo in attesa che l'alba rimettesse in moto il paese.

 

Cap. 8 - L'epilogo

E l'alba arrivò. Cominciarono i caratteristici rumori dei contadini che si preparavano per andare nei campi, si udiva la moglie chiedere a Turiddu se avesse preso il pane ed il formaggio, i cani cominciavano ad abbaiare, lo scalpitio degli zoccoli dei muli che si avviavano verso la campagna e che rimbombavano nel silenzio urtando contro il lastricato di pietra lavica.

Si udivano, come sempre, il rumore dei "sùrchiari"80 dei vicini che aprivano la porta, i 'firrariaddi'81 che cominciavano a tirar fuori gli utensili, lu zi Luvigi che borbottando con la moglie spostava sul marciapiede il suo banchetto con gli attrezzi da ciabattino, il passo spedito degli zolfatai che si recavano nella vicina miniera.

E non mancava neanche zi Peppi che, come ogni mattino, in piazza, distribuiva il mangime ai piccioni che numerosi accorrevano a consumare la loro quotidiana razione.

Fra poco sarebbero arrivati dai paesi vicini i venditori ambulanti coi loro carretti variopinti per presentare le loro merci, urlando a più non posso: "Biancu e finu haiu lu sali", "Cuasetti per uomo, cuasetti per donna","Accattativi l'ùagliu ca passa l'ugliàru",82e così per tutta la giornata.

Quindi la voce del pescivendolo che avrebbe cercato di svendere il suo pesce spesso puzzolente che non era riuscito a smerciare nei paesi vicini, diminuendo il prezzo ad ogni giro del paese, poiché tanti attendevano l'ultimo passaggio per pagarlo il meno possibile.

Anche la grande piazza cominciava a dare segni di vita.

Dai bar appena aperti arrivavano i rumori delle macchine per la produzione della granita e presto l'odore delle paste fresche di forno avrebbe saturato l'aria tutto intorno.

Alcuni contadini erano in attesa che il tabaccaio aprisse il negozio per fornirsi di trinciato prima di recarsi in campagna, mentre il primo avventore, sempre lo stesso, aveva preso posto sulla sedia del barbiere, deciso a sfruttare fino in fondo il suo abbonamento annuale, pagato con un tumulo di frumento, valido per sè e per tutta la sua famiglia.

E i due fratelli Spilunconi? Quella era la loro stagione, e non potevano certo perdere tempo a dormire. Avevano già attaccato il loro enorme setaccio ad un grosso chiodo e fra poco avrebbero cominciato la cernita del frumento per conto di donna Letizia. Bisognava vederli all'opera quei due: altissimi e mingherlini, dopo aver versato nel grande "crivu"83 un sacco di frumento, cominciavano a roteare quell'enorme attrezzo, spingendolo ora a destra ora a manca, in modo da fare raccogliere al centro dello stesso eventuali impurità.

Quindi fermandosi "di botto", eliminavano quanto estraneo al frumento e, con uno scatto sincronizzato, frutto di anni di esperienza, spingendo in alto il setaccio e ritraendolo da una parte, lasciavano cadere il contenuto, pulito da ogni impurità, su una grande coperta.

E mentre un inserviente, con un tumulo, provvedeva a travasare in un sacco il frumento pulito, i due avevano già ripreso a roteare l'enorme setaccio.

Le campane annunziavano che la chiesa madre aveva aperto i battenti ed i parrocchiani più mattinieri si avviavano a passi spediti ad assistere alla prima messa, celebrata sempre dallo stesso prete che, in men che non si dica, "dall'introìbo" si catapultava "all'ite missa est",84 predica e comunione compresa!

E dal momento che le indulgenze erano uguali a quelle del "lunghissimo e noiosissimo" arciprete, chi poteva, di buon mattino si metteva anima e coscienza in pace.

Chi non riusciva a mettersi l'animo in pace, era zi Basarànu che, con quell'arciprete aveva dei conti in sospeso: a suo dire, infatti, quel furbacchione d'accordo con la sua cricca, imbrogliando le carte, gli aveva "fregato" la miniera di zolfo. E tanto torto non doveva averne visto che monsignore, facente parte della sua stessa grande famiglia, si era impossessato di tutti i diritti di sfruttamento: come avesse fatto rimase un "mistero di fede", simile a quello che celebrava ogni mattino, con tanta flemma, ai piedi dell'altare maggiore.

Il gruppo di mietitori che la sera prima si era addormentato dietro il muretto che costeggiava la piazza, nella speranza di poter trovare all'alba un po’ di lavoro, si era appena svegliato e stava rassettando i pochi miseri indumenti che erano serviti da cuscino per la notte, quando un urlo straziante si levò alto da uno di loro: "Aiuto! Aiuto! Curriti! C'è un morto!", e in men che non si dica, acchiappato il suo misero tascapane ed afferrata la falce, si allontanò stravolto verso il bar.

L'idea di aver dormito a fianco ad un morto per tutta la notte lo sconvolse a tal punto che, fatti pochi passi, si accasciò a terra svenuto.

Ci fu un fuggi fuggi generale, mentre i piccioni intenti a beccare il mangime, spaventati da quell'urlo, volavano via sollevando una gran nuvola di polvere.

In effetti una persona giaceva riversa accostata al muretto, tutta imbrattata di sangue con la schiena sformata da decine di fori di grosse pallottole.

Zi Peppi, che si trovava al centro della piazza, non sapendo a chi dei due prestare soccorso per prima, abbandonato il secchio col mangime per le colombe, corse verso quel povero mietitore nel tentativo di rianimarlo, urlando a sua volta: "Aiuto! Chiamate il dottore!".

Ormai quel povero diavolo, bianco in volto come la cera, non dava più segni di vita.

Dalle persiane di fronte fece capolino la figura di Rubamazzu che, con atteggiamento strafottente, sorseggiava un caffè, sollevando il suo dito mignolo al cielo ogni qualvolta accostava la tazzina alle labbra, mentre con la mano sinistra sorreggeva la sua inseparabile pipa, fumante già a quell'ora del mattino.

Il primo ad accorrere alle richieste di aiuto fu il barbiere che, lasciata a metà la barba appena iniziata al suo primo avventore, si ritrovò sulla scena con in mano il rasoio ancora sporco di peli e sapone.

Uno spettacolo tragico e buffo si sarebbe presentato a chi per caso, ignaro dell'accaduto, fosse passato in quel momento: una piazza deserta, un morto ammazzato, un morto d'infarto ed un barbiere armato di rasoio!

Si avvicinò al morto coperto di sangue che giaceva a non più di dieci passi dal suo negozio, si piegò nell'atto di volerlo rigirare, ma non resistette a quel macabro spettacolo di morte.

Tornato di corsa nel suo negozio a depositare il rasoio, trovò quell'avventore che, non avendo capito cos'era successo, brontolava perché l'avesse lasciato "ntrìdici",85 ché lui aveva premura di andare in campagna.

"Campagna un corno" gli disse il barbiere tutto agitato, "non vedi che fuori sta succedendo il quarantotto?" e corse ad avvisare il medico, che abitava lì a due passi.

Questi, giunto immediatamente, rivoltato il malcapitato, rimase inorridito alla vista di quello scempio e non poté che constatarne la morte avvenuta qualche ora prima.

"Duttù!" gridava zi Peppi, "venga subito quì, aiuto!", mentre cercava di dare soccorso al mietitore.

Ma neanche il medico poté prestare il suo aiuto: era già morto, nonostante i solleciti massaggi praticati dalla sorella Lupa,86 che passava di lì per caso, diretta in chiesa per la sua prima messa della giornata.

Abile massaggiatrice, si rivolgeva alle sue cure chi aveva problemi alle caviglie, ai polsi, alla schiena: quando le sue cure non davano risultati apprezzabili, allora olio santo e litanie facevano il miracolo!

Per questa volta, però, non le restò che recitare una serie di requiem.

In men che non si dica la notizia si sparse per tutta la piazza ed il paese, svegliando chi ancora, girandosi tra le lenzuola, stava assaporando il tepore del letto prima che la luce del giorno ponesse fine al riposo.

Il medico si recò in caserma ad annunciare la brutta notizia al maresciallo Panzagrossa.

In genere la vista del medico per le strade del paese dava adito a brutti presagi: non perché portasse malocchio o sventura, ma perché si recava da chi la sventura l'aveva già subita.

Riservato e restio, nessuno in paese ricordava d'averlo mai visto sorridere o dare confidenza oltre le necessità professionali.

La gente che già aveva avuta notizia dell'accaduto, seguiva silenziosa il suo incedere verso la caserma, costernata per il grave lutto che aveva appena colpito il paese.

Panzagrossa, ancora assonnato per le poche ore di riposo, fece qualche fatica a tirarsi dal letto quando un subalterno lo svegliò per avvisarlo che il medico aveva urgenza di parlargli.

Si presentò mentre ancora si rassettava la camicia e scusandosi per il suo aspetto poco marziale gli disse: "A quest'ora Voi qui, Duttù!

E' successo qualcosa?".

"Hanno trovato un poveraccio, in piazza, tutto martoriato di colpi, morto da qualche ora" rispose il medico.

"E chissu si sapìa!"87 rispose Panzagrossa, mostrando poca meraviglia a quanto riferito dal medico e facendo tentennare avanti e indietro il suo capo.

"Stanotte avevo capito che un morto prima o poi sarebbe comparso da qualche parte: di chi si tratta?" "Non saprei, sembra irriconoscibile" rispose il medico, "sarebbe meglio andare a controllare".

"Solo un minuto e sono subito pronto!" disse Panzagrossa sparendo alla vista del medico e tornando poco dopo.

"Andiamo!", disse, "non perdiamo tempo".

E mentre a passo spedito si avviavano verso la piazza, il medico raccontava al maresciallo come era stato scoperto il cadavere, dello stato pietoso in cui era stato ridotto quel poveretto e del mietitore morto d'infarto.

"Certamente" diceva il medico, "è stato ammazzato stanotte, fuori dal paese: perché farlo ritrovare in piazza?".

"Che volete, Duttù!" rispondeva il maresciallo, "Quelli hanno un codice tutto particolare: ricordate Canigliazza? Lo abbiamo trovato appeso ad un chiodo da macellaio.

E Cirlicaca? Con la lingua mozzata e la bocca piena di sassolini! Questo, invece, "sparato" in una "trazzera" ce lo ritroviamo a fare bella mostra di sè in piazza! E' questione di codice!".

"Ma avrà addosso non meno di cento pallottole!

Anche questo fa parte del codice?" ribatteva il medico.

"Si vede che il loro codice è ben articolato: a chi tocca il chiodo, a chi i sassolini, a chi cento pallottole! Ed è già un miracolo che siano finiti addosso ad una sola persona!" rispose Panzagrossa mentre giungevano in prossimità della piazza.

Ginetta aveva svegliato Tanu non appena la notizia le era giunta alle orecchie. Questi in men che non si dica, indossata la divisa, era corso in caserma per aggregarsi ai due: non avendoli trovati si era messo a correre raggiungendoli nei pressi della piazza.

Parecchie persone si erano sistemate a semicerchio intorno al morto, mentre altre ne giungevano da ogni via adiacente la piazza, andando ad ingrossare il cordone creatosi non appena l'urlo del mietitore aveva rotto il silenzio del mattino.

Tutti volevano accostarsi per vedere da vicino, tutti volevano sapere di chi si trattava, ma nessuno aveva il coraggio di rivoltare quel corpo, dal momento che visto di spalle ed imbrattato di sangue era praticamente irriconoscibile.

Il brusio iniziale era diventato vocio e dal vocio si era passato agli strilli: chi spingeva a destra, chi a sinistra, chi saltava appoggiandosi alle spalle di chi gli stava davanti, sperando di intravedere qualcosa, chi urlava.

Una calca incredibile intorno a quel povero morto, oggetto di tanta attenzione, sicuramente non meno di quanta ne aveva avuta in vita.

Erano sì tutti curiosi, ma tutti temevano di riconoscere un amico, un parente, un congiunto.

"Un si po’ mai sapìri!"88 commentavano due che rimasti nelle retrovie della calca non riuscivano a farsi largo neanche a spallate.

"Largo! Largo!" tuonò la voce di Panzagrossa giunto nei pressi assieme al medico ed a Tanu.

Immediatamente si aprì una falla nel muro di persone ed i tre poterono avvicinarsi al cadavere mentre un silenzio assoluto piombò sulla folla, poco prima vociante.

Al medico spettò il compito di girare il morto che giaceva bocconi e con un fazzoletto gli pulì il viso tutto imbrattato di sangue.

"Ma è Tanuzzu l'amiricanu!" esclamò Panzagrossa, non appena da quella maschera di sangue comparve un viso a lui ben noto, con due baffetti ed una cicatrice sulla guancia sinistra.

Ed estratto dalla tasca il berretto trovato nella trazzera poche ore prima, glielo pose sulla testa: calzava perfettamente!

Nello stesso istante si udì un tintinnio causato da qualcosa che, caduto dal berretto era finito sul lastricato della piazza: il maresciallo si chinò e raccolse una pallottola. La esaminò rapidamente, mormorando: "Lupara!".

Non c'erano dubbi che la persona che giaceva immobile in un fiume di sangue, al centro della grande piazza, sotto le finestre di Rubamazzu, fosse la stessa trucidata a tradimento durante la notte, sulla trazzera che portava alla miniera.

Un vocio si levò tra la folla ed il nome di Tanuzzu fu sulla lingua di tutti i presenti.

"Che succede?" disse Turiddu, dimentico di quanto era successo la notte appena trascorsa e del trambusto che aveva causato la sua presenza, in più d'una occasione.

Era appena giunto in piazza per i suoi primi giri quotidiani per il paese: avvolto nei soliti costumi da guerriero romano, con la destra impugnava una lunga lancia mentre con la sinistra reggeva una corda alla cui estremità erano legati due piccoli cani bastardi.

Appresa la notizia, rimase immobile, l'animo ricolmo di emozione, a rendere l'estremo saluto al povero Tanuzzu, quasi un Arcangelo Gabriele a custodia della tomba del Cristo morto.

"Sicut et nunc!" furono le sole parole che riuscì a profferire, certo che quella frase, straniera per lui, pronunciata spesso dall'Abbucatu, fosse una frase importante, e che bene potesse adattarsi alla circostanza.

E meglio di così non poteva esprimersi il povero Turiddu: nulla è cambiato, così anche adesso!

Nulla poteva cambiare in quel paese sperduto tra le colline dorate, dove l'unica legge era quella mafiosa e l'ordine che vi regnava, se di ordine è lecito parlare, era quello dell'omertà e della paura.

La fame era la vera padrona di ogni azione, di ogni respiro, di tutto: per un pezzo di pane tanti galantuomini, e ce n'erano, si vedevano costretti a diventare ladri, assassini, servi di prepotenti senza scrupoli.

Per paura e per ricatto non vedevano e non sentivano nulla di quanto accadeva sotto i loro occhi, davanti le loro porte, sui campi, dove passavano la maggior parte della loro vita di contadini.

Così la miseria prosperava, la fame aumentava di giorno in giorno, il crimine faceva nuovi proseliti ad ogni angolo di strada.

Ed il povero Tanuzzu l'amiricanu, che col suo comportamento aveva tentato di smuovere quell'enorme macigno che gravava sulla schiena di tanti sventurati, non poteva certo sottrarsi alla logica del terrore e della "sparatina" mafiosa dei vari Rubamazzu: potenti ed intoccabili, finchè il coraggio restava nascosto nei dammusi o nelle alcove delle loro fresche case di gesso.

"Hanno ammazzato Tanuzzu l'amiricanu!" dicevano, "perché l'hanno ammazzato? Che ha fatto, poverino!".

"Ma chi gliel'ha fatto fare a tornare in Sicilia! Poteva restarsene in America!" diceva uno.

"Tanto, America o Sicilia, l'avrebbero fatto fuori lo stesso!" commentava un altro.

"Povera Rosina! Era rimasta sola dopo la morte dei suoi due vecchi: adesso ritorna ancora sola!".

"Mah! Sopìdda cu fu! Ccà nenti cangia!" rispondeva un terzo, con aria triste ed atavica rassegnazione. 89

"Cu fù! Cu fù! Chiuvìddu! 90Come se non si sapesse chi può essere stato! Tutti lo sanno, no?" rispondeva l'altro.

A pochi minuti dal fatto, tutti erano "sapituri", tutti commentavano come fossero stati presenti alla sparatoria: avessi però chiesto a quei galantuomini così informati, così sicuri nei loro commenti, chi fosse stato secondo loro l'autore del crimine appena commesso, sarebbero subito diventati insicuri e dubbiosi.

Come potevano dire "chi e perché!", loro che erano a casa a dormire a quell'ora della notte!

Se Panzagrossa avesse chiesto ad uno se sapeva qualcosa, se avesse visto l'amiricanu in compagnia di Tizio o di Caio magari tre giorni prima, questi avrebbe prima alzato le spalle verso il cielo e poi spostato la testa all'indietro.

Era l'aria che respiravano a suggerire impressioni e suggestioni, nome e cognome, stando attenti però a non pronunziarli mai, per carità: erano cose intime, personali, sensazioni, da commentare magari con gli amici ma non da riferire ad un maresciallo o ad estranei che potevano metterti nei guai.

Mezza parola detta per sbaglio oggi, li avrebbe costretti a dire l'altra metà l'indomani, ad ammettere che erano stati all'osteria a consumare un bicchiere di vino col tizio: e già si vedevano con un piede nella fossa!

E bastava confessare di aver sentito un certo discorso, bevendo s'intende, distrattamente, per caso, che l'altro piede andasse a raggiungere il primo!

Il giorno precedente era giunto in paese un forestiero, che cercando il Parroco, aveva chiesto in perfetto italiano al primo passante dove fosse la Chiesa Matrice: "Maria! Iù nenti sacciu!"91 aveva risposto questi spaventato, alzando le braccia al cielo e svignandosela alla svelta.

Quello, girandosi, si accorse di avere la chiesa alle spalle!

Erano esattamente il contrario dei musicanti della banda del maestro Grenci che, presi uno a uno erano dei bravi solisti, accordatissimi, maestri insomma, ma messi insieme per suonare in concerto, stonavano clamorosamente!

E chi poteva dar loro torto, quando l'esempio veniva dall'alto? Quando spesso erano le stesse autorità a non vedere e a non sentire quanto succedeva intorno? Quando per tutti l'unico riferimento erano le finestre di quel furfante di Rubamazzu?

Verso quelle finestre, infatti, Panzagrossa e Tanu si girarono istintivamente: le imposte, aperte fino a pochi attimi prima, si erano improvvisamente chiuse, come se a Rubamazzu, che stava gustando il suo primo dei tanti caffè della giornata, mancasse il coraggio di incontrare lo sguardo del maresciallo Panzagrossa.

In quel preciso momento uno sparo, proveniente da quelle finestre, interruppe il chiacchiericcio che si era levato dalla piazza dopo la scoperta del corpo di Tanuzzu l'amiricanu.

Seguirono, a breve distanza uno dall'altro, un secondo ed un terzo colpo.

"Colpi di pistola!" disse Panzagrossa rivolto a Tanu, e corsero in quella direzione, mentre la piazza si spopolava in seguito al fuggi fuggi generale.

Girato l'angolo i due si trovarono davanti al portone di Rubamazzo, stranamente accostato: salirono di corsa le scale, giungendo nella sala dalle cui finestre, poco prima, il sindaco aveva fatto bella mostra di sè.

Aperte le imposte, lo videro a terra in una pozza di sangue, mentre Rosina, seduta in un angolo, con tra le mani la pistola di Tanuzzu ancora fumante, guardava esterrefatta il cadavere di colui che, fino a pochi attimi prima, era stato il terrore del paese e forse l'ultima sua illusione d'amore.

Le previsioni di Panzagrossa si erano avverate, ma il grasso maresciallo non avrebbe potuto prevedere un epilogo con tanti morti.

Egli pertanto dette ordine a Tanu di fare coprire quei tre cadaveri e sconsolato se ne tornò in caserma ad avvisare le autorità competenti, per "eventuali" indagini.

"Sveglia! Sveglia!" gridò la mamma ad Angelino, "Sono quasi le sette! Fra un'ora parte la corriera per la colonia: non vorrai restare a terra!".

Angelino aprì gli occhi a fatica, quando l'orologio della chiesa suonava le sette.

Si sentiva come intontito: si era addormentato con quel lungo e strano suono dell'orologio, e quei tocchi che non finivano mai gli rimbombavano ancora nelle orecchie.

"Dai, Angelino, alzati! Stanotte devi aver fatto un brutto sogno: ti giravi e rigiravi continuamente nel letto. Sarà stata l'emozione per la partenza!".

"E l'orologio?" disse Angelino sollevandosi dal letto.

"Stai tranquillo, il nonno ha sistemato ogni cosa già la notte scorsa: si era rotto un meccanismo e l'orologio si era messo a suonare in continuazione", rispose la mamma.

"Meno male!" disse Angelino, rincuorato da quella notizia: fosse rimasto guasto chi avrebbe aiutato il nonno nella riparazione? Lui doveva partire per la colonia e non avrebbe potuto perdere quell'occasione.

Mentre accompagnato dalla mamma si dirigeva verso la corriera, giunto all'angolo con la piazza, istintivamente si fermò un istante.

Gettò lo sguardo quasi atterrito verso il muretto, di fronte al barbiere, alla ricerca di un cadavere, ma tutto era pulito e tranquillo: anzi, il muretto non c'era più!

Girò gli occhi verso le finestre di Rubamazzo: al loro posto notò un'insegna pubblicitaria.

Volse allora lo sguardo alla ricerca dei mietitori: neanche l'ombra.

"Che brutto sogno!" mormorò sommessamente.

La mamma lo strattonò dolcemente, dicendogli: "Sbrigati Angelino, o la corriera se ne va!".

L'autista infatti strombazzava da un pezzo in attesa che l'ultimo passeggero ritardatario si decidesse a prendere posto, per iniziare il viaggio verso un mese di spensierata vacanza.

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