R I C E R C H E

                                                                                                                                                                             

Domanda al Vescovo di Caltanissetta mons. RUSSOTTO:

Eccellenza mons. Russotto,

congratulazioni per il lavoro che svolge con dedizione presso la comunità religiosa della nostra provincia. Io, montedorese, abito a Milano da molto tempo.

Mi permetto di portare alla Sua conoscenza un fatto increscioso occorso tanti anni fa, cioè il barbaro e crudele omicidio di una ragazzina di soli 13 anni, LUCIA MANTIONE, avvenuta a Montedoro, di cui a suo tempo s’interessò la stampa locale. La ragazzina, figlia di una modesta e cattolica famiglia di contadini, venne rapita il 6 di gennaio 1955 e ritrovata cadavere dopo alcuni giorni presso un casolare in campagna. L’autopsia eseguita dal prof. Stassi dell’Università di Palermo scoprì che il corpo della ragazza era assolutamente integro, e che la sua morte era dovuta ad asfissia. Il bruto, nel tentativo d’impedire alla ragazza di urlare, le turò bocca e naso uccidendola. Sulla ragazza solo un graffio. Grande fu lo strazio della famiglia e della comunità montedorese, che mai ha dimenticato un simile fatto oltraggioso.

Ma come si comportò il Clero, in testa il parroco di Montedoro, mons. Alfano Vito? Negando la benedizione alla piccola salma e negando i funerali religiosi in chiesa!

Cosa aveva compiuto di così grave la piccola, se non di farsi uccidere piuttosto che cedere alla violenza di un bruto, mai scoperto? A distanza di tanti anni, la riscoperta di questa storia empie di rabbia e disgusto il sottoscritto e tutta la comunità di Montedoro. Ella, eccellenza, spero vorrà esaminare questa triste vicenda, e ridare l’onore che merita a questa piccola "martire". Ella, eccellenza, conosce meglio di me il significato di questa parola, tanto amata dalla Chiesa, della quale Ella è importante rappresentante.

Nel ringraziarLa ed augurarLe un prospero lavoro, Le porgo i miei più cordiali saluti.
   Federico Messana 

 

Risposta dal Vescovo

Carissimo Federico,
Rispondo alla email che ha mandato circa il pietoso e drammatico caso di Lucia Mantione di Montedoro.
Le fornisco le uniche informazioni, peraltro scritte in latino dall’arciprete Alfano, che risultano dai nostri registri, e precisate nel registro parrocchiale dei battesimi di Montedoro.
Lucia Mantione, nata il 22 marzo 1942 a Montedoro, da Rosario e Serpe Maria. Battezzata nella chiesa madre di Montedoro il 1 aprile 1942 dal sacerdote Calogero Pizzillo, padrini i coniugi Gregorio Duminucoe Maria Palermo. Nessun altro dato risulta dai registri, neanche la data di morte né alcun accenno alla incresciosa vicenda o ai funerali.
Ho dato ordine all’attuale arciprete Sac. Salvatore Asaro di celebrare la santa Messa in riparazione e suffragio di Lucia il 6 gennaio pomeriggio del prossimo anno, a nome e per volontà del Vescovo.
Grato, La benedico nel Signore.
+ Mario Russotto Vescovo

 

 

    

 

                                                                                                                       

 

                    LA STORIA DI LUCIA

                                                                        

                                                        Montedoro, 6 gennaio 1955


               Tra meno di due mesi Lucia avrebbe compiuto 13 anni. A tredici anni, una ragazzina in quel paese e negli anni quaranta del secolo scorso, era considerata una bambina, ingenua e soprattutto senza alcuna esperienza di vita. E tale era da ritenersi Lucia Mantione se, dopo aver frequentato la quinta elementare era rimasta, come tante sue coetanee, in famiglia per accudire alle faccende domestiche ed alle tante necessità quotidiane. Il paese poteva definirsi sicuro, perciò anche una bambina poteva muoversi indisturbata per vicoli e vie, per giocare con le amiche coetanee o per sbrigare i piccoli servigi richiesti dalla mamma. A recente memoria nulla di particolarmente sgradevole era stato denunziato, nessuna azione di violenza verso minori e nessun atto riprovevole che lasciasse presagire il sia pur minimo allarme. Si diceva del resto che in paese ci si conosceva tutti, che i 3700 abitanti accalcati in un fazzoletto di terra erano tutti amici o parenti, e che regnava il rispetto reciproco tra tutte le famiglie. In quegli anni il paese aveva raggiunto il massimo numero di abitanti, nonostante l’emigrazione verso le Americhe, e solo negli a venire la forte emigrazione verso il nord li avrebbe dimezzati.

            Nel piccolo paese non erano ubicate fabbriche né stabilimenti di alcun tipo; unico lavoro possibile era quello dei campi, ed all’agricoltura erano normalmente avviati i figli degli agricoltori che possedevano un pezzo di terra ed un mulo per lavorarla. L’alternativa per i giovani era di dedicarsi allo studio, e pochi ne avevano la possibilità, oppure di andare a bottega presso un artigiano, come sarto o fabbro ferraio. Le ragazze invece avevano un’altra occasione di lavoro e d’apprendimento. In quegli anni era scoppiata la moda del ricamo, perciò le sarte si circondavano di ragazze che volessero imparare quel mestiere. Ed erano diventate veramente brave se i loro pregiati prodotti erano richiesti dai tanti commessi che giungevano da ogni parte per acquistarli a buon prezzo. Si vedevano questi signori giungere con macchine capienti e grosse valigie, ripartire carichi di biancheria finemente lavorata, per poi tornare ogni inizio settimana per altri acquisti. Prodotti molto apprezzati che finivano nelle vetrine di eleganti e prestigiosi negozi. Pizzi e merletti, capi di biancheria intima, corredi, stole e tanti altri prodotti di sartoria. Non a caso, la nostra paesana Vita Sciandra donerà a Papa Giovanni Paolo II una stola finemente lavorata, frutto del suo lavoro e della sua lunga esperienza di ricamo. La nostra Lucia invece non s’era dedicata alla sartoria come alcune sue amiche.

           La conformazione orografica divideva in due il paese: una parte bassa comprendeva la piazza e le vie principali, come la via dei santi, così chiamata perché attraversata dalle processioni nelle feste solenni, la chiesa, i bar ed i locali pubblici, mentre la parte alta la circondava da ovest a nord come una conchiglia, con le vie che s’inerpicavano ripide. In fondo ad una scalinata verso nord sorgeva un vecchio edificio che ospitava i locali scolastici. E proprio in una via laterale all’inizio di questa scalinata, in via Aspromonte, abitava Lucia con la propria famiglia, mamma, papà, fratelli e sorelle. Una famiglia modesta, come tante in paese.  I dammusi e le case ad un solo piano pullulavano di marmocchi di tutte le età, e la vita quotidiana normalmente si svolgeva fuori l’uscio di casa, data l’esiguità dello spazio dell’abitazione. Fuori dell’uscio veniva esposto il banchetto di chi aveva un’attività artigianale, fuori era stesa la biancheria ad asciugare, le mandorle o il pomodoro da essiccare. Era quindi impossibile che una persona che usciva di casa per una qualche incombenza non venisse notata. Normalmente si scambiavano due chiacchiere coi vicini, pettegolezzi tra comari, notizie sull’andamento della semina o del raccolto.

           Vigevano i vecchi costumi per cui tra ragazze e ragazzi che non avevano una conoscenza diretta parentale o di vicinato o di studio, gli unici rapporti erano "visivi", ci si incontrava cogli occhi durante le interminabili passeggiate in piazza o all’uscita dalla chiesa dopo le funzioni domenicali. Così ci si intendeva per eventuali fidanzamenti, senza aver profferito parola, quando invece non era la famiglia, tramite una sensale o un amico compiacente, a comunicare che sarebbe stato gradito il fidanzamento della propria figlia o figlio, senza che i due si conoscessero. I bambini potevano quindi giocare e scorrazzare per vie e piazze fino a tarda ora, per fare ritorno alla propria abitazione quando, venendo meno la luce del giorno, si accendevano i lampioni posti agli angoli delle strade. A quel punto un urlo di gioia copriva il silenzio che regnava per le vie, silenzio rotto soltanto dal rumore degli zoccoli dei muli che con in groppa i loro stanchi padroni facevano ritorno dai campi dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro. E forti e rauchi si sentivano gli incitamenti dei contadini che ordinavano al mulo d’accelerare l’andatura o di fermarsi perché giunto davanti l’uscio di casa, prima di legarlo al classico anello ed alleggerirlo della pesante soma.

           Era un giovedì, il sei di gennaio del 1955, giorno della befana. Anche se il giorno precedente aveva piovuto, le basse nubi, che al primo mattino coprivano la parte inferiore del paese ed i campi circostanti, s’erano dissolte sotto un timido sole, sufficiente per asciugare la piazza e le vie del paese. In paese la befana per tradizione era alquanto povera, e non portava regali importanti ai bambini, come nel giorno dei morti, ma solo qualche dolciume e caramelle. E così dev’essere stato per la povera Lucia appartenente ad una modesta famiglia contadina che sbarcava il lunario col duro lavoro dei campi.

          Nel tardo pomeriggio di quella giornata uggiosa dei primi di gennaio, un leggero vento freddo di tramontana soffiava da nord; scendendo per la scalinata che portava alle scuole elementari, investiva la via principale del paese fino alla piazza. Poche erano le persone in giro per le strade, e solo un gruppo di ragazzi si attardava a giocare a pallone nella piazza detta "del dopolavoro". Rimaneva ancora aperta la sala del bigliardo frequentata dai tanti amanti di quel gioco, come il farmacista don Tatà Lima che, accanito fumatore, alternando una sigaretta all’altra, studiava mosse sul tappeto verde e faceva proseliti. Era in corso una delle tante infuocate partite a carambola tra don Tatà e don Giovanni, e fin verso la piazza s’udiva il rumore delle palle che sbattevano una sull’altra, seguito dagli incitamenti e dagli applausi che gli astanti tributavano ai due contendenti.

         La sera incipiente cominciava ad oscurare le vie, mentre rimanevano aperte ed illuminate le porte dei negozi per offrire ai clienti ritardatari le ultime mercanzie della giornata. Aperte erano le imposte del macellaio "la Vampa", quelle della "Scarpareddra" che vendeva generi alimentari, quelle del forno "La Mariuzzeddra" con andirivieni di clienti che portavano a casa la classica focaccia calda per la cena. Tutto secondo un rituale scandito dai rintocchi dell’orologio della chiesa che batteva ogni quarto d’ora. Anche il negozio dei Salvo (Nnummarùni), situato all’inizio della scalinata, era aperto ed esponeva davanti l’uscio frutta e verdura d’ogni genere. Ogni tanto qualcuno della numerosa famiglia faceva capolino ed urlava (vanniàva) i suoi prodotti, portando i palmi delle mani aperti ai lati della faccia per meglio veicolare la sua voce in una certa direzione.

 

                                      L'AFFANNOSA RICERCA di LUCIA                                                         

Il buio era già calato da un pezzo e tutto sembrava tranquillo come ogni sera; chi si fosse trovato a percorrere la via principale Vittorio Emanuele, come le altre del resto, avrebbe sentito il tintinnio delle stoviglie e la voce dei genitori che invitavano i figli a tavola, segno che la cena era imminente.

"Avete visto per caso Lucia? Era uscita per andare a chiamare il fratellino che giocava per strada, ma ancora non è tornata a casa", disse la donna con voce concitata.

Era la mamma di Lucia, che cercava la figlia di appena tredici anni. Solo adesso con l’avanzare del buio s’era resa conto della sua assenza, distratta dalle faccende domestiche, o perché pensava che fosse davanti casa a giocare con qualche amica. Il fratellino era tornato da solo, senza Lucia, da circa mezz’ora, ed evidentemente non s’erano incontrati.

"No, da qui non è passata oggi pomeriggio. Non è ancora tornata a casa?", domandò la proprietaria del negozio.

"Solo adesso ci siamo accorti che manca da circa un’ora. Il fratello è tornato, lei no".

"Provate a chiedere a mastro Rosario o al forno. Magari è rimasta a chiacchierare con le sue amiche", disse quella di rimando.

"Avete visto Lucia’", andava gridando sempre più concitata e disperata, bussando ad ogni portone, ad ogni negozio ancora aperto, a chi incontrava per strada.

La risposta era sempre negativa, nessuno l’aveva vista per le vie del paese.

          Alla mamma s’erano aggiunti i figli ed i parenti, sparpagliandosi per le vie appena illuminate, altri volenterosi ed amici spontaneamente si misero alla ricerca di Lucia, setacciando tutte le vie del paese, la piazza, i bar, le trattorie. Ma nessuno forniva notizie sul suo passaggio, nessuno l’aveva vista quel tardo pomeriggio, Lucia sembrava essere svanita nel nulla. A quel punto furono avvisati i carabinieri, correndo nell’unica piccola caserma situata nella parte alta di via Diaz. Questi si diedero subito da fare coadiuvando i familiari alla ricerca della scomparsa. Prima lungo le vie del paese, già setacciate dai parenti senza alcun esito, quindi con una camionetta cominciarono a perlustrare l’immediata periferia e lo stradale appena fuori dell’abitato. Non ottenendo alcun risultato, rimandarono le ricerche alle prime luci dell’alba del mattino seguente, il 7 di gennaio.

           Intanto nella casa di Lucia era scesa la più cupa disperazione, singhiozzi, pianti ed urla s’udivano a distanza, le luci rimasero accese tutta la notte. Ormai tutti disperavano che la piccola potesse fare ritorno a casa, ed un triste presagio aveva preso il sopravvento su ogni pur minima speranza. Disperato il padre, infermo ed impossibilitato a collaborare alle ricerche, disperata la madre, i fratelli e le sorelle. Inutilmente i vicini cercavano di consolare quei poveri disgraziati. Solo a notte fonda giunse un po’ di quiete, in attesa delle prime luci della nuova e speranzosa alba.

           Di buon mattino i carabinieri di Montedoro, capeggiati del tenente Marzollo, ripresero le ricerche nel circondario, sicuri che la ragazzina, viva o morta, non poteva trovarsi in paese ma in qualche anfratto o in una delle tante casette abbandonate nei campi immediatamente fuori del paese. Si sbagliavano? Chi lo sa; per essere certi ed escludere ogni ipotesi, avrebbero dovuto mettere a soqquadro tutte le abitazioni del paese, cosa non facile d’attuarsi, e con risultato non prevedibile. Allora indirizzarono i controlli cominciando dai viottoli che portavano verso la campagna, discesero le trazzere dietro il cimitero, poi quelle che passando per la Cuba portavano verso Fontana Grande, risalendo verso l’Albanello fin sotto il monte Ottavio. Girarono verso la parte est del paese fin sotto il Calvario, poi verso la Madonna delle grazie per risalire fin verso la Chiesa. Due giorni di affannose ricerche senza trovare tracce o indizi di un eventuale passaggio della giovane Lucia.

 

         

              Alle 8,30 della domenica 9 gennaio, quindi dopo tre giorni dalla scomparsa di Lucia, il fratello di lei Rosario, che insieme al cognato Giuseppe aveva ripreso le ricerche, scoprì il corpo della ragazzina. Giaceva dentro un piccolo tugurio, da tempo abbandonato e senza tetto, in contrada Cuba, a sinistra della trazzera che porta verso contrada Fontana Grande. Giaceva per terra a bocca aperta, le narici dilatate e le vesti scomposte sul corpo. Un carabiniere, impegnato nelle ricerche e che si trovava nei pressi, corse in paese a comunicare la triste notizia che subito rimbalzò di bocca in bocca e di casa in casa. Grande fu lo strazio dei familiari che, ormai rassegnati al triste ed inevitabile evento, poterono perlomeno darsi momentanea pace. L’autorità giudiziaria di Caltanissetta, informata del ritrovamento del corpo, accorse immediatamente sul posto. Fu chiamato ad esaminare il cadavere il dott. Mancuso che, constatata che la morte era avvenuta per asfissia prodotta da strangolamento, dispose la rimozione del corpo della povera Lucia. Senza ombra di dubbio fu quindi un assassinio, e quasi certamente delitto a scopo sessuale. Fino a quel momento ignoto fu l’assassino (o assassini) e nessun dubbio poté sussistere verso parenti o amici della ragazza, data la sua condotta assolutamente irreprensibile e che mai aveva dato adito a pettegolezzi di alcun genere.

           Molti misteri s’accavallarono intorno alla sua morte e molte illazioni e commenti si sentirono per le vie del paese. Chi sarà stato il misterioso assassino? L’avrà strangolata perché si opponeva ai tentativi di violenza o ha compiuto l’efferato delitto dopo averla violentata per atroce voluttà di sadico? Domande, illazioni e supposizioni che potranno essere chiariti solo dopo che verrà effettuata l’autopsia sul povero corpo. Intanto i carabinieri con a capo il tenente Marzollo, insieme alla squadra mobile di Caltanissetta, continuano ad indagare attivamente per fare luce sull’efferato delitto. Certo è che una giovane ragazza, figlia di una famiglia di contadini col padre infermo, è stata barbaramente uccisa da un mostro senza nome: almeno per ora. Intanto la madre disperata implora un’esemplare vendetta verso l’assassino, se mai sarà smascherato.

Così riferirono il triste evento i giornali dell’epoca, i primi giorni dopo la scoperta del cadavere.

                            

 

 

                 Intanto emergevano nuovi particolari sul rinvenimento del cadavere di Lucia, evidenziati anche dalla stampa locale. Infatti vicino al corpo della ragazza erano stati rinvenuti un coltello a serramanico, chiuso, ed un bottone. E’ stato accertato che il coltello a serramanico sarebbe appartenuto all’individuo, o agli individui, che assassinarono Lucia, mentre il bottone apparteneva alla camicetta della ragazza. Da elementi raccolti dalla polizia pare non doversi escludere che più d’un individuo fu con la ragazza sul luogo del delitto. Frattanto il mistero s’è fatto più fitto che mai, perché non solo sono caduti i sospetti che si erano addensati sui due giovani fermati e poi rilasciati dalla polizia, uno di questi da poco uscito dal riformatorio di San Cataldo, ma anche la perizia necroscopica non ha potuto fornire alcun elemento. La ragazza, infatti, è risultata perfettamente integra nel corso dell’autopsia eseguita dal prof. Stassi dell’Università di Palermo, né traccia alcuna di violenza è stata rilevata sul suo corpo tranne un graffio al mento. Al collo della vittima, che è certamente morta per asfissia, nessuna traccia delle impronte dello strangolatore. Poiché però la ragazza era in possesso di un fazzoletto da collo, le dita dell’assassino, premute sulla stoffa, non hanno lasciato tracce sulla pelle. Anche questa però è un’ipotesi perché in effetti nessuno sa dire se al momento del rinvenimento la ragazza portasse al collo tale fazzoletto che invece al cimitero le è stato rinvenuto in tasca. Altra ipotesi è che la ragazza sia stata asfissiata dalla mano dell’assassino scesa a turarle la bocca per non farla gridare, e inavvertitamente o volontariamente calata anche sul naso provocando la morte della fanciulla per asfissia. Gli abiti in ordine della ragazza e l’assenza assoluta di tracce di lotta sul luogo del delitto starebbero a dimostrare che Lucia si recò sul posto volontariamente, e che colui o coloro che le si accompagnavano lo facevano col suo assenso. Gente, quindi, perfettamente conosciuta dalla vittima? Si può pensare che la ragazza sia andata all’appuntamento di uno spasimante il quale ad un dato momento volle andare oltre il segno del consentito e la ragazza deve aver minacciato di gridare, o addirittura deve aver preso a gridare. Questo deve aver fatto perdere la testa all’accompagnatore che cercò di zittirla con la mano o col fazzoletto da collo. C’è chi suppone che l’accompagnatore della ragazza fosse un uomo sposato, e che proprio tale sua condizione lo avesse spinto ad eliminare la fanciulla nel momento in cui lei minacciò di svelare l’intenzione di violentarla. Quanto al coltello rinvenuto per terra è chiaro che esso o fu smarrito casualmente dall’assassino o di esso egli si servì, benché chiuso, per minacciare la vittima. Ora il coltello è rimasto l’unica debole traccia in mano alla polizia.

 

                                                          

      

            La perizia necroscopica oltre ad appurare che la ragazza era integra, ha potuto accertare che ella è morta circa trentasei ore prima del rinvenimento del suo cadavere. Resta da stabilire dove e con chi sia stata nel periodo di tempo intercorso tra la sua scomparsa da casa e la sua morte. A ciò si aggiunga quest’altro particolare: una mano della ragazza aveva le dita aperte e i muscoli contratti, era insomma artigliata, come nel tentativo di afferrare qualcosa cui appigliarsi, o di graffiare chi stava per ucciderla. Se la ragazza fosse caduta nel luogo dove è stata rinvenuta, cioè in aperta campagna dove la terra era molle e fangosa per la pioggia, le sue dita al contatto con la terra bagnata avrebbero dovuto sporcarsi. Poiché questo non è avvenuto, e rifacendosi all’interrogativo dove e con chi ha trascorso un giorno e mezzo prima di essere uccisa, possiamo avanzare l’ipotesi che la ragazza non sia stata assassinata sul luogo dove è stato rinvenuto il suo cadavere, ma sia stata trasportata dall’assassino quando era già cadavere. Il mistero insomma si infittisce. Sempre nuovi elementi vengono a galla, ma non fanno che rendere ancora più difficili le indagini.

             Dopo le indagini iniziali, in seguito al rinvenimento del corpo della povera Lucia, cosa fu fatto per appurare la verità su quel nefando delitto? Immagino nulla. I tanti fermati a caso, dopo i due iniziali, nulla ebbero a riferire in merito, nessun indizio serio venne alla luce, nessun colpevole. Nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito, nulla era successo come nei peggiori delitti di mafia. Eppure la ragazza, uscita di casa alla ricerca del fratellino, come aveva riferito la mamma, non s’era potuta allontanare più di tanto dalla sua abitazione, avrebbe potuto svoltare a sinistra verso via Roma o verso la via Vittoria che porta alle vecchie case popolari. Poteva avere un appuntamento "amoroso" con qualche amico, come riferirono le cronache, ed essere andata a casa di questo? Non credo sia plausibile data l’ora e l’incarico che aveva avuto dalla mamma, e soprattutto da come viene descritta: una ragazzina "molto ingenua, innocente, schietta". Non resta altra ipotesi che nel breve tragitto sia stata avvicinata da qualcuno ed attirata "ingenuamente" in trappola, portata in casa oppure verso la campagna, distante poche centinaia di metri. Io propendo per la prima ipotesi perché, se fosse stata portata subito in campagna, l’omicida l’avrebbe abbandonata sul posto. Invece, da come risulta, è stata portata nel casolare da morta. Al pomeriggio del sabato, infatti, c’era stato un temporale, e se Lucia si fosse trovata distesa nel casolare senza un tetto, sarebbe stata trovata bagnata. Quindi l’omicida ha provveduto a disfarsi del cadavere tra il sabato notte e la domenica mattina; alle otto e trenta il fratello ed il cognato scoprirono il corpo. Viene da chiedersi però se quel casolare fosse stato controllato nei giorni successivi alla scomparsa. Purtroppo tutto l’incartamento delle indagini, dopo ben 63 anni, è stato distrutto o scomparso. I carabinieri di Montedoro dicono d’averlo consegnato in procura a Caltanissetta, mentre a questa nulla risulta. In tempi moderni sarebbero intervenuti i RIS, avrebbero prelevato tracce di DNA, avrebbero fotografato la scena del crimine nei minimi particolari. Ma eravamo nel 1955 con forze dell’ordine poco competenti e con attrezzature inefficienti. E se "dall’alto" fosse arrivata una confidenza a lasciar perdere, le indagini potevano concludersi immediatamente con un nulla di fatto. Come spesso era successo per altri gravi fatti. Con ciò non voglio adombrare nessun dubbio sull’onestà e sulla buona fede dei nostri carabinieri, che spesso giungevano dal nord, ignari dei luoghi e della mentalità della gente del posto, e che operavano in condizioni disagiate.

Ma in paese tanti avevano visto, svisto, non visto, come al solito, ma nessuno profferì parola per indirizzare le indagini nel giusto verso. Di converso cosa fa la polizia? Accusa un giovane "demente", uscito da qualche giorno dal riformatorio di San Cataldo. Accusa che poi si ritiene infondata. Ma chi era costui? Credo lo stesso che, all'epoca tredicenne, era stato accusato del delitto Gaetano Genco, e poi rilasciato perchè manifestamente  estraneo al fatto. Giusto per gettare un cono d'ombra sul grave fatto.

           Io tredicenne, e quindi suo coetaneo, all’epoca non ebbi contezza del fatto perché mi trovavo a Randazzo, in collegio dai Salesiani, ma ho sempre saputo ed avuto pena e compassione per la povera ragazza. Ho voluto riepilogare questa storia affinché, data l’evoluzione, la distrazione e la volatilità delle notizie di questi tempi frenetici, soprattutto presso i giovani, il suo ricordo non cada nell’oblio, e serva da monito a tutti.

            Ai parenti della povera Lucia può lenire il dolore solo la consolazione che la ragazza non sia stata violata dal sadico omicida, perché è stata lei ad opporsi ed a non dare modo allo sciagurato di farlo. Tutto il paese è rimasto scosso da quel triste evento, e conserva ancora memoria del fatto. Sulla sua tomba infatti, entrando nel cimitero appena a sinistra, mani pietose depongono sempre un fiore, a memoria della povera ed incolpevole Lucia.

                                     

 

 

                                                   UNA PASSEGGIATA ALLA "SABBUGIA"
                                           
di Calogero Messana

Passando lungo lo stradale per Serradifalco, giunti al confine del territorio di Montedoro, si intravede una collina di calcare che domina la vallata. Centinaia di volte siamo passati lungo quella strada senza potere vedere dal basso cosa si nasconde in mezzo alle pietre che circondano la cima della collina.

In una giornata asciutta ho deciso di salirvi con la macchina fotografica. Man mano che ci si avvicina si scorge la particolare struttura della collina: una cerchia di massi delimita un’area in pendio esposta a mezzogiorno, adesso seminata a grano, ma che probabilmente costituiva la delimitazione naturale di un antico insediamento.

Ogni masso di calcare porta i segni di antiche presenze . Decine e decine di tombe a camera scavate , o appena abbozzate , segnano le pareti delle candide pietre: ho pensato alla ben più nota Pantalica.

Conoscevo le due tombe Sicane della contrada Guarini poiché ci giocavamo da bambini quando si andava a raccogliere le olive, ma quelle della Sabbugia, ad appena 500 metri di distanza, sono molto più numerose. Sicuramente, scopro solo oggi, che è il luogo più insediato e frequentato del passato che si trovi nel territorio di Montedoro.

Non conosco gli studi fatti sull’area ma il toponimo arabo al-sabbuq fa pensare che anche in quell’epoca fosse luogo frequentato. Purtroppo non vi è, a vista, alcuna traccia di resti ceramici o vetri, ma più in basso, nel cosiddetto "Lago di Giù " una "senia" per sollevare l’acqua è ancora presente ed è stata attiva fino a qualche decennio addietro.

Per ora mi accontento di mostrare le foto scattate ma spero di poterci ritornare con persone esperte per approfondire la conoscenza del luogo.    

                                                                              

                                                                                                                   

                                                                               

   

                                                                           

    

                                                                         Scoperta (in casa della farmacista Gigina Morreale) una boccettina del famoso olio  Migneco     
                                                                                                     
Nella foto si legge chiaramente G.M. (Giuseppe Migneco)     
                                                                                                     
  
                                                                                 
vedi articoli su Migneco e Pappalardo

               

                            
            Mulino ad acqua con movimento orizzontale
Un mulino simile si trova in
contrada Catalano a Montedoro
            fare clik sull'immagine per vedere il servizio
                    
(ricerca di Calogero Messana)
 
   ARCHEOLOGIA A MONTEDORO
                    
di Calogero Messana

                         

 

 

                          
                                   1929
    ARRIVA L'ELETTRICITA' A MONTEDORO  

           Documento di Calogero Messana

 

                          
   Interessante ricerca di Calogero Messana

Ho  provato  a giocare  un po'  sulla  pianta di Montedoro .Dalla  masseria Balatazza ( in  arancione) ai successivi  sviluppi  dell'abitato  fino a  prima dell'unita'  d'Italia. Le  varie fasi dello sviluppo urbano  dovrebbero essere verosimili . Ho seguito le notizie di Petix e  quanto  é  rilevabile anche  da  Google :  Si nota (in giallo)  che  le  costruzione della fondazione erano ben allineate ,  gli spazi  intermedi  sono stati  chiusi in un secondo tempo (probabilmente  erano cortili interni ).La  quantità  di immobili  edificati al 1650  ,circa ,  ospitava  78 famiglie ,  che  e' compatibile  con le  zone  di colore arancione e  giallo.